Applicabilità della tutela reintegratoria attenuata in caso di licenziamento disciplinare non preceduto dalla contestazione dell'addebito

Luigi Santini
27 Luglio 2020

In tema di licenziamento disciplinare, il radicale difetto di contestazione dell'infrazione determina l'inesistenza dell'intero procedimento, e non solo l'inosservanza delle norme che lo disciplinano, con conseguente applicazione della tutela reintegratoria...
Massima

In tema di licenziamento disciplinare, il radicale difetto di contestazione dell'infrazione determina l'inesistenza dell'intero procedimento, e non solo l'inosservanza delle norme che lo disciplinano, con conseguente applicazione della tutela reintegratoria, di cui al comma 4 dell' art. 18 della l. n. 300 del 1970 , come modificato dalla l. n. 92 del 2012 , richiamata dal comma 6 del predetto articolo per il caso di difetto assoluto di giustificazione del provvedimento espulsivo, tale dovendosi ritenere un licenziamento disciplinare adottato senza alcuna contestazione di addebito.

Il caso

La controversia trae origine da una impugnativa di licenziamento disciplinare per una condotta asseritamente minatoria posta in essere da un lavoratore che avrebbe proferito nei confronti del datore di lavoro frasi ricattatorie e lesive dell'immagine aziendale, i cui contorni fattuali non erano stati tuttavia compiutamente descritti nella originaria lettera di contestazione dell'addebito ed erano stati successivamente integrati nella lettera di comunicazione del licenziamento.

I giudici del merito avevano quindi ritenuto che “Una volta escluso che le condotte lesive enunciate nella missiva di licenziamento (di ricatto, minaccia e lesione dell'immagine aziendale) fossero state contestate a norma della l. n. 300 del 1970, art. 7”, il licenziamento doveva ritenersi “viziato in radice, per insussistenza giuridica dei fatti e per violazione del diritto di difesa nel procedimento disciplinare”, con la conseguenza che “era condivisa la ritenuta insussistenza del fatto (materiale) contestato al lavoratore, in quanto non connotato da illiceità e veniva confermata la correttezza della tutela reintegratoria applicata”.

La questione

La questione da esaminare è se nella individuazione della tutela applicabile in caso licenziamento disciplinare illegittimo, l'insussistenza del fatto contestato, cui è correlata la applicabilità della tutela reale “depotenziata” di cui all'art. 18, comma 4, l. 300 del 1970, possa essere riferita solo ai profili di merito attinenti alla concreta sussistenza del fatto materiale oggetto di addebito disciplinare ovvero possa essere integrata anche da un grave vizio di forma nel rispetto delle cadenze procedimentali poste dall'art. 7 l. n. 300 del 1970, e, in particolare, dalla mancanza o incompletezza della contestazione dell'addebito.

Le soluzioni giuridiche

Come è noto, ai sensi del sesto comma dell'art. 18 della l. n. 300 del 1970, come novellato dall'art. 1, comma 42, lett. b) della l. n. 92 del 2012, nell'ipotesi in cui il licenziamento sia dichiarato inefficace per carenza di motivazione ovvero per violazione delle cadenze procedimentali di cui all'articolo 7 della medesima, si applica una tutela indennitaria “ridotta”, tra un minimo di sei e un massimo di dodici mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, “a meno che il giudice, sulla base della domanda del lavoratore, accerti che vi è anche un difetto di giustificazione del licenziamento, nel qual caso applica, in luogo di quelle previste dal presente comma, le tutele di cui ai commi quarto, quinto o settimo” (in termini sostanzialmente analoghi si pone l'art. 4 del d.lgs. n. 23 del 2015, sulle tutele crescenti).

E' altresì ampiamente noto che la tutela reintegratoria “attenuata” si applica in caso di licenziamento non supportato da giusta causa o giustificato motivo soggettivo, ove sul piano sostanziale il fatto (materiale) contestato non sussista (comma 4), mentre la tutela indennitaria “forte” si applica, in via residuale, in ogni altra ipotesi di assenza di giusta causa o giustificato motivo soggettivo (comma 5).

Orbene, poiché l'ipotesi di assenza o incompletezza della contestazione viene tradizionalmente qualificata quale vizio di forma (e cioè quale violazione del disposto di cui al secondo comma dell'art. 7 della l. n. 300 del 1970), non sembrerebbe prima facie potersi dubitare in ordine alla sua riconducibilità nel regime di tutela indennitaria disciplinato dal quinto comma dell'art.18 novellato.

Tuttavia, tale assetto normativo determina, secondo l'espressione utilizzata nella sentenza in commento, una “aporia macroscopica”, atteso che il datore che licenziasse un lavoratore omettendo l'iniziale contestazione dell'infrazione sarebbe poi libero di dimostrare in giudizio ogni fatto costituente giusta causa o giustificato motivo soggettivo di licenziamento (limitando così le conseguenze in suo danno all'applicazione della mera tutela indennitaria “ridotta”), mentre quello che (più diligentemente) avesse invece specificato nella lettera di contestazione un fatto a suo avviso costituente illecito disciplinare, resterebbe vincolato a tale formulazione, con la conseguenza che, in caso di accertata insussistenza di tale fatto, incorrerebbe inevitabilmente nella tutela reintegratoria “attenuata”, essendogli precluso di dedurre e provare l'esistenza di altri fatti idonei a costituire giustificazione sostanziale del recesso.

La sentenza in disamina si propone quindi di evitare la “discrasia di sistema” cui condurrebbe una interpretazione meramente letterale della suddetta disposizione, proponendo una differente prospettiva ermeneutica, in base alla quale, ove il licenziamento venga intimato senza essere preceduto da una completa e specifica contestazione disciplinare, ciò determinerebbe l'inesistenza dell'intero procedimento disciplinare (e non semplicemente la violazione delle sue cadenze procedimentali), che sarebbe del tutto equiparabile alla radicale insussistenza, sul piano sostanziale, del fatto (materiale) contestato, con conseguente applicabilità della tutela reintegratoria “attenuata”.

In una simile prospettiva, la Suprema Corte ha ribadito che, anche ai fini della individuazione della tutela applicabile, l'espressione "fatto contestato" (fatto materiale contestato nel regime del d.lgs. n. 23 del 2015) “sia indicativa della necessità che il fatto, la cui sussistenza o insussistenza deve essere accertata in giudizio, sia delineato nei suoi esatti termini e contorni in sede di contestazione”. Tale soluzione, secondo la Cassazione, è l'unica idonea a “riconoscere idonee garanzie di difesa al lavoratore in sede di giustificazioni, essendo evidente che il fatto da provare da parte del datore di lavoro risenta anche delle giustificazioni fornite dal primo, che, ove esaustive e dirimenti, potrebbero indurre il datore anche a desistere dal proseguire nel procedimento disciplinare ed a non irrogare la sanzione espulsiva rispetto alla quale la contestazione dell'addebito era funzionale”.

Osservazioni

Non è una novità che l'applicazione del comma 6 dell'art. 18 citato, con riguardo al contenzioso in materia di licenziamento disciplinare, abbia posto seri problemi interpretativi. Tra questi, con riguardo allo specifico problema della mancanza o incompletezza della contestazione disciplinare, occorre domandarsi se i principi di completezza ed immutabilità dell'addebito riguardino, sotto il profilo meramente procedurale, la sola comunicazione dell'infrazione contestata o, sul piano sostanziale, l'esercizio stesso del potere disciplinare. Interrogativo la cui soluzione non rimane priva di conseguenze, ove si osservi che, nel caso di mero vizio di forma, si dovrà ritenere violato l'art. 7, comma 2, della l. n. 300 del 1970, con conseguente applicazione del sesto comma dell'art. 18 (tutela indennitaria), mentre, in caso di inesistenza dell'intero procedimento disciplinare, il licenziamento dovrebbe ritenersi privo di giustificazione per radicale insussistenza del fatto contestato, con conseguente applicabilità della tutela reintegratoria “attenuata” di cui al quarto comma.

La sentenza in commento aderisce a tale ultima opzione ermeneutica, sulla scia di altre recenti decisioni della Suprema Corte, sia in tema di tardività della contestazione dell'addebito (v. Cass., sez. lav., 31 Gennaio 2017, n. 2513, secondo cui “un fatto non tempestivamente contestato ex art. 7 l. n. 300 del 1970 non può che essere considerato come "insussistente" non possedendo l'idoneità ad essere verificato in giudizio. Si tratta in realtà di una violazione formale o procedurale commessa dal datore di lavoro a carattere radicale che, coinvolgendo i diritti di difesa del lavoratore, impedisce in radice che il Giudice accerti la sussistenza o meno del " fatto", e quindi di valutarne la commissione effettiva, anche a fini delle scelta tra i vari regimi sanzionatori. Non essendo stato contestato idoneamente ex art. 7 il "fatto" è "tamquam non esset" e quindi " insussistente" ai sensi a dell'art. 18 novellato. Sul piano letterale la norma parla di insussistenza del "fatto contestato" (quindi contestato regolarmente) e quindi, a maggior ragione, non può che riguardare anche l'ipotesi in cui il fatto sia stato contestato abnormemente e cioè in aperta violazione dell'art. 7”), sia in tema di violazione del principio di immutabilità della contestazione (v. Cass., sez. lav., 9 maggio 2018, n. 11159, secondo cui tale violazione va ravvisata in ogni ipotesi in cui la divergenza tra i fatti posti a base della contestazione iniziale e quelli che sorreggono il provvedimento disciplinare “comporti in concreto una violazione del diritto di difesa del lavoratore, per essere intervenuta una sostanziale modifica del fatto addebitato che si realizza quando il quadro di riferimento sia talmente diverso da quello posto a fondamento della sanzione da menomare concretamente il diritto di difesa”).

La decisione in esame si pone quindi in tale solco interpretativo, avendo ribadito il principio secondo cui un fatto che non sia stato oggetto di specifica ed esaustiva contestazione va equiparato ad un fatto del tutto insussistente, non possedendo alcuna idoneità ad essere verificato in giudizio, ed è quindi da ritenersi "tamquam non esset". Saremmo cioè in presenza di un vizio talmente radicale che, a prescindere dall'accertamento della sua natura formale/procedurale, impedisce in radice al giudice di accertare la sussistenza o meno del "fatto", e quindi di valutarne la commissione effettiva, anche ai fini delle scelta tra i vari regimi sanzionatori. Del resto, la norma parla di insussistenza del "fatto contestato" (facendo quindi riferimento ad un fatto delineato nei suoi esatti termini e contorni già in sede di contestazione), per cui non può che riguardare anche l'ipotesi in cui il fatto non sia stato contestato affatto o lo sia stato in modo del tutto lacunoso, in aperta violazione dell'art. 7 cit.

Una simile conclusione, pur riconducibile ad un filone interpretativo che va via via sempre più consolidandosi, desta qualche perplessità, comportando essa difficili problemi applicativi nella quotidiana elaborazione giurisprudenziale, tutte le volte in cui il fatto sia stato contestato solo in parte e si versi conseguentemente in una “zona di confine” tra le due tutele astrattamente applicabili. In tal caso, infatti, si porrà il problema di accertare quale sia il criterio ermeneutico attraverso cui individuare la soglia-limite oltre la quale l'inosservanza dei principi di specificità e completezza della contestazione disciplinare possa assumere caratteristiche tali da consentire l'applicazione della tutela reintegratoria attenuata di cui al comma 4, in luogo di quella indennitaria prevista dal comma 6. Ed appare evidente che, a seconda di come venga esercitata tale estesa discrezionalità nella concreta prassi applicativa, potrà in concreto accadere che licenziamenti viziati (solo) nella forma possano godere di una tutela reintegratoria che viene invece negata a licenziamenti che, sul piano sostanziale, non siano sorretti da giusta causa o giustificato motivo.

Può quindi fondatamente sollevarsi il dubbio che, in un sistema sanzionatorio analiticamente disciplinato dal legislatore attraverso la previsione capillare di una serie di sub-fattispecie, e quindi teso a delimitare entro limiti ben circoscritti l'ambito interpretativo rimesso al giudice, il principio espresso nella decisione in esame finisca con il porsi in contrasto con la ratio legis del novellato art. 18, rimettendo inammissibilmente alla discrezionalità del giudice la concreta individuazione delle fattispecie in cui, in presenza di una contestazione disciplinare lacunosa, debba applicarsi la tutela reintegratoria “attenuata” piuttosto che quella indennitaria.

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