Pubblico impiego: rapporto tra durata della sospensione disciplinare dal sevizio e procedimento penale

Francesco Meiffret
15 Luglio 2020

In tema di pubblico impiego il termine finale della sospensione del procedimento disciplinare avente oggetto fatti per i quali si procede anche penalmente coincide necessariamente con la pronuncia, sempre in sede penale, di una sentenza irrevocabile...
Massime

In tema di pubblico impiego il termine finale della sospensione del procedimento disciplinare avente oggetto fatti per i quali si procede anche penalmente coincide necessariamente con la pronuncia, sempre in sede penale, di una sentenza irrevocabile (il Tribunale nell'affrontare un procedimento disciplinare per fatti ai quali si applicava l'art. 55-ter, d.lgs. n. 165 del 2001, nella versione precedente alle modifiche di cui il d.lgs. n. 75 del 2017, ha escluso che il termine della sospensione del procedimento disciplinare abbia luogo una volta che in ambito penale sia stata emessa una sentenza non passata in giudicato).

Nel pubblico impiego il termine massimo di durata della sospensione disciplinare dal servizio del dipendente sottoposto per i medesimi fatti contestati anche ad una azione penale, può superare quello quinquennale indicato dall'art. 9 della legge 19 del 1990 stabilito dalla sentenza della Corte costituzionale 3 maggio 2002, n. 145, purché tale estensione sia operata dal Legislatore sulla base dei principi di ragionevolezza e proporzionalità, tenendo altresì presente la gravità del reato contestato.

Il caso

Un dirigente del Ministero delle Infrastrutture e dei trasporti, in data 3 maggio 2011, era stato destinatario di una contestazione disciplinare per atti contrari al proprio ufficio aventi rilevanza penale in base agli artt. 319, 319-bis e 321, c.p.

Il procedimento disciplinare il 28 luglio 2011 era stato sospeso in attesa degli esiti del procedimento penale.

In data 25 ottobre 2011 il dirigente veniva sospeso dal servizio ai sensi dell'art. 11, comma 2, del CCNL 2006-2009 comparto ministeri.

Scaduto il quinquennio per la sospensione facoltativa, la sospensione veniva prolungata di un altro biennio in base all'art. 11, comma 6 del CCNL

Nell'ottobre 2018 il ricorrente veniva assolto per il reato di associazione a delinquere perché il fatto non sussiste e veniva dichiarato il non doversi procedere per gli altri reati per intervenuta prescrizione pur essendo stata accertata la loro commissione.

Il Ministero confermava la sospensione dal lavoro del dipendente anche a seguito della pronuncia penale di I grado nei confronti della quale quest'ultimo presentava appello per ottenere proscioglimento anche nel merito.

Contestualmente all'appello della sentenza penale il ricorrente, in data 1° agosto 2019, presentava ricorso in ambito civile dinnanzi al Tribunale del lavoro di Roma lamentando l'illegittimità della proroga della sospensione dal servizio poiché il Ministero non avrebbe riattivato nei termini di legge il procedimento disciplinare.

Evidenziava che entro 60 giorni dal deposito delle motivazioni della sentenza penale di I grado, il Ministero non aveva riattivato il procedimento disciplinare decadendo dall'esercizio dell'azione disciplinare. Eccepiva, inoltre, la violazione della durata massima di cinque anni della sospensione del servizio in base alla sentenza della Corte costituzionale del 3 maggio 2002, n. 145. Contestava, infine, la violazione dell'art. 3, l. n. 97 del 2001 poiché non era stato trasferito in altro ufficio e, in ultimo, l'assenza di proporzionalità della sospensione rispetto ai fatti a lui contestati.

Il Ministero resisteva rilevando come in sede penale la sentenza alla quale si richiamava il dirigente non era passata in giudicato a causa dell'appello presentato da quest'ultimo. Secondo il Ministero la riattivazione del procedimento disciplinare avrebbe potuto avvenire solo a seguito di una sentenza penale passata in giudicato. A suo giudizio la locuzione utilizzata all'art. 55-ter,d.lgs. n. 75 del 2017 “sospendere il procedimento disciplinare fino al termine di quello penale” implicava l'esaurimento dell'azione penale con l'emissione di una sentenza passata in giudicato.

In merito alla durata massima della sospensione dal servizio rilevava la possibilità di superare il termine quinquennale in base agli artt. 9 e 11 del CCNL applicato.

Le questioni

Il procedimento disciplinare avente oggetto fatti per i quali è stata esercitata l'azione penale deve essere riattivato a seguito di una pronuncia penale non passata in giudicato?

Qual è nel pubblico impiego il termine massimo della sospensione dal servizio? E' possibile superare il termine di 5 anni stabilito dalla sentenza n. 145 del 2002 dalla Corte costituzionale?

Le soluzioni giuridiche

Il Tribunale respinge integralmente le richieste del ricorrente non rinvenendo profili d'illegittimità nel comportamento tenuto dal Ministero.

Il Giudice, infatti, rileva come sia corretta la scelta del datore di lavoro di prorogare la sospensione del procedimento disciplinare sino alla pronuncia di una sentenza definitiva in sede penale in merito alle condotte contestate al ricorrente.

Proprio la gravità delle condotte contestate (corruzione aggravata) ed il fatto che queste in primo grado siano state accertate, ma dichiarate non punibili a causa dell'intervenuta prescrizione, depongono per la correttezza della scelta del datore di lavoro. Nessun obbligo di riattivazione del procedimento disciplinare sussiste a seguito di una pronuncia penale non passata in giudicato. L'art. 55-ter applicabile al caso di specie e, quindi, il testo precedente alle modifiche apportate dal c.d decreto Madia, permette alla P.A. ampia discrezionalità in tema di sospensione dell'azione disciplinare e sua successiva riattivazione per fatti per i quali è stata esercitata anche l'azione penale. La P.A. non è obbligata a sospendere il procedimento disciplinare, ma ha una mera facoltà a fronte di fatti contestati per i quali è instaurato un procedimento penale. Dall'altra parte non è nemmeno obbligata a riattivare il procedimento in presenza di una sentenza penale non irrevocabile. In presenza di quest'ultima ipotesi la P.A. può riattivare il procedimento allorquando ritenga di essere entrata in possesso di elementi che possano giustificare una pronuncia senza attendere il passaggio in giudicato della sentenza.

Nel caso di specie nessun ulteriore elemento era stato acquisito dalla P.A. e la scelta di non rimettere in moto il procedimento disciplinare appare ancor più corretta alla luce dell'impugnazione del ricorrente della sentenza di I grado.

Secondo il Giudicante la decisione della P.A. non pare nemmeno censurabile se si considera che i fatti di corruzione erano stati accertati in sede penale, ma non erano più punibili per via dell'intervenuta prescrizione.

Un'ulteriore indiretta conferma della non obbligatorietà della riattivazione del procedimento disciplinare proviene dalle successive modifiche all'art. 55-ter, comma 2, effettuate dal d.lgs. n. 75 del 2017 che mirano a risolvere eventuali conflitti possibili tra la decisione in ambito disciplinare e la sentenza penale passata in giudicato. L'incipit dello stesso comma 2 è: “se il procedimento disciplinare non è stato sospeso”. La formulazione della prima parte del comma II lascia chiaramente intendere che il Legislatore permette alla P.A. discrezionalmente di scegliere se riattivare o meno il procedimento.

Secondo il Giudice è legittima anche l'altra scelta adottata dalla P.A. di prorogare la sospensione oltre il quinquennio nonostante la pronuncia della Corte Costituzionale che ha dichiarato incostituzionale il II comma dell'art. 4 della l. n. 97 del 2001 nella parte che prevede che la sospensione possa avere una durata pari alla prescrizione del reato che costituisce la condotta per la quale è stato attivato il procedimento disciplinare.

Il Giudice rileva che la Corte costituzionale ha, nelle motivazioni, evidenziato che il limite dei 5 anni della sospensione dal servizio può essere superato dal Legislatore in base ai criteri di ragionevolezza e proporzionalità rispetto alla gravità dei fatti contestati.

Nel caso di specie, in base agli artt. 9 e 11 del CCNL comparto amministrativo applicabile al rapporto di lavoro del ricorrente, è possibile sia una reiterazione della durata biennale della sospensione dal servizio una volta scaduti i primi 5 anni e rinnovabile biennalmente, sia una sospensione dal servizio sino alla sentenza penale passata in giudicato.

Il Giudice termina evidenziando come la posizione apicale del ricorrente, dirigente del comparto amministrativo, la gravità delle accuse (corruzione) che hanno trovato una prima conferma nella sentenza di I grado appellata non possono permettere una ricollocazione in un'altra amministrazione.

Osservazioni

A parere di chi scrive la sentenza in commento appare più che corretta e adeguatamente motivata nella parte in cui ritiene che non sussista alcun obbligo a carico della P.A. di riattivare il procedimento disciplinare dopo una sentenza di I grado.

Alle medesime conclusioni è giunta la Suprema Corte di cassazione nella sentenza, pronunciata successivamente a quella in commento, del 12 marzo 2020, n. 7085 in relazione ad un caso al quale si applicava la disciplina precedente alle modifiche intervenute con il d.lgs. n. 75 del 2017 come nel caso di cui trattasi.

Desta non poche perplessità la motivazione in merito alla correttezza del doppio rinnovo biennale della sospensione dal servizio a seguito della scadenza del termine quinquennale.

Se è vero che il termine quinquennale determinato dalla Corte costituzionale per la sospensione dal servizio del lavoratore impiegato nel pubblico impiego non costituisce un termine invalicabile, la sentenza qui commentata, sulla base degli artt. 9 e 11 del CCNL, ritiene sussistere la possibilità di mantenere sospeso dal servizio il dipendente sino al passaggio in giudicato della sentenza penale.

Quest'ipotesi non pare in linea con la natura chiaramente cautelare della sospensione dal servizio alla luce della più volte richiamata sentenza della Corte costituzionale che autorizza un ampliamento del termine di durata ulteriore ai 5 anni purché la scelta del Legislatore sia basata su criteri di ragionevolezza e di proporzionalità.

Una misura cautelare deve essere limitata nel tempo e non può avere una durata indeterminata (sino al passaggio in giudicato della sentenza). Dall'altra parte i suoi effetti non possono nemmeno protrarsi per un periodo eccessivamente lungo. In entrambe le ipotesi verrebbero limitati oltremisura i diritti, quali quello di difesa, del soggetto colpito dalla misura cautelare. Sul punto la sentenza in commento non pare in linea con una precedente sentenza della Corte costituzionale (C. cost. 3 giugno 1999, n. 206) la quale aveva precisato, partendo proprio da un caso di sospensione dal servizio di un dipendente pubblico, che una misura cautelare deve essere contenuta nel tempo e non deve limitare eccessivamente i diritti che comprime sulla base del principio di proporzionalità stabilito dall'art. 3, Cost.

Pare evidente che estendere l'efficacia della durata della misura della sospensione dal servizio sino al passaggio in giudicato della sentenza annichilisce il diritto di difesa sancito dall'art. 24 Cost. Ma non solo. L'eccessiva durata della misura della sospensione dal servizio, o addirittura l'estensione della sua durata sino al passaggio in giudicato della sentenza, costituirebbe una palese violazione del principio d'innocenza sancito dall'art. 27, comma 2, Cost. Detta eccessiva e non ragionevole durata della misura cautelare costituirebbe una forma di esecuzione anticipata della pena rispetto alla pronuncia dell'autorità giudiziaria chiamata a verificare la veridicità o meno dei fatti contestati.

In sintesi, a giudizio di chi scrive la possibilità di estendere ad libitum l'efficacia della sospensione cautelare non costituisce un corretto bilanciamento tra il principio sancito dall'art. 97 Cost. di buon andamento ed imparzialità della P.A. e quello al lavoro del ricorrente, richiamato più volte dalla nostra Carta, oltre ai già citati artt. 24 e 27 comma 2 Cost.