Bimbi con due mamme anche se nati in Italia
03 Giugno 2020
Massima
In presenza di nascita nel territorio italiano di un bimbo, concepito all'estero tramite l'utilizzo di ovuli di una donna, fecondati con spermatozoi di uomo anonimo, e con il successivo impianto dell'embrione nell'utero della compagna della donna stessa che successivamente partorisce, deve ritenersi illegittimo il rifiuto dell'ufficiale di stato civile di procedere a rettificazione di un atto di nascita, con l'inserimento quale genitore anche di colei che ebbe a donare gli ovuli. Il caso
Una coppia di donne italiane coltiva un progetto di genitorialità. In Spagna una delle due mette a disposizione i propri ovuli che, fecondati con spermatozoi di donatore anonimo, sono poi trasferiti nell'utero dell'altra, che si fa carico della gravidanza. In Italia nascono due gemelli, riconosciuti da colei che ha partorito come figli nati fuori del matrimonio. Entrambe le donne chiedono poi all'ufficiale dello stato civile di provvedere al riconoscimento anche da parte dell'altra, nella sua qualità di madre genetica dei bambini. A fronte del diniego, entrambe ricorrono al Tribunale che, in accoglimento della loro istanza, dichiara l'illegittimità del diniego stesso ed ordina all'ufficiale di stato civile di procedere alla rettificazione dell'atto di nascita dei minori, indicando quale secondo genitore la madre genetica. La questione
In Italia può essere formato un atto di nascita con due madri, di cui una è colei che ha partorito, mentre l'altra quella che ha donato i propri ovuli, fecondati all'estero con spermatozoi di soggetto anonimo? Le soluzioni giuridiche
L'art. 250 c.c. dispone che il figlio, nato fuori del matrimonio, possa essere riconosciuto dalla madre e dal padre, anche se già uniti in matrimonio con altra persona. La norma presuppone all'evidenza una differenza di genere tra i genitori del nato. Diversa è invece la disciplina di cui al titolo VII dell'ordinamento dello stato civile (d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396), dedicato alle registrazioni relative agli atti di nascita e di riconoscimento di figli nati fuori del matrimonio, dove si parla di “genitori”, mentre il riferimento alla “madre” è contenuto nell'art. 30 solo quanto alla facoltà di c.d. “parto anonimo”, ovvero all'individuazione del Comune di residenza, dove può essere resa la dichiarazione di nascita, in alternativa a quello dove è avvenuto il parto. La tradizionale distinzione fra padre e madre rivive invece nella modulistica approntata dal Ministero dell'interno per gli ufficiali di stato civile. La disciplina codicistica, modificata con la riforma del 1975 (quando si è eliminato il divieto di riconoscimento dei c.d. “figli adulterini”) e successivamente novellata con quella della filiazione del 2012, è legata ad una visione naturalistica della procreazione, come fusione di gameti femminili e maschili. La regola tradizionale che vuole il rapporto di filiazione strettamente connesso alla trasmissione del “sangue” (ed in oggi del DNA) ha subito un'eccezione con l'introduzione nel codice civile, nel 1967, della disciplina dell'adozione speciale, poi radicalmente novellata con la l. 184 del 1983 (e successive modificazioni): il minore di età, in stato di abbandono, diventa figlio a tutti gli effetti della coppia adottante, composta da persone di sesso diverso ed unite in matrimonio, recidendo ogni rapporto (soprattutto giuridico, salvi i divieti matrimoniali) con la famiglia d'origine. Si può diventare figli, dunque, anche per un provvedimento giudiziale. Con il tempo, ha preso sempre più importanza un'altra forma di genitorialità, basata su un progetto comune tra due persone, al di fuori di un legame genetico tra i genitori (o uno di essi) ed il figlio. In questo senso, ispirata a preventive felici decisioni della Consulta (Corte cost. 26 settembre 1998, n. 347) e della Suprema Corte (Cass. 16 marzo 1999, n. 2315), la l. 40/2004, sulla procreazione assistita, nel mentre all'art. 4 vietava il ricorso a tecniche di p.m.a. di tipo eterologo, all'art. 9 disponeva che, in caso di relativa violazione, non sarebbe stato comunque ammissibile l'esercizio delle azioni di disconoscimento di paternità o di impugnazione del riconoscimento, in presenza di un preventivo consenso al trattamento da parte dei coniugi o della coppia di partner. Si trattava del primo riconoscimento normativo di una genitorialità come conseguenza di un progetto procreativo da parte della coppia (necessariamente eterosessuale), anche in contrasto con il disposto di legge. Solo nel 2014 la Consulta ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 4, l. 40/2004 in ordine al divieto di tecniche di tipo eterologo (Corte cost. 10 giugno 2014, n. 162); il divieto di azioni di status è peraltro rimasto. Negli ultimi anni, con la formazione di plurimi modelli familiari, si è assistito ad un sempre più intenso desiderio di genitorialità nelle coppie del medesimo sesso, per le quali il concepimento in forma naturale è impossibile. La giurisprudenza di merito ha in più occasioni ritenuto ammissibile la costituzione di un rapporto di “paragenitorialità” con il figlio del partner, tramite il ricorso all'istituto dell'adozione in casi particolari ex art. 44 lett. d) l. 184/1983, sulla scorta di una rinnovata interpretazione della condizione di “impossibilità di affidamento preadottivo”, che la norma individua quale presupposto. Si è trattato prevalentemente di coppie di sesso femminile (all'interno delle quali si verifica l'evento “salvifico” del parto di una delle due componenti), ma non sono mancate decisioni afferenti nascite all'interno di coppia maschile (nella quale la gravidanza ed il successivo parto sono delegati ad una donna, tramite lo strumento della surrogazione di maternità, vietata nel nostro ordinamento dall'art. 12, l. 40/2004, ma ritenuta lecita e regolamentata in altri Paesi). Il passo successivo è stato quello di realizzare appieno il diritto del figlio alla bigenitorialità, escludendo una posizione preferenziale per la donna, che avesse partorito, o per l'uomo, che avesse messo a disposizione i propri spermatozoi, rispetto all'altra parte della coppia. Si è così talora ritenuto ammissibile il riconoscimento del figlio, già nell'atto di nascita, anche da parte del genitore non unito in matrimonio con quello biologico (in presenza di un'unione civile, ovvero di nessun legame formale). In altri casi, invece, è intervenuta la Magistratura, ordinando rettifiche o integrazioni di atti di nascita, che gli ufficiali di stato civile avevano rifiutato nel presupposto della contrarietà all'ordine pubblico. Negli ultimi tempi si sta osservando tuttavia in giurisprudenza una battuta d'arresto che non può purtroppo essere trascurata, sulla base di una lettura rigorosa del testo normativo, come si dà atto infra. Osservazioni
La pronuncia in commento, accuratamente motivata, è molto interessante. Essa infatti, pur nella peculiarità del caso, conferma come, accanto al modello tradizionale di filiazione, legato al dato biologico, se ne configuri un altro, strutturato sulla base di un progetto comune di genitorialità, che può coinvolgere anche persone dello stesso sesso. La fattispecie è del tutto simile a quella, oggetto della nota sentenza della Corte di Cassazione 30 settembre 2016, n. 19599: all'interno di una coppia di donne (a prescindere dall'esistenza tra loro di un vincolo formale), una di loro mette a disposizione propri ovuli, perché, una volta fecondati in vitro con seme di donatore anonimo, siano impiantati nell'utero dell'altra, che porta avanti la gravidanza e partorisce. Il nato (o i nati, come nella specie, trattandosi di gemelli) è certamente figlio di colei che ha partorito, secondo il disposto dell'art. 269 c.c., che, se pur afferente all'azione di dichiarazione giudiziale della genitorialità, esprime un principio generale, comune agli ordinamenti occidentali. Nel caso deciso dalla Suprema Corte, la nascita era avvenuta in Spagna, Paese di cui era cittadina la donna che aveva dato alla luce il figlio, mentre la compagna (coniugata con la prima) era italiana. Secondo la legislazione di quella nazione, venne formato un atto di nascita in cui entrambe le donne erano indicate come madri. La Corte di Cassazione, confermando la decisione di secondo grado (App. Torino 4 dicembre 2014, in IlFamiliarista) di riforma di quella del Tribunale, aveva a dichiarare come non vi fosse contrarietà con l'ordine pubblico e come, dunque, quell'atto di nascita dovesse essere trascritto in Italia, malgrado il rifiuto dell'ufficiale di stato civile. Il Tribunale di Rimini richiama più volte questo precedente, anche per sottolineare come una diversa soluzione darebbe luogo ad un'inaccettabile disparità di trattamento tra figli, nati a seguito del peculiare percorso di fecondazione praticato, a seconda che siano nati in Italia o all'estero. Nel contempo verrebbe pregiudicato il preminente interesse del nato alla bigenitorialità, e quindi ad instaurare un rapporto di filiazione giuridicamente conformato con entrambe le persone che perseguirono la sua nascita, non essendo possibile, né ammissibile ricercare la paternità. La decisione annotata richiama anche un altro importante precedente reso in sede di legittimità. Cass. 15 giugno 2017, n. 14878, in IlFamiliarista, con nota di CARDACI aveva infatti riconosciuto la trascrizione in Italia della rettifica di un atto di nascita di un minore, avvenuta all'estero, in cui era stata indicata come secondo genitore la compagna (italiana) della donna (gallese) che aveva partorito, senza che la stessa avesse legame genetico di sorta con il bambino, nato con la tecnica della fecondazione con seme di donatore anonimo. Come ricordano i giudici riminesi, la classica distinzione fra “madre” e “padre” nell'atto di nascita, di cui già all'art. 250 c.c. quanto al riconoscimento del figlio non matrimoniale, deve cedere di fronte ai profondissimi cambiamenti delle scienze mediche e biologiche che hanno permesso anche a coppie sterili o comunque non in grado di procreare in forma naturale, l'accesso alla genitorialità, in alternativa al tradizionale istituto dell'adozione “piena”, che, come noto, nemmeno è accessibile alle coppie del medesimo sesso, ancorché unite nel vincolo dell'unione civile, come prevede l'art. 1 comma 20 l. 76/2016. La pronuncia in commento, al pari di quelle rese dalla Suprema Corte in precedenza richiamate, interviene su un progetto di genitorialità realizzato da una coppia di donne, certamente più “tranquillizzante” dal punto di vista normativo e sociale. Vi è infatti sempre una donna che partorisce ed il nato assume lo stato di figlio, oltre che della stessa, anche della compagna/moglie (genitrice genetica o meno). In questi casi, come già ebbe a precisare, la citata sentenza n. 19599/2016, la tecnica riproduttiva corrisponde, in buona sostanza, ad una fecondazione eterologa, ammessa dopo l'intervento ablativo della Consulta (Corte cost. 10 giugno 2014, n. 162). Più complessa è invece la fattispecie in presenza di coppia omoaffettiva maschile. E' di tutta evidenza che, in questo caso, il progetto di genitorialità presuppone il ricorso alla maternità surrogata (o gestazione per altri), che l'art. 12, l. 40/2004 vieta espressamente, configurandola come fattispecie penalmente rilevante. La giurisprudenza di merito, in presenza di nascite avvenute all'estero a seguito di questa tecnica, ha talora fatto ricorso all'art. 44 lett. d) l. 184/1983, riconoscendo al padre “sociale” (compagno o soggetto civilmente unito al genitore genetico, come tale) lo status genitoriale (se pure nei limiti propri dell'adozione in casi particolari), ovvero ha dichiarato efficace l'atto di nascita redatto all'estero, indicante la generalità di entrambi gli uomini. La Corte di Cassazione a sezioni unite, con la sentenza 8 maggio 2019, n. 12193, in IlFamiliarista, con nota di STEFANELLI, richiamata a contrariis dal Tribunale di Rimini, ha invece assunto una posizione rigida, che segna una (spiacevole) battuta d'arresto (e di retrocessione) sul cammino della rilevanza giuridica della genitorialità intenzionale. Nella specie, due cittadini italiani di sesso maschile, coniugati in Canada (e, quindi, per il nostro ordinamento uniti civilmente) avevano fatto ricorso alla maternità surrogata (lecita e disciplinata per legge in quello Stato), individuando tra loro il donatore di seme. Nascono due gemelli; il giudice canadese, con un primo provvedimento, riconosce, quale genitore, il solo padre biologico e, in uno successivo, dichiara la genitorialità di entrambi i maschi. L'ufficiale dello stato civile italiano rifiuta la trascrizione dell'atto come emendato, siccome contrario all'ordine pubblico, ma la Corte d'appello di Trento accoglie la declaratoria di efficacia del successivo provvedimento giudiziale. Rimessa la questione alle Sezioni Unite, le stesse pervengono alla conclusione opposta. Non è certo questa la sede per una disamina analitica di detta decisione, che tante perplessità ha sollevato in dottrina (per tutti DOGLIOTTI, Le Sezioni Unite condannano i due padri e assolvono le due madri, in Fam. e dir. 2019, 653). Sta di fatto che ritenere contrari all'ordine pubblico (in un'eccezione più lata rispetto a quella elaborata dalla prevalente giurisprudenza, proprio in relazione a diritti sensibili, quali quelli dei minori) un atto amministrativo o una pronuncia giudiziale, formati all'estero, ove si attribuisca la genitorialità a due padri, determina una grave discriminazione di genere nelle coppie same sex, a seconda che essa siano composte da donne piuttosto che da uomini, pur condividendo tutte il medesimo intento di costituire una famiglia, allietata dalla nascita di figli. Nel contempo (e questa è la conseguenza più grave) si introduce una disparità di trattamento tra figli: quelli nati da una coppia di donne potrebbero godere dello status filiationis pieno nei confronti di entrambe; al contrario, quelli nati all'interno di una coppia di uomini potranno al più beneficiare dello status di figli adottivi (con adozione in casi particolari) rispetto al compagno del padre biologico. Lo “spettro” della maternità surrogata danneggia pertanto in primo luogo i figli, incidendo sul loro diritto fondamentale diritto ad una genitorialità piena e, ancor prima sull'identità personale. Non possono che richiamarsi le note decisioni della Corte EDU in due noti casi che vedevano coinvolti la Francia, dove era stata negato il riconoscimento della maternità all'interno di due coppie eterosessuali, che avevano fatto ricorso alla maternità surrogata in America (Corte EDU 26 giugno 2014, n. 65941/2011; Corte EDU 26 giugno 2016, n. 65192/2011). In quell'occasione la Corte ebbe di Strasburgo ebbe a riconoscere la violazione dell'art. 8 CEDU in danno dei figli nati a seguito a quella tecnica di procreazione. Come anticipato, la pronuncia delle Sezioni Unite di cui sopra si inserisce in un panorama giurisprudenziale divenuto negli ultimi tempi assai rigido nei confronti dell'omogenitorialità. Va qui rammentato che la Consulta ha di recente respinto diverse questioni di costituzionalità della l. 40/2004, nella parte in cui esclude l'accesso alle tecniche di p.m.a. per la coppia dello stesso sesso (nella specie, femminile) (Corte cost. 30 ottobre 2019, n. 44, in IlFamiliarista, con nota di STEFANELLI). La motivazione esprime principi, a parere di chi scrive, eccessivamente rigorosi nella ricerca delle ragioni che riescano a rendere compatibile la l. 40/2004 con i precetti costituzionali e convenzionali: i) la p.a. non può rappresentare una modalità di realizzazione del “desiderio di genitorialità” al concepimento naturale, lasciata alla libera autodeterminazione degli interessati: ii) l'infertilità “fisiologica” della coppia omosessuale “non è affatto omologabile all'infertilità (di tipo assoluto e irreversibile) della coppia eterosessuale affetta da patologie riproduttive”; iii) una famiglia, composta da due genitori di sesso diverso, entrambi viventi e in età potenzialmente fertile rappresenta “in linea di principio “”il luogo”” più idoneo per accogliere e crescere il nuovo nato”, senza che ciò possa ritenersi arbitrario o irrazionale; iv) al momento dell'entrata in vigore della l. 40/2004, il grado di accettazione della c.d. omogenitorialità, nell'ambito della comunità sociale, non trovava “un sufficiente consenso” (ma il ruolo della Consulta è solo quello di ricercare la ratio legis, in relazione al momento storico e culturale in cui la legge è stata emessa, o non piuttosto quello di offrire un'interpretazione adeguatrice della stessa all'attuale contesto normativo e sociale, sì da renderla compatibile con la tutela dei diritti della persona, quale quello di costituire una famiglia, previsto nell'art. 12 CEDU?). A sua volta, Cass. 3 aprile 2020, n. 7668 ha escluso che, in caso di procreazione medicalmente assistita praticata all'estero, sia possibile indicare nell'atto di stato di nascita formato in Italia, dove è avvenuto il parto, non solo la madre biologica, ma anche la compagna di costei. Come si vede, la fattispecie diverge da quella di cui alla pronuncia in commento: qui infatti, la compagna della partoriente è anche madre genetica dei nati. La Suprema Corte, nel riprendere le linee argomentative segnate dalla Consulta, rimarca come vi sia differenza tra adozione e p.m.a., in quanto “l'adozione presuppone l'esistenza in vita dell'adottando: essa non serve per dare un figlio a una coppia, ma precipuamente per dare una famiglia al minore che ne è privo…la PMA, di contro, serve a dare un figlio non ancora venuto ad esistenza ad una coppia (o a un singolo) realizzandone le aspirazioni genitoriali”. Se è condivisibile l'affermazione per cui l'adozione è funzionale alla realizzazione dell'interesse del minore, mentre con la p.m.a. si realizza in primo luogo un'aspirazione di genitorialità degli adulti, è pur vero che, quando un bambino è venuto in vita, grazie a tecniche di procreazione che in Italia sono vietate, egli ha diritto alla bigenitorialità, e dunque a poter contare su un rapporto giuridico parificato con entrambi coloro che, anche solo intenzionalmente, hanno perseguito un progetto di genitorialità. In caso contrario, si verrebbe ad imprimere un vulnus all'interesse prevalente del minore. FASANO-FIGONE, Filiazione, in Pratica professionale, Famiglia, II, Milano 2019; DOGLIOTTI, Le Sezioni Unite condannano i due padri e assolvono le due madri, in Fam. e dir. 2019, 653; STEFANELLI, Non è incostituzionale il divieto di accesso alla procreazione medicalmente assistita per le coppie omosessuali femminili, in IlFamiliarista. |