Anche nella separazione obbligatorio l'atto pubblico per la risoluzione della donazione
11 Maggio 2020
Massima
Anche nel caso di accordo tra coniugi per la risoluzione di una donazione e quindi la retrocessione dei diritti immobiliari al donante, deve essere rispettata la stessa forma dell'atto originario e principale. Il caso
Tizio con atto a rogito Notaio Romolo Romani del 2006 donava a Caia, divenuta successivamente sua moglie per matrimonio concordatario, la nuda proprietà di un immobile. Successivamente i coniugi si separavano consensualmente alle condizioni omologate dal Tribunale, in conformità ai patti di cui alla scrittura privata sottoscritta dai coniugi ed allegata al ricorso congiunto di conversione della separazione giudiziale in consensuale, in cui dichiaravano di disciplinare le questioni patrimoniali relative alla quota di nuda proprietà sull'immobile donato. In modo particolare, nell'allegata scrittura i coniugi convenivano che i diritti trasferiti alla moglie per atto notaio Romolo Romani venissero ritrasferiti al marito, ragione per la quale la prima “si impegnava a comparire dinanzi al notaio … per sottoscrivere l'atto la cui bozza viene allegata alla presente scrittura e sottoscritta dalle parti”, il tutto in una scrittura rubricata: “Risoluzione di donazione per mutuo consenso”. La moglie Caia si rendeva inadempiente dell'obbligo assunto di retrocessione del bene ricevuto in donazione. Il Tribunale adito, accoglieva la domanda del marito-attore e disponeva il trasferimento ai sensi dell'art. 2932 c.c. in suo favore dei diritti immobiliari di nuda proprietà dell'immobile. Nelle conclusioni raggiunte dal primo giudice, l'atto negoziale avrebbe dovuto ricondursi nello schema del “pagamento traslativo” funzionale alla separazione consensuale ed il suo inadempimento avrebbe legittimato la parte al rimedio di cui all'art. 2932 c.c., consentito in ogni fattispecie da cui sorga un obbligo di prestare il consenso al trasferimento o alla costituzione di un diritto. Caia ricorreva in appello, deducendo la mancanza di un proprio obbligo a prestare il consenso circa il (ri)trasferimento dell'immobile e, comunque, l'invalidità della scrittura di risoluzione della donazione allegata al ricorso congiunto per separazione consensuale in difetto della forma pubblica e, segnatamente, della presenza di due testimoni, prescritta ex art. 1351 c.c. La Corte di appello accoglieva l'impugnazione affermando la natura autonoma dell'atto rispetto all'accordo di separazione, individuando la causa della scrittura unicamente nell'impegno di Caia a risolvere la precedente donazione, senza alcun riferimento alla volontà di tacitare i pregressi obblighi patrimoniali assunti in costanza di matrimonio. La Corte di merito riteneva dunque che con la scrittura allegata al ricorso per separazione consensuale l'appellante si era impegnata a sottoscrivere un contratto di risoluzione consensuale di una donazione che, ove ammissibile, doveva però ritenersi nullo per difetto della forma dell'atto pubblico solenne che avrebbe dovuto rivestire al pari dell'atto donativo su cui andava ad incidere. Tizio ricorre in Cassazione. La questione
È valida la scrittura privata, allegata al ricorso per separazione consensuale, in cui i coniugi convengono la risoluzione di una precedente donazione, con impegno di comparire dinanzi al notaio per la sottoscrizione del relativo atto? Le soluzioni giuridiche
La Cassazione preliminarmente precisa che gli accordi di separazione personale fra i coniugi, contenenti attribuzioni patrimoniali da parte dell'uno nei confronti dell'altro e concernenti beni mobili ed immobili, conoscono nell'esperienza giudiziaria una loro tipicità, sostenuta dalla volontà dei coniugi di dare una sistemazione ai rapporti patrimoniali in occasione dell'evento “separazione personale” o in sede di divorzio congiunto. L'intento sotteso agli indicati contratti - precisa la Cassazione - sfugge sia alle connotazioni proprie dell'atto di donazione vero e proprio – destinato a rimanere estraneo al contesto della separazione, contrassegnato, invece e proprio, dal venir meno di ogni connotazione di liberalità, nella dissoluzione delle ragioni dell'affettività – che a quelle dell'atto di vendita, in difetto della corresponsione di un prezzo. Per vero – continuano gli Ermellini – negli atti di volta in volta conclusi e sorretti dall'indicato intento si apprezzano i tratti dell'obiettiva onerosità piuttosto che di quelli della gratuità e tanto in ragione dei concreti contenuti dei primi, nell'assolta eventuale ricorrenza di una sistemazione “solutorio-compensativa” nell'ambito di tutta quell'ampia serie di rapporti capaci di assumere, anche di riflesso, significati patrimoniali nel corso della convivenza matrimoniale. Nel caso di specie - afferma la Corte di legittimità – il richiamo a siffatti accordi non è pertinente: infatti, l'accordo dei coniugi, contenuto in una scrittura privata allegata al ricorso per separazione consensuale, era finalizzato a concludere un successivo negozio di risoluzione per mutuo consenso di una pregressa donazione, destinato ad operare con efficacia ex tunc ed a ripristinare la situazione patrimoniale quo ante, senza che tuttavia tale accordo venisse considerato funzionale alla risoluzione della crisi coniugale e senza alcun riferimento alla volontà di tacitare i pregressi obblighi patrimoniali assunti in costanza di matrimonio. In altri termini, sostiene la Suprema Corte, la Corte di appello ha correttamente affermato la natura autonoma dell'atto rispetto all'accordo di separazione, individuando la causa della scrittura unicamente nell'impegno di Caia a risolvere la precedente donazione. Premesso ciò, la Cassazione affronta il tema della validità della scrittura privata contenente l'impegno alla risoluzione di una precedente donazione. Il principio di simmetria delle forme richiede che il negozio accessorio rivesta la medesima forma di quello principale sicché anche il contratto di risoluzione di una donazione deve rivestire la forma pubblica. La Corte di Cassazione conferma così le conclusioni della Corte di merito, secondo cui la scrittura privata allegata al ricorso per separazione consensuale con cui uno dei coniugi si era impegnato a sottoscrivere un contratto di risoluzione consensuale di una donazione deve ritenersi nulla per difetto della forma dell'atto pubblico solenne che avrebbe dovuto rivestire al pari dell'atto donativo su cui andava ad incidere.
Osservazioni
Nessun dubbio sussiste sulla liceità di un accordo con cui le parti risolvono un proprio precedente contratto, cioè di un negozio risolutorio convenzionale diretto ad estinguere un precedente rapporto giuridico patrimoniale e ad eliminarne gli effetti. Dispone infatti l'art. 1321 c.c. che il contratto è l'accordo di due o più parti per costituire, regolare o estinguere tra loro un rapporto giuridico patrimoniale. A ciò si aggiunge l'espressa previsione normativa contenuta nell'art. 1372 c.c. che indica proprio il mutuo consenso (o, indifferentemente, mutuo dissenso) fra i modi di scioglimento del contratto. In sostanza, se l'ordinamento giuridico permette al soggetto di realizzare i propri interessi ponendo in essere determinati atti giuridici, correlativamente gli permette di ritrattare la volontà prima manifestata qualora essa non dovesse più corrispondervi. Il “ritiro” di un atto giuridico viene a configurarsi come un mezzo “negativo” che l'ordinamento giuridico mette a disposizione dei soggetti per la cura dei loro interessi, quegli stessi interessi che avevano determinato l'atto costituente oggetto del ritiro: «il fondamento del mutuo dissenso va ravvisato nel fatto che, poiché la stabilità del vincolo è posta nell'interesse delle parti, non avrebbe senso non consentire loro di slegarsi da detto vincolo quando entrambe lo desiderino» (M. CEOLIN, Sul mutuo dissenso in generale e, in specie, parziale del contratto di donazione, Studio n. 52-2014/C, Approvato dall'Area Scientifica - Studi Civilistici del Consiglio Nazionale del Notariato il 21 marzo 2014). L'espressione “il contratto ha forza di legge tra le parti”, adoperata nell'art. 1372 c.c., non va quindi interpretata alla lettera, ma esprime solo il concetto della non risolubilità di un contratto per volontà unilaterale. Dunque, «il fenomeno della irrevocabilità cui quel principio si riferisce, opera pertanto in senso essenzialmente unilaterale, esprimendo la tendenziale irrilevanza di una iniziativa individuale di “ritrattazione” dell'impegno contrattuale precedentemente assunto: esso mira, cioè, a sottrarre il vincolo negoziale alla libera disponibilità di una singola parte, traducendosi nell'impossibilità per ognuno dei contraenti di sciogliersi dal contratto per propria unilaterale determinazione» (A. LUMINOSO, Il mutuo dissenso, Milano, 1980, 32). Con riferimento specifico alla donazione, la dottrina più antica riteneva tuttavia che l'irrevocabilità fosse una caratteristica propria della donazione per cui non si riteneva possibile scioglierla per mutuo consenso. Il moderno legislatore ha invece abbandonato il requisito della irrevocabilità, considerato (si legge al n. 372 della Relazione al Re per l'approvazione del Codice Civile del 1942) un inutile relitto del diritto consuetudinario francese, tant'è che nel definire la donazione (art. 769 c.c.) ha eliminato ogni riferimento all'irrevocabilità stessa. Dunque, anche la donazione, al pari di qualsiasi altro contratto, può essere sciolta per mutuo consenso, cioè per concorde volontà delle parti: «le parti, con il contratto di mutuo dissenso, operano così l'effetto estintivo della donazione, salvi eventuali diritti di terzi frattanto acquisiti» (F. ALCARO, Il mutuo dissenso, Studio n. 434-2012/C, Approvato dalla Commissione Studi Civilistici del Consiglio Nazionale del Notariato il 17 gennaio 2013). Circa la natura giuridica e gli effetti del mutuo consenso, secondo un primo orientamento esso può, a rigore, rappresentare una causa di risoluzione dei soli contratti ad effetti obbligatori e non dei contratti ad effetti traslativi ponendosi in evidenza come questi ultimi esauriscano la loro funzione nel momento in cui viene prestato il consenso, sicché, con riferimento ad essi, può solo ipotizzarsi un contratto ad effetti opposti a quelli traslativi già prodotti e non il mutuo dissenso che, come causa risolutiva tipica del contratto, presuppone che il rapporto giuridico sussista e permanga in vigore (Cass. 29 agosto 2018, n. 21312). Partendo da tale assunto, ove le parti intendessero sciogliere la donazione e ritornare alla posizione di partenza, dovrebbero concludere un ulteriore atto traslativo di retrocessione, cioè un negozio autonomo avente efficacia ex nunc, a contenuto e causa uguali e contrari al contratto originario (in tal senso B. BIONDI, Le donazioni, in Tratt. dir. civ. diretto da Vassalli, Vol. XII, Tomo IV, Torino, 1961, 519, secondo cui non è consentito lo scioglimento per mutuo consenso, che dovrebbe riportare le parti nella stessa situazione di prima. Certo è ammissibile, afferma l'Autore, raggiungere praticamente tale risultato; ma non si tratta del comune scioglimento del contratto; l'accordo si sostanzia invece in una donazione inversa, come tale da considerare). In altri termini, secondo tale ricostruzione, le parti per ripristinare lo stato anteriore delle cose non potrebbero fare altro che stipulare una “controdonazione” a parti invertite, nella quale il donatario diventa donante e viceversa (da ultimo, Cass. 7 marzo 1997, n. 2040; Cass. 16 luglio 1997, n. 6488). Il mutuo consenso avrebbe pertanto natura di contrarius actus, che non elimina il precedente contratto ma provvede autonomamente a realizzare una retrocessione con efficacia ex nunc (Cass. 20 dicembre 1988, n. 6959). Sono quindi stati evidenziati gli effetti distorsivi che l'adesione a tale indirizzo comporta: «trattandosi di una nuova donazione, i legittimari del donante (originario donatario) ed i legittimari del donatario (originario donante) potrebbero, tutti, ove sussistessero i presupposti di legge, agire in riduzione alla morte del “proprio donante”; il che, com'è evidente, da un punto di vista pratico, invece di risolvere i problemi li moltiplicherebbe» (F. ALCARO, Il mutuo dissenso, Studio n. 434-2012/C, Approvato dalla Commissione Studi Civilistici del Consiglio Nazionale del Notariato il 17 gennaio 2013). Secondo un diverso orientamento, invero minoritario, il mutuo dissenso avrebbe natura di negozio risolutorio ma con effetti meramente obbligatori, per cui sarebbe inidoneo a realizzare il ritrasferimento per il quale occorrerebbe, invece, un ulteriore negozio di tipo traslativo e solutorio. Secondo questa tesi, con il mutuo consenso le parti pongono in essere un negozio risolutorio che incide con effetti ex tunc sul contratto precedentemente concluso; tuttavia, per ripristinare la situazione precedente alla donazione, occorrono due negozi: uno di carattere obbligatorio, appunto l'atto di mutuo dissenso, dal quale nascerebbe esclusivamente l'obbligo di ritrasferimento, e un successivo atto che, in adempimento di quanto pattuito dalle parti in sede di risoluzione convenzionale, operi effettivamente il ritrasferimento e faccia rientrare il bene nel patrimonio del donante (F. GAZZONI, Manuale di diritto privato, Napoli, 2006, 1032). Secondo un terzo orientamento, condiviso dalla più recente giurisprudenza, la figura del mutuo dissenso costituisce espressione della autonomia negoziale dei privati che sono liberi di regolare gli effetti prodotti da un precedente negozio, a prescindere dalla esistenza di eventuali fatti o circostanze sopravvenute impeditivi o modificativi della attuazione dell'originario regolamento di interessi. La risoluzione convenzionale integra quindi un contratto autonomo, di natura solutoria e liberatoria, con il quale le stesse parti o i loro eredi ne estinguono uno precedente, liberandosi dal relativo vincolo e la sua peculiarità è di presupporre un contratto precedente fra le medesime parti e di produrre effetti estintivi delle posizioni giuridiche create da esso, dando luogo ad un effetto ripristinatorio con carattere retroattivo, anche per i contratti aventi ad oggetto il trasferimento di diritti reali (Cass. 30 agosto 2005, n. 17503; Cass. 31 ottobre 2012, n. 18844; Cass. 10 marzo 2014, n. 5529). Tale effetto, infatti, essendo espressamente previsto dall'art. 1458 c.c. con riguardo alla risoluzione per inadempimento, anche di contratti ad effetti reali, non può dirsi precluso agli accordi risolutori, risultando soltanto obbligatorio il rispetto dell'onere della forma scritta ad substantiam [Cass. 6 ottobre 2011, n. 20445. In senso contrario si è però espressa una giurisprudenza del tutto minoritaria, secondo cui poiché lo scioglimento del contratto per mutuo dissenso, a differenza della risoluzione per inadempimento, non ha, in difetto di specifica disposizione negoziale, l'effetto retroattivo che per quest'ultima è previsto invece dalla norma di cui all'art. 1458, 1° comma, c.c., alla stessa non consegue il ripristino dello status quo ante (Cass. 29 aprile 1993, n. 5065)]. In altri termini, «secondo tale impostazione dunque il mutuo dissenso non produrrebbe né effetti traslativi né effetti obbligatori, ma effetti risolutori, vale a dire distruttivi di ciò che le parti avevano in precedenza creato e costituirebbe pertanto una figura generale ed onnicomprensiva, riferibile perciò ad ogni contratto, la quale ha funzione e contenuto sempre contrattualmente identici, qualunque sia il tipo degli effetti prodotti dal contratto risolto. Nei contratti ad effetti reali, in conseguenza, il “ritrasferimento” del bene dall'acquirente all'alienante non sarebbe un effetto diretto di un siffatto negozio, bensì un effetto mediato conseguente alla risoluzione voluta dalle parti. Ed anzi dovrebbe escludersi che si tratti di un vero e proprio trasferimento, dipendendo l'imputazione della titolarità del diritto a suo tempo alienato in capo all'originario alienante dal ripristino retroattivo della situazione preesistente» (F. MAGLIULO, La natura del mutuo dissenso nei contratti con effetti reali, in Notariato, 2013, 143). Il mutuo consenso costituisce quindi un negozio sui generis, dotato di una propria causa, che viene stipulato dalle parti con lo scopo di eliminare un precedente contratto, qualunque sia la causa di quest'ultimo. Per effetto della conclusione dell'atto risolutivo, che ha efficacia retroattiva, gli effetti prodotti dall'originario contratto sono eliminati, per volontà delle parti, ab origine ripristinando in tal modo la situazione anteriore al negozio sciolto, il quale viene considerato come mai esistito. In sostanza, «con l'atto di mutuo dissenso della donazione si produce, pertanto, la risoluzione consensuale della donazione, il suo “annientamento” ed il ripristino, con effetto retroattivo, dello status quo ante. Si tratta di un “negozio ripristinatorio”, a mezzo di un accordo risolutorio, che comporta la riviviscenza dell'atto di provenienza originario e anteriore all'atto di donazione. L'immobile ritorna, in tal modo, al donante che, proprietario in base al primitivo suo titolo di provenienza, può addivenire all'atto di alienazione con il terzo. Il terzo - con l'alienazione a lui fatta - diventa, in tal modo, proprietario dell'immobile, nei cui titoli di provenienza dei precedenti proprietari sono escluse donazioni» [così A. MAGNANI, La risoluzione della donazione per mutuo dissenso (un rimedio alla potenziale incommerciabilità degli immobili provenienti da donazione), in Riv. notariato, 2004, 119]. L'Agenzia delle Entrate con la Risoluzione n. 20/E del 14 febbraio 2014, affrontando il tema del trattamento tributario dell'atto di risoluzione della donazione per mutuo consenso, aderisce all'indirizzo maggioritario e ribadisce il principio secondo cui il contratto di risoluzione per mutuo consenso concretizza un atto autonomo rispetto al precedente, dotato di una propria causa, che viene stipulato dalle parti con lo scopo di eliminare un precedente contratto, qualunque sia la causa di quest'ultimo. Per effetto della conclusione dell'atto risolutivo, che ha efficacia retroattiva, dunque, gli effetti prodotti dall'originario contratto sono eliminati, per volontà delle parti, ab origine. La questione centrale affrontata dalla sentenza in commento è dunque la seguente: per il contratto di risoluzione consensuale di una donazione è necessaria la stessa forma prevista ad substantiam per il contratto da risolvere (atto pubblico con la presenza di due testimoni, ai sensi dell'art. 782 c.c. e degli artt. 47 e 48 della legge notarile 16 febbraio 1913, n. 89)? La giurisprudenza minoritaria si è espressa in senso negativo, argomentando che la necessità dell'atto scritto, stabilita, in deroga al principio generale della libertà di forma, per tutti gli atti concernenti la proprietà o altri diritti reali su beni immobili, non può essere estesa ad ipotesi diverse da quelle espressamente previste dalla legge (Cass. 16 dicembre 1986, n. 7551; Cass. 6 giugno 1988, n. 3816; Cass. 20 maggio 1991, n. 5684). Di diverso avviso è invece la giurisprudenza prevalente, il cui orientamento è richiamato e condiviso dalla sentenza che qui si annota. In termini generali, la Cassazione ha affermato che dal disposto degli artt. 1325 n. 4 e 1350 n. 13 c.c. deve desumersi che ogni qualvolta la legge non richiede, per un contratto, una forma determinata, essa è libera, nel senso che è sufficiente che la volontà dei contraenti sia manifestata in modo percepibile, chiaro ed inequivoco. Tuttavia, dal sistema emerge in modo palese, accanto al principio della libertà di forma, un altro criterio uniformemente adottato dal legislatore: per i contratti più importanti, destinati ad incidere in modo più penetrante e durevole sul patrimonio e sugli interessi dei soggetti, è sempre richiesta una forma solenne, con il duplice fine di indurre le parti, in tali casi, ad una meditazione più attenta e consapevole ed a predisporre, per eventuali contrasti derivanti dal negozio, mezzi di prova più affidabili ed obiettivi (Cass., Sez. Unite, 28 agosto 1990, n. 8878). Applicando siffatti principi, si afferma che la risoluzione per mutuo dissenso di un contratto, stante il principio della libertà di forme, non deve necessariamente risultare da un accordo esplicito dei contraenti, diretto a sciogliere il contratto, ben potendo conseguire anche ad un comportamento tacito concludente, a meno che per il contratto da risolvere non sia richiesta la forma scritta ad substantiam (Cass. 2 marzo 2012, n. 3245). In tale ultimo caso – cioè nel caso in cui per il contratto che si intende sciogliere è prevista ad substantiam una determinata forma - in forza del c.d. principio di simmetria, il mutuo dissenso, quale negozio accessorio o negozio di secondo grado, deve mutuare la stessa forma richiesta per il negozio principale (Cass., Sez. Unite, 28 agosto 1990, n. 8878; Cass. 11 ottobre 1991, n. 10707; Cass. 29 gennaio 1994, n. 928; Cass. 11 ottobre 2002, n. 14524; Cass. 17 maggio 2004, n. 9341; Cass. 14 aprile 2011, n. 8504; Cass. 6 ottobre 2011, n. 20445; Cass. 2 marzo 2012, n. 3245; Cass. 26 giugno 2015, n. 13290; Cass. 23 novembre 2018, n. 30446). Tuttavia - precisa la Suprema Corte - la forma scritta per la risoluzione convenzionale di un contratto è necessaria quando tale forma è prescritta ad substantiam per la stipulazione del contratto stesso; ma non per il solo fatto che le parti, senza esservi tenute, abbiano stipulato il contratto per iscritto. Tale conclusione trae conforto dall'art. 1352 c.c., secondo cui, “se le parti hanno convenuto per iscritto di adottare una determinata forma per la futura conclusione di un contratto, si presume che la forma sia stata voluta per la validità di questo”. Ciò significa che la scelta delle parti circa la forma contrattuale, per produrre effetti corrispondenti a quelli della prescrizione legislativa, deve essere oggetto di anteriore e specifica convenzione, stipulata a sua volta per iscritto. Ne consegue che la mera elezione di una forma al momento della stipulazione contrattuale, forma non imposta dalla legge né da previa pattuizione delle parti, non produce effetti “ulteriori” (è significativo che gli artt. 1351, 1392 e 1398 c.c. parlino di “forma prescritta”), sicché per gli eventuali accordi risolutori riprende pieno vigore il principio della libertà delle forme (Cass. 7 marzo 1992, n. 2772). Nel caso che ci occupa, i giudici di Piazza Cavour, aderendo al prevalente orientamento fin qui illustrato, concludono ribadendo il principio secondo cui anche il contratto di risoluzione di una donazione deve rivestire la forma pubblica, per cui è nulla per difetto di forma la scrittura privata in cui i coniugi convengono appunto lo scioglimento di una precedente donazione, a nulla rilevando il fatto che tale scrittura sia stata allegata al ricorso per separazione consensuale. Infatti, l'articolazione del procedimento per separazione consensuale dettata dall'art. 711 c.p.c. (secondo il quale il presidente, se la conciliazione non riesce, dà atto nel processo verbale del consenso dei coniugi alla separazione e delle condizioni riguardanti i coniugi stessi e la prole, con l'ulteriore specificazione che la separazione acquista efficacia con l'omologazione del tribunale) rende evidente da un lato l'estraneità della volontà dello stesso presidente al negozio posto in essere dai coniugi, dall'altro lato la funzione del provvedimento di omologazione - peraltro perfettamente aderente al significato proprio del termine, indicativo di una mera attività di controllo - di attribuzione di efficacia all'accordo privato. L'intervento del giudice non opera dunque una integrazione della volontà negoziale delle parti, neppure dal punto di vista formale; ne deriva che, ove nell'accordo i coniugi abbiano convenuto una donazione (o, come nel caso di specie lo scioglimento di una donazione), l'omologazione non vale a rivestire l'atto negoziale della forma dell'atto pubblico, richiesto dallo art. 782 c.c., che gli art. 2699 e 2700 c.c. impongono sia “redatto” e “formato” dal pubblico ufficiale (Cass. 8 marzo 1995, n. 2700). Inoltre, la Cassazione nella sentenza in commento ha correttamente evidenziato che nel caso di specie lo scioglimento consensuale della donazione traeva dalla separazione soltanto il proprio motivo, cioè era stato convenuto solo “in occasione” della separazione senza però divenire “condizione” della separazione stessa e pertanto rimanendo ad essa sostanzialmente estraneo. Infatti, l'accordo volto a regolare la separazione consensuale può contenere anche negozi che, in quanto non siano direttamente collegati ai diritti e agli obblighi connessi al matrimonio, rinvengono nella separazione una semplice occasione e restano distinti dalle convenzioni di famiglia (Cass. 15 marzo 1991, n. 2788). Dette pattuizioni - quelle aventi causa concreta e quelle aventi mera occasione nella separazione, le prime volte ad assolvere ai doveri di solidarietà coniugale per il tempo immediatamente successivo alle separazione e le seconde finalizzate semplicemente a regolare situazioni patrimoniali che non è più interesse delle parti mantenere invariate – possono quindi ben convivere nello stesso atto: esse si configurano come del tutto autonome e riguardano profili fra di loro pienamente compatibili (Cass. 19 agosto 2015, n. 16909). Tuttavia, per le seconde, proprio in ragione della loro autonomia, devono necessariamente ricorrere i requisiti - anche di forma - previsti dalla legge per ciascuno dei contratti che i coniugi intendono concludere. |