Dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti

Ciro Santoriello
09 Luglio 2020

Gli artt. 2 ed 8 d.lgs. n. 74 del 2000 puniscono rispettivamente le condotte di chi, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, avvalendosi di fatture od altri documenti per operazioni inesistenti, indica in una delle dichiarazioni relative a dette imposte elementi passivi fittizi – precisandosi che il fatto si considera commesso avvalendosi di fatture od altri documenti per operazioni inesistenti quando tali fatture o documenti sono registrati nelle scritture contabili obbligatorie...
Inquadramento

Gli artt. 2 ed 8 d.lgs. n. 74 del 2000 puniscono rispettivamente le condotte di chi, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, avvalendosi di fatture od altri documenti per operazioni inesistenti, indica in una delle dichiarazioni relative a dette imposte elementi passivi fittizi – precisandosi che il fatto si considera commesso avvalendosi di fatture od altri documenti per operazioni inesistenti quando tali fatture o documenti sono registrati nelle scritture contabili obbligatorie, o sono detenuti a fine di prova nei confronti dell'amministrazione finanziaria – e di chi, al fine di consentire a terzi l'evasione delle imposte sui redditi o sul valore aggiunto, emette o rilascia fatture o altri documenti per operazioni inesistenti.

Entrambi gli illeciti possono essere commessi da qualsiasi contribuente ai fini IVA o delle imposte dirette, ovvero un amministratore, liquidatore o rappresentante di società, enti o persone fisiche, relativamente alle dichiarazioni da questi presentate per conto di tali enti. La norma punisce il contribuente che indica nella dichiarazione annuale elementi passivi fittizi, i quali dati possono derivare unicamente da fatture ricevute e di conseguenza il soggetto attivo sarà di regola un individuo diverso da colui che emette le fatture, ma non è escluso che possano avere rilevanza, ai fini dell'integrazione del reato, i documenti emessi dallo stesso soggetto che li utilizzi per supportare la dichiarazione mendace.

Condotta di falso e documentazione di supporto

Come detto, alla dichiarazione mendace deve accompagnarsi l'allegazione di documentazione atta ad asseverare la falsa dichiarazione.

Il legislatore, in proposito, parla di «fatture o altri documenti per operazioni inesistenti». La relativa definizione è contenuta nell'art. 1, comma 1, lett. a), d.lgs. n. 74/2000, secondo cui tale documentazione corrisponde alle «fatture o gli altri documenti aventi rilievo probatorio analogo in base alle norme tributarie, emessi a fronte di operazioni non realmente effettuate in tutto o in parte o che indicano i corrispettivi o l'imposta sul valore aggiunta in misura superiore a quella reale, ovvero che riferiscono l'operazione a soggetti diversi da quelli effettivi».

Quanto alle fatture, queste sono dei documenti fiscali, qualificabili come una dichiarazione che attesta la cessione di beni e la prestazione di servizi. L'art. 21, d.P.R. n. 633/1972, che al comma 2 descrive i contenuti della fattura, al comma 1, con previsione che interessa in questa sede, equipara alle fatture i documenti compilati in forma di «nota, conto, parcella e simili».

Quanto agli “altri documenti”, si fa riferimento a documenti che godano comunque di un «rilievo probatorio analogo a quello delle fatture in base alle norme tributarie». In altre parole, i documenti diversi dalle fatture, per assumere rilevanza in sede penale, devono comunque essere in grado di fornire, all'amministrazione finanziaria, prova dell'effettiva effettuazione di cessione dei beni o di prestazioni di servizi. La stessa dottrina definisce “gli altri documenti” come quelli funzionalmente analoghi alla fattura, poiché destinati a surrogarla, ad integrarla o rafforzarne la funzione.

Concetto di operazioni inesistenti

Perché si configuri il reato, le fatture ed i documenti ad essa equiparati devono riferirsi a operazioni insistenti.

Con il vocabolo operazioni si intendono tutte quelle attività gestorie, a contenuto economico, con le quali, seguendo le disposizioni tributarie, si determina la base imponibile per il calcolo delle imposte o dell'IVA.

L'inesistenza di tali operazioni può concretarsi secondo diverse modalità:

  • in un primo caso, di inesistenza oggettiva, le operazioni indicate nella documentazione non sono in alcun modo “realmente effettuate in tutto o in parte”. A sua volta tale ipotesi può suddividersi in due ulteriori circostanze, a seconda che
  • l'inesistenza sia assoluta, il che ricorre quando l'operazione documentata non è stata in alcun modo posta in essere (cosiddetta falsa fatturazione),
  • oppure parziale, il che sussiste quando l'operazione documentata è stata effettivamente posta in essere ma per quantità inferiori a quelle indicate (cosiddetta sopraffatturazione quantitativa), cosicché la fattura od i documenti assimilati espongano «i corrispettivi o l'imposta sul valore aggiunto in misura superiore a quella reale»;
  • la seconda ipotesi è di inesistenza soggettiva dell'operazione, giacché la fattura o il documento affine «riferiscono l'operazione a soggetti differenti rispetto a quelli effettivi». L'operazione, in termini quantitativi, è stata rappresentata fedelmente, ma differenti sono le parti effettive rispetto a quelle indicate.

Diverse le problematiche che tale profilo della disposizione pone, ed a cui la norma non dà risposta. Un primo quesito attiene alla possibilità di differenziare l'inesistenza dell'operazione rispetto alla sua invalidità, ovvero quando il contratto è nullo od annullabile, l'operazione ad esso legata può essere considerata “non realmente effettuata”? In secondo luogo, ci si domanda se la ritenuta inesistenza dell'operazione possa derivare da un sindacato di congruità della stessa: ad esempio, nel caso in cui, tra le società appartenenti ad un unico gruppo, si ripartiscono costi generali in conformità a criteri contrattualmente stabiliti (come il rapporto con il fatturato), nel momento in cui si contesta il parametro di ripartizione delle spese, si potrebbe parlare di operazione in tutto o parzialmente inesistente.

Nella vigenza della preesistente disciplina, la giurisprudenza, mercé l'ampia formula utilizzata dal legislatore nel descrivere il delitto di emissione ed utilizzazione di false fatture o documenti relativi ad operazioni inesistenti, riteneva che la fattispecie di cui all'art. 4, lett. d), n. 516/1982 andasse a sanzionare tanto la cosiddetta interposizione fittizia che l'interposizione reale nell'ambito delle operazioni commerciali documentate dai suddetti documenti contabili. In particolare, nessun dubbio veniva rinvenuto circa la possibilità di ritenere che la predetta disposizione andasse effettivamente a sanzionare la cosiddetta interposizione fittizia di soggetti che, apparentemente parti di un rapporto commerciale, fungessero in realtà da paravento per l'effettivo contraente; analogamente la giurisprudenza ragionava con riferimento all'interposizione reale di un soggetto, in cui questi effettivamente compie un'operazione commerciale, sia pure con l'intesa di trasferire successivamente a terzi gli effetti giuridici derivanti dal negozio concluso. In sostanza, secondo la Corte di Cassazione, il delitto di cui all'art. 4, lett. d), citato doveva ritenersi sussistente ogniqualvolta si fosse posto in essere un negozio simulato, fosse esso relativo o assoluto, stipulato al fine di evadere le imposte sui reddito o l'imposta sul valore aggiunto o di far conseguire un indebito rimborso ai terzi da parte dell'erario.

Le predette conclusioni paiono destinate ad essere decisamente ridimensionate dopo l'entrata in vigore del nuovo diritto penale tributario di cui al d.lgs. n. 74/2000, anche alla luce della circostanza che il legislatore, conformemente alla filosofia che ha ispirato la riforma, ha riformulato la fattispecie di utilizzazione di fatture relative ad operazioni inesistenti in chiave di tutela della veridicità della dichiarazione del contribuente. Infatti, nell'ambito della filosofia della riforma, che ha abbandonato il precedente sistema penale sanzionatorio, diretto a reprimere le condotte prodromiche all'evasione, concretatesi nella mera inosservanza di prescrizioni formali, senza che fosse richiesta, per la sussistenza del reato, l'esistenza di un vero danno per l'erario, ed ha invece accolto una prospettiva diretta a punire la non veridicità delle dichiarazioni fiscalmente rilevanti, quali condotte direttamente cagionatrici di una illegittima riduzione di imposta, prescindendo da qualsiasi comportamento tenuto dal contribuente prima della presentazione della dichiarazione, optando per la criminalizzazione della falsa fatturazione solo se ed in quanto sfoci nella presentazione di una dichiarazione non conforme a verità.

Alla luce di queste considerazioni, dunque, è evidente che l'area di applicazione della normativa in tema di illegittima utilizzazione di fatture relative ad operazioni inesistenti viene decisamente a restringersi: infatti, la punizione di quanti utilizzino e ricevano fatture false è sicuramente subordinata alla presentazione di una dichiarazione fiscalmente rilevante che annoveri elementi passivi fittizi, determinando così un abbattimento dei ricavi, e quindi una minore imposta dovuta. Va considerato tuttavia che devono qualificarsi come relative ad operazioni inesistenti fatture che, in relazione a somme corrisposte per ragioni estranee all'esigenze dell'impresa (ad esempio per giustificare costi connessi a proposte corruttive) riportino quale indicazione della causale del versamento una voce mendace ed attestante che la spesa è stata sostenuta per ragioni inerenti l'attività d'impresa (Cass., Sez. VI, 09/12/2016, n. 452231).

Questa conclusione è rilevante, oltre che per precisare l'ambito di applicazione dell'art. 2, d.lgs. n. 74/2000, anche per risolvere la problematica della punibilità o meno delle operazioni soggettivamente inesistenti, quando la falsità concerna semplicemente la identità del soggetto emittente, ma sia veritiera la realtà oggettiva sottostante all'operazione. Infatti, in tali casi, l'utilizzatore della fattura, pur essendo la stessa soggettivamente inesistente, giusta la definizione di cui all'art. 1, d.lgs. n. 74/2000, non indica nella dichiarazione costi fittizi, essendo l'operazione documentata in fatture effettivamente stata svolta, e quindi non fa emergere dalla dichiarazione una imposta minore a quella dovuta effettivamente. In sostanza, a fronte di costi effettivamente sostenuti, la condotta di utilizzazione di fatture relative ad operazioni effettivamente sostenute, ma realizzate da un soggetto diverso dall'emittente, non viola il dettato del citato art. 2, in quanto non si fa luogo all'indicazione in dichiarazione di costi non effettivamente sostenuti. Questa conclusione tuttavia non opera quando il reato di utilizzazione o emissione di fatture per operazioni inesistenti finalizzato alla evasione dell'IVA: in tale ipotesi, infatti, il delitto sussiste anche in caso di inesistenza soggettiva, ovvero quella relativa alla diversità tra soggetto che ha effettuato la prestazione e quello indicato in fattura, intendendosi per “soggetti diversi da quelli effettivi”, ai sensi dell'art. 1, lett. a), del citato D.Lgs., coloro che, pur avendo apparentemente emesso il documento, non hanno effettuato la prestazione, sono irreali, come nel caso di nomi di fantasia, o non hanno avuto alcun rapporto con il contribuente finale.

Allo stesso modo la volontà di consentire a terzi l'evasione invece risulta rilevante con riferimento alla condotta di emissione di fatture o altri documenti relativi ad operazioni inesistenti, e rispetto a tale condotta dunque assumerà rilievo, determinando la violazione della disposizione di cui all'art. 8 del d.lgs. anche l'emissione di fatture soggettivamente inesistenti, ovvero indicanti un beneficiario della prestazione, e quindi tenuto a corrispondere il costo della stessa, diverso da quello effettivo.

Gli elementi passivi fittizi

Il contribuente evasore deve indicare nella dichiarazione annuale, relativa alle imposte sui redditi o sul valore aggiunto, avvalendosi della documentazione predetta, “elementi passivi fittizi”.

La definizione di “elementi passivi” è data, insieme a quella degli elementi attivi, dall'art. 1, comma 1, lett. b), d.lgs. n. 74/2000, che li definisce come «le componenti, espresse in cifra, che concorrono, in senso positivo o negativo, alla determinazione del reddito o delle basi imponibili rilevanti ai fini dell'applicazione delle imposte sui redditi o sul valore aggiunto».

Secondo la relazione ministeriale al decreto n. 74, la sopraccitata definizione, «è un'espressione di sintesi atta a comprendere, nella loro traduzione numerica, tutte le voci, comunque costituite o denominate, che concorrono, in senso positivo o negativo, alla determinazione del reddito o delle basi imponibili rilevanti ai fini dell'applicazione delle imposte sui redditi o sul valore aggiunto. Ciò ad evitare i rischi, in termini di incertezze interpretative e di possibili lacune, insiti in un'enunciazione di tipo specifico e casistico (corrispettivi, ricavi, costi, oneri, ecc.)».

Nell'originaria versione della disposizione, non era definita la valenza dell'aggettivo “fittizio”, rispetto alla quale perciò sorgeva il dubbio se adottare un'interpretazione restrittiva e naturalistica, in base alla quale “fittizio” significherebbe inesistente in rerum natura, oppure un'interpretazione estensiva e tributaristica del termine, grazie alla quale alla parola “fittizio” corrisponderebbe anche la “non inerenza” e la “non competenza”. Il dubbio risulta però risolto dopo la riforma del 2015, che ha chiaramente optato per la prima interpretazione, sicché laddove il contribuente inserisca in dichiarazione costi connessi ad una spesa non inerente l'attività di impresa ma la cui causale sia correttamente indicata – così che l'amministrazione finanziaria possa agevolmente riprendere a tassazione la voce passiva – il reato di cui all'art. 2, d.Lgs. n. 74/2000 non sussiste.

Utilizzo della falsa documentazione a fini di evasione fiscale

Falsificare la dichiarazione mediante il solo inserimento di elementi passivi fittizi non basta a perfezionare il delitto, poiché occorre anche il supporto di fatture od altri documenti attestanti operazioni inesistenti.

Nel concetto di avvalersi della falsa documentazione rientra qualsiasi rilevante utilizzazione del documento, diretta a supportare la falsità dichiarata, mentre non si ritenne sufficiente il semplice possesso, anche se obbligatorio, della documentazione di supporto, essendo necessario che il soggetto attivo tenga un comportamento dinamico orientato all'evasione dell'Erario.

Rientrano quindi nella previsione normativa tutti gli usi rilevanti ai fini fiscali della documentazione predetta, come ad esempio, l'allegazione alla dichiarazione oppure l'esibizione agli ufficiali della guardia di finanza od agli organi degli uffici tributari.

Il comma 2 dell'art. 2 in commento prevede che la dichiarazione infedele può essere supportata dalla documentazione mendace con due diverse modalità:

  • la prima si ha quando tale documentazione è registrata nelle scritture contabili obbligatorie, ed è ipotesi riferibile esclusivamente ai soggetti vincolati alla tenuta delle scritture contabili;
  • la seconda ipotesi invece prevede che la documentazione sia detenuta al fine di prova nei confronti dell'Amministrazione finanziaria da qualsiasi contribuente, cosicché non vi è necessità di alcuna specifica qualifica in capo al soggetto attivo.

A proposito del vocabolo “detenzione”, tale termine lessicale non richiama un comportamento solamente passivo, ma richiede, viceversa, una condotta complessa e dinamica avente come obiettivo l'evasione, che si realizza appunto nel momento in cui al possesso del supporto mendace segue l'introduzione dei suoi risultati nella dichiarazione dei redditi. La “detenzione” dunque comprende ogni ipotesi di disponibilità diretta od indiretta (anche tramite un terzo affidatario) della documentazione mendace di supporto, che deve però poi essere utilizzata dall'evasore per avvalorare, di fronte agli accertamenti dell'Erario, le falsità esposte nella dichiarazione.

La disposizione in commento non richiede una contestualità tra l'uso della fattura fallace e la presentazione della denuncia infedele, poiché la registrazione della documentazione nelle scritture contabili è effettuata precedentemente rispetto alla presentazione della dichiarazione. Di contro, quando ci si trova in una situazione di detenzione a fini di prova nei confronti dell'Amministrazione finanziaria, la detenzione stessa, benché cominciata prima della consegna della denuncia dei redditi, deve durare sino a tale momento, non essendo altrimenti la condotta idonea a documentare l'aumento degli elementi passivi.

Inoltre, l'uso dalla fattura mendace, ai sensi dell'art. 2, comma 2, non può avvenire dopo la presentazione della dichiarazione, poiché un'utilizzazione successiva non trasformerebbe la dichiarazione infedele (ex art. 4), in quella fraudolenta (ex artt. 2 e 3), mancando il supporto della documentazione mendace (fatture, altri documenti e altri artifici) incrementante l'attitudine alla frode. Tuttavia, l'utilizzo, in sede di accertamento, di documentazione mendace eventualmente confezionata in epoca successiva alla presentazione della dichiarazione integra il reato di cui all'art. 11, l. 22 dicembre 2011, n. 214 che punisce chiunque, in fase di accertamento, esibisca o trasmetta “atti o documenti falsi in tutto o in parte”.

Elemento soggettivo

Entrambi i delitto di utilizzazione ed emissione di fatture relative ad operazioni inesistenti, il delitto in commento è certamente di natura dolosa, in quanto il soggetto attivo deve, volontariamente e coscientemente, indicare nella dichiarazione dei redditi o sul valore aggiunto costi passivi fittizi, i quali a loro volta devono essere supportati da fatture o documenti attestanti operazioni inesistenti ai sensi dell'art. 1, comma 1, lett. a), del decreto, registrati nelle scritture contabili obbligatorie oppure detenuti a fini di prova nei confronti dell'amministrazione finanziaria.

L'atteggiamento volontario richiesto deve essere, in particolare, il dolo specifico, dovendo il soggetto agente porsi come obiettivo l'evasione delle imposte per sé o per altri, ovvero, secondo l'art. 1, comma 1, lett. d), del decreto legislativo in commento, il conseguimento di un «indebito rimborso o il riconoscimento di un inesistente credito d'imposta».

Il momento di consumazione del reato

Il reato di cui all'art. 2 si perfeziona nel momento in cui è presentata la denuncia dei redditi, contenente i costi fittizi. Non è infatti sufficiente la semplice redazione della dichiarazione, giacché, essendo quest'ultima un atto unilaterale ricettizio, occorre l'avvenuta presentazione presso gli uffici tributari, che può avvenire in forma cartacea o telematica.

L'impiego di più fatture o documenti falsi, indipendentemente dal fatto che siano stati emessi dallo stesso o da diversi soggetti, supportanti la stessa dichiarazione infedele, dà in ogni caso luogo ad un unico reato. L'unicità della denuncia dei redditi esponente una pluralità di elementi passivi fittizi, infatti, unifica in un unico reato le diverse fatture mendaci impiegate nel corso del periodo d'imposta a sostegno di essa, le quali concorrono alla produzione del medesimo risultato d'evasione penalmente rilevante.

In ogni caso, è bene precisare, nonostante l'espressione “fatture o altri documenti” utilizzata dalla norma, che il reato si realizza anche quando il gonfiamento dei costi indicati in dichiarazione derivi da un'unica fattura fittizia.

Quanto al reato di emissione di fatture relative ad operazioni inesistenti, lo stesso si consuma al momento dell'emissione della fattura. In caso di emissione di più fatture false relative ad un'unica annualità d'imposta, anche se dirette a favorire a soggetti diversi, si è in presenza di un unico reato.

Le novità introdotte con la riforma del 2019

Entrambi i reati di utilizzazione ed emissione di fatture relative ad operazioni inesistenti sono stati oggetto di riforma con il d.l. n. 124 del 2019.

Essenzialmente, l'intervento riformatore è stato inteso a rendere decisamente più severo il trattamento sanzionatorio per i suddetti illeciti ed infatti

  • con riferimento al reato di “dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti” di cui all'art. 2 d.lg. N. 74 del 2000 la pena viene elevata dalla reclusione da un anno e sei mesi a sei anni a quella della reclusione da 4 a 8 anni, anche se viene introdotto un comma 2-bis in forza del quale il previgente trattamento sanzionatorio (reclusione da un anno e sei mesi a sei anni) viene mantenuto nell'ipotesi in cui l'ammontare degli elementi passivi fittizi sia inferiore a 100.000 euro (alla previsione di cui al citato comma 2-bis andrà presumibilmente riconosciuta la natura di circostanza attenuante, al pari di quanto ritenuto dalla giurisprudenza con riferimento ad analoga previsione in precedenza in vigore – ma in senso contrario, cfr. Cass., sez. III, 12 marzo 2020, n. 9883);
  • quanto al reato di “emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti” di cui all'art. 8, la previgente pena della reclusione da un anno e sei mesi a sei anni viene elevata a quella della reclusione da 4 a 8 anni, con la precisazione – inserita in un nuovo comma 2-bis – che la pena rimane invece quella della reclusione da un anno e sei mesi a sei anni «se l'importo non rispondente al vero indicato nelle fatture o nei documenti, per periodo d'imposta, è inferiore a euro centomila». Sulla natura della previsione di cui al comma 2-bis si veda quanto riferito a proposito del comma 2-bis dell'art. 2 d.lgs. n. 74 del 2000.

Inoltre, per entrambi i reati è prevista l'applicazione della c.d. confisca allargata e la responsabilità da reato delle società.

Relativamente alla prima figura, la relativa disciplina è contenuta nell'art. 240-bis c.p. che ne prevede l'applicazione in caso di condanna o patteggiamento allorché l'evasione fiscale superi i 200.000 euro. In forza, poi, del rinvio che l'art. 240-bis c.p. opera all'art. 578-bis c.p.p., il giudice di appello o la Corte di cassazione, nel dichiarare il reato tributario estinto per prescrizione o per amnistia, potranno decidere sull'impugnazione ai soli effetti della confisca, purché procedano ad un previo accertamento della responsabilità dell'imputato.

Come noto, la confisca c.d. allargata ha ad oggetto il denaro, i beni o le altre utilità di cui il condannato non può giustificare la provenienza e di cui, anche per interposta persona fisica o giuridica, risulta essere titolare o avere la disponibilità a qualsiasi titolo in valore sproporzionato al proprio reddito, dichiarato ai fini delle imposte sul reddito, o alla propria attività economica. Questa confisca, dunque, consiste in una forma di ablazione fondata essenzialmente sulla sproporzione patrimoniale, sproporzione che permette una presunzione iuris tantum di origine illecita dei beni, secondo un meccanismo di accertamento non dissimile da quello proprio della confisca di prevenzione di cui al c.d. codice antimafia ex d.lg. 159 del 2011.

Un limite all'operatività della confisca è poi desumibile dalla previsione di cui all'art. 240-bis c.p., secondo cui “in ogni caso il condannato non può giustificare la legittima provenienza dei beni sul presupposto che il denaro utilizzato per acquistarli sia provento o reimpiego dell'evasione fiscale, salvo che l'obbligazione tributaria sia stata estinta mediante adempimento nelle forme di legge”. L'inciso è volto ad escludere dall'oggetto della confisca allargata quanto l'imputato abbia già restituito all'erario, evitando una duplicazione di apprensione del provento illecito: la previsione è conforme al disposto di cui all'art. 12-bis d.lg. n. 74 del 2000, secondo cui non può procedersi a confisca del profitto del reato fiscale per la parte che il contribuente ha effettivamente già versato all'erario o che si sia impegnato a versare.

La nuova forma di confisca, per espressa previsione normativa, si applicherà “esclusivamente alle condotte poste in essere successivamente alla data di entrata in vigore della legge di conversione”.

Quanto all'introduzione degli illeciti tributari nel catalogo dei reati presupposto della responsabilità dell'ente ex d.lgs. 231/2001 ai sensi del nuovo art. 25-quinquiesdecies d.lgs. n. 231 del 2001 è prevista per l'ente la sanzione pecuniaria fino a cinquecento quote e se l'ente ha conseguito un profitto di rilevante entità, la sanzione pecuniaria è aumentata di un terzo.

In tutti questi casi, si applicano le sanzioni interdittive di cui all'art. 9, comma 2, lettera c (divieto di contrattare con la pubblica amministrazione, salvo che per ottenere le prestazioni di un pubblico servizio), lettera d (esclusione da agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi e l'eventuale revoca di quelli già concessi) e lettera e (divieto di pubblicizzare beni o servizi).

Ovviamente l'ente risulta poi esposto anche all'applicazione del sequestro e della confisca, diretta e per equivalente, del prezzo o profitto del reato tributario realizzato nell'interesse o a vantaggio dell'ente, superandosi così i limiti precedenti – individuati dalla decisione delle Sezioni Unite Gubert – che in caso di illecito fiscale commesso da amministratori o dirigenti di una persona giuridica consentivano il sequestro in capo all'ente del profitto del reato tributario, sub specie di risparmio d'imposta, solo se si trattava di confisca in via diretta.

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