Violazione del distanziamento sociale e sorveglianza speciale: verso la “banalizzazione del male”?
05 Agosto 2020
Massima
La violazione del distanziamento fisico prescritto in periodo di pandemia da Covid-19 può essere valutata ai fini della sorveglianza speciale, ai sensi dell'art. 1 lett. c) d.lgs. 159/11, solo quando risulti la positività al virus dei soggetti responsabili, non potendosi utilizzare ai fini della misura di prevenzione il mero “pericolo di pericolo” del delitto di epidemia colposa, e cioè un elemento di fatto del tutto evanescente. Il caso
Il Questore di Bari richiedeva al locale Tribunale l'applicazione al proposto della misura di prevenzione personale della sorveglianza speciale. A sostegno della richiesta, da un lato è stato rilevato come lo stesso fosse stato destinatario di due condanne definitive per detenzione di stupefacenti a fini di spaccio e di una condanna nell'ambito di procedimento pendente in fase di gravame; dall'altro il proponente ha rimarcato che il proposto aveva già ricevuto avviso orale da parte del Questore, nonché un provvedimento di DASPO ed, infine, una denuncia per violazione della normativa sul distanziamento fisico, COVID 19.
La questione
Il Tribunale di Bari respingeva la richiesta di applicazione della misura di prevenzione personale ritenendo il difetto della condizione di pericolosità di cui all'art. 1 lett. b) d.lgs. n. 159/2011. Avverso il decreto, il Procuratore della Repubblica ha avanzato ricorso alla Corte distrettuale: nell'impugnazione il P.M. ha dedotto l'abitualità nel tipo di reato nonché una serie di controlli effettuati tra aprile 2017 e agosto 2018. Le soluzioni giuridiche
In primo luogo, i giudici del gravame hanno escluso che il proposto potesse ritenersi vivere abitualmente con i proventi della propria attività di spaccio, trattandosi di vendita, di volta in volta, di piccoli quantitativi di droga leggera, sintomatici della circostanza che la vendita non poteva risultare di per sé idonea a fornire sia pure parzialmente i mezzi abituali per vivere al prevenuto. Inoltre, gli stessi giudici hanno evidenziato come il DASPO, pur costituendo di per sé misura di prevenzione e pur potendo coesistere con la misura di prevenzione personale della sorveglianza speciale, non possa essere posta a fondamento della applicazione della diversa misura poiché finirebbe per violare il divieto del ne bis in idem. Tuttavia la parte di maggior interesse della pronuncia “barese” concerne il rilievo da accordare a condotte poste in essere in violazione della normativa sul distanziamento fisico, che il rapido susseguirsi di norme provenienti da diverse fonti aveva dapprima connotato in termini di illiceità penale e, attualmente, costituenti mero illecito amministrativo: il fatto risulta essere stato commesso il 16 marzo 2020, in allora contravvenzione, successivamente depenalizzata. Ciò, secondo quanto si legge nel decreto, impedisce di individuare sic et simpliciter nella trasgressione della normativa anti Covid-19 il presupposto fondante l'applicazione della misura di prevenzione personale della sorveglianza speciale, né ai sensi dell'art. 1 lett. b), né ai sensi dell'art. 1 lett. c), laddove si volesse ipotizzare una riqualificazione della fattispecie. Per la Corte, infatti, tale comportamento inosservante dell'obbligo del distanziamento fisico, quantunque sintomatico di indifferenza verso il prossimo, pur a fronte della crescita esponenziale dei contagi (in allora) e il grande senso di angoscia collettiva del periodo del c.d. lockdown, veicola un coefficiente di pericolosità sfumato dal momento che può determinare ovvero aumentare il rischio di una epidemia colposa, anche solo in un contesto sociale ristretto, solo ove il soggetto inosservante risulti positivo al virus Covid-19. Ne discende che, denotando tale comportamento un mero “pericolo di pericolo”, la condotta costituente illecito amministrativo non può di per sé sola fondare la richiesta e, conseguentemente, l'applicazione della misura di prevenzione. Nel caso di specie la positività al virus non è stata accertata né con riferimento al proposto né con riferimento alle persone in sua compagnia, peraltro non pregiudicati (l'uno è incensurato e l'altro ha un solo precedente minorile, con pena sospesa). In definitiva, la violazione del distanziamento fisico prescritto in periodo di pandemia da Covid-19 può essere valutata ai fini della sorveglianza speciale, ai sensi dell'art. 1 lett. c) d.lgs. 159/11, solo quando risulti la positività al virus dei soggetti responsabili, non potendosi utilizzare ai fini della misura di prevenzione il mero "pericolo di pericolo" del delitto di epidemia colposa, e cioè un elemento di fatto, ritenuto dai giudici, del tutto evanescente. Osservazioni
Le pregevoli considerazioni dei giudicanti baresi meritano totale condivisione: risulta, invero, difficile comprendere come la violazione del distanziamento fisico possa assumere rilievo per ritenere il contravventore ascrivibile alla categoria di coloro che per la condotta ed il tenore di vita debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che vivono abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose. Quindi la condotta di cui si discute, nella sua transizione da contravvenzione a illecito amministrativo, mai avrebbe potuto fondare una richiesta di applicazione della sorveglianza speciale per chiaro contrasto con il dettato normativo. Tuttavia, il decreto in commento consente di svolgere ulteriori riflessioni sulle conseguenze giuridiche che l'emergenza Covid-19 è destinata a produrre, per altro verosimilmente suscettibili di ulteriore perpetuazione: al momento, con delibera del Consiglio dei ministri 29 luglio 2020 (G.U. n. 190 del 30-7-2020), lo stato di emergenza è stato prorogato fino al 15 ottobre 2020. Ne è conseguito il decreto legge 30 luglio 2020 n. 83 (stessa G.U.) che ha prorogato i termini previsti dall'articolo 1, comma 1, del decreto legge 19/2020, convertito dalla l. 35/2020 e dall'articolo 3, comma 1, del d.l. 33/2020, convertito in l. 74/2020. Se solo l'accertata positività al virus dei soggetti responsabili della violazione del distanziamento fisico prescritto in periodo di pandemia da Covid-19 può essere valutata ai fini dell'applicazione della sorveglianza speciale, allora appare ragionevole, secondo quanto sostenuto da autorevole dottrina, che la configurabilità del delitto di epidemia colposa in capo al soggetto infetto da COVID-19 sia destinato a trovare spazi applicativi sinora ignoti di fronte alla prima pandemia verificatasi dall'entrata in vigore del codice penale.
La prima considerazione da svolgersi investe necessariamente il delitto di epidemia colposa, con specifico riferimento alla pandemia in corso, fattispecie espressamente richiamata dai giudici baresi come la sola che potrebbe legittimare l'adozione di una misura tanto grave come la sorveglianza speciale. L'art. 4, comma 6, d.l. n. 19 del 2020 dispone che, salvo che il fatto costituisca violazione dell'articolo 452 del codice penale o comunque più grave reato, la violazione della misura di cui all'articolo 1, comma 2, lettera e) (“divieto assoluto di allontanarsi dalla propria abitazione o dimora per le persone sottoposte alla misura della quarantena perché risultate positive al virus”), è punita ai sensi dell'articolo 260 del regio decreto 27 luglio 1934, n. 1265, Testo unico delle leggi sanitarie, come modificato dal comma 7, il cui trattamento sanzionatorio è stato inasprito dal successivo comma 7 (le parole «con l'arresto fino a sei mesi e con l'ammenda da lire 40.000 a lire 800.000» sono sostituite dalle seguenti: «con l'arresto da 3 mesi e con l'ammenda da euro 500 ad euro 5.000»). Ai sensi dell'art. 25 c.p., in difetto di una diversa specificazione, la misura massima della pena dell'arresto è pari ad anni tre. La disposizione è stata convertita, senza modificazioni, dalla legge n. 35 del 22 maggio 2020. Il citato articolo 452 del codice penale estende la punizione prevista per i reati contro la salute pubblica descritti negli articoli da 438 a 445 c.p. ai casi in cui i fatti indicati da tali ultime norme siano commessi per colpa, graduandone la sanzione in proporzione alle corrispondenti fattispecie dolose. I delitti colposi contro la salute pubblica sono reati comuni potendo essere commessi da chiunque, salva la titolarità di una posizione di garanzia in caso di condotte omissive. La norma in esame costituisce un rafforzamento della tutela della salute pubblica qualora insidiata, posta in pericolo o lesa, in conformità alle ipotesi tipiche delineate nelle norme richiamate dall'art. 452, da condotte contrarie a regole precauzionali. Esula dalle figure delittuose in esame ogni riferimento alla frode, essendo questa incompatibile con l'elemento soggettivo della colpa. I delitti previsti dalla norma in commento richiedono, quali elementi costitutivi, l'integrazione dei “fatti” di cui alle fattispecie dolose corrispondenti, realizzati attraverso la violazione di norme cautelari idonee a fondare il giudizio di colpa a carico dell'agente. La condotta idonea a integrare una di tali ipotesi delittuose consiste quindi nel commettere per colpa uno dei fatti previsti dagli articoli da 438 a 445 c.p. I reati colposi in esame sono a forma libera o vincolata secondo la struttura dei corrispondenti delitti dolosi. Le condotte dirette a integrare le fattispecie criminose richiamate dalla norma in esame possono essere tanto attive, quanto omissive. Diversamente, la giurisprudenza, con riferimento al reato di epidemia colposa, ritiene non configurabile la responsabilità a titolo di omissione, in quanto l'art. 438 c.p., con la locuzione "mediante la diffusione di germi patogeni", richiede una condotta commissiva a forma vincolata, incompatibile con il disposto dell'art. 40, comma 2, riferibile esclusivamente alle fattispecie a forma libera (Cass. IV, n. 9133/2018, Giacomelli). Giova però precisare che la sentenza Giacomelli aveva ad oggetto un caso di omessa depurazione di un acquedotto, con diffusione di germi patogeni causante disturbi gastroenterici a circa 1.500 persone, risoltisi per lo più in pochi giorni e senz'alcun decesso. Situazione alquanto difforme rispetto al quadro derivato dalla diffusione del SARS-CoV-2 e che potrebbe pesare sulla giurisprudenza. Qui rileva l'epidemia e allora occorre domandarsi: la diffusione di germi patogeni, richiesta dall'art. 438 c.p., può realizzarsi anche in forma omissiva? Autorevoli commentatori hanno evocato la nozione di suggestione epidemiologica, non per negare la possibilità di fornire risposta positiva al quesito, ma per far rilevare le difficoltà concrete insite in tal tipo di accertamento: ci si può chiedere, ad esempio, quanto possa influire sull'affidabilità delle indagini epidemiologiche il discontinuo metodo di rilevamento dei soggetti positivi (basti pensare, nell'epidemia Covid-19, alla questione della scarsità di tamponi per individuare i soggetti positivi o alla selezione della platea di persone da sottoporre a tampone). Secondo altra autorevole, dottrina, la risposta non può che essere tout court positiva: il “non fare qualcosa” può produrre la diffusione. Ad es., in un ampio ambiente ospedaliero si verifica la presenza di un paziente affetto dal virus SARS-CoV-2 a contatto con altri pazienti e con il personale sanitario: ci sono quindi i presupposti per la diffusione e si omette di inibire la diffusione, che, invece, si propaga senza controllo. L'omissione consiste nel non inserire il dovuto ostacolo alla diffusione. Questo avviene anche nella fattispecie colposa, dove un ruolo fondamentale assume la regola cautelare che integra la fattispecie incriminatrice. Più precisamente diviene determinante lo scopo, il fine di questa regola. A questo punto pare opportuno domandarsi: la diffusione di germi patogeni è ciò che la regola cautelare mira a prevenire? Ci deve essere cioè coincidenza fra l'oggetto di previsione legislativa e l'oggetto di prevenzione cautelare. Se c'è questa coincidenza e l'inosservanza della regola cautelare produce la diffusione, non può che derivarne la punibilità: il fatto è conforme alla fattispecie. Si prenda ad esempio la regola cautelare: “Occorre isolare il paziente sospetto Covid-19 prima ancora di avere la conferma laboratoristica della positività del tampone”. Il fine è quello di evitare la diffusione. Lo stesso potrebbe dirsi rispetto a certe regole cautelari relative all'ambiente di lavoro, ad es., l'informazione sul rischio biologico da agenti infettivi o la fornitura dei dispositivi di protezione individuale. Altre regole cautelari hanno uno scopo di meno agevole individuazione. Ad es., “Va posta in diagnosi differenziale un'infezione da Covid-19 di fronte ad un quadro clinico di tosse, febbre e dispnea unito a un quadro radiologico di addensamenti polmonari bilaterali, simmetrici, periferici”. In questa regola spicca quale fine la cura del paziente, ma ad esso potrebbe aggiungersi l'allarme di diffusione del virus alle persone a contatto con il paziente, se si omette l'approfondimento diagnostico in direzione Covid-19. Altre regole hanno, invece, all'evidenza solo il fine della cura del paziente. Ad es., “Non somministrare l'idrossiclorochina ad un paziente Covid-19 che presenta carenza di enzima G6PD”.
In conclusione sul punto: l'epidemia colposa è configurabile nella forma omissiva, tutte le volte in cui la regola cautelare inosservata ha come scopo l'ostacolare la diffusione dei germi patogeni. Ciò non significa sovrapporre l'omissione alla componente omissiva della colpa, data dal non fare quanto la regola cautelare raccomanda e in quanto tale presente in tutte le ipotesi di colpa. L'omissione è qui intesa come dato naturalistico e cioè il non inserimento del fattore ostacolante su un processo causale già in atto e che costituisce il presupposto per la diffusione, ad es., omesso isolamento di un paziente Covid-19. L'azione è qui valutata anch'essa in senso naturalistico e cioè come realizzazione del fattore che dà avvio a un processo causale. Ad es., paziente che contrae il SARS-CoV-2 da personale sanitario durante il trasporto in autoambulanza per l'uso di devices contaminati e poi ricoverato in ambiente ospedaliero pulito, che in conseguenza si sporca. Questo auspicato revirement rispetto alla sentenza Giacomelli volto a ritenere la configurabilità del reato di epidemia colposa anche in forma omissiva, apparentemente potrebbe apparire in contrasto con le considerazioni svolte dalla Corte d'appello di Bari. Tuttavia laddove questo processo di revisione avvenga tenuto conto dei rischi insiti nella cd. suggestione epidemiologica, allora entrambe le posizioni paiono espressione della ricerca di un diritto penale minimo volto ad intervenire esclusivamente nei confronti di condotte connotate da effettivo disvalore sociale: ne discende, in termini di “prevenzione”, che non rileva il mero “pericolo di pericolo”. Pertanto il decreto in commento deve essere valutato con particolare favore, soprattutto in questa particolare congiuntura socio-economica: esso pare infatti inserirsi nel solco di quelle pronunce giudiziarie volte ad porre un freno alla cd. panpenalizzazione che tende ad attribuire rilievo latu sensu penale anche a condotte di mera emarginazione sociale. È costante la tensione da parte della giurisdizione, sia di merito che di legittimità, a porre rimedio al “dilagare” dell'autorità amministrativa di pubblica sicurezza. Esemplare in tal senso è, da ultimo, Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 30-10-2019) 06-05-2020, n. 13723: il Tribunale di Venezia ha assolto con la formula perché il fatto non sussiste l'imputato dal reato di cui al D.Lgs. n. 159 del 2011, art. 76, comma 3, contestatogli per essere stato ripetutamente controllato dal febbraio al giugno 2015 nel territorio di Venezia, così contravvenendo alle prescrizioni imposte dal Questore con provvedimento del 6 giugno 2014, con il quale era stato disposto il suo rimpatrio con foglio di via obbligatorio nel luogo di residenza o domicilio in Romania e il divieto di ritornare nel comune di Venezia prima del decorso di anni tre. A ragione della decisione il Tribunale osservava che il provvedimento presupposto presentava un duplice profilo di illegittimità afferente al difetto di motivazione sia in ordine agli elementi di fatto sui quali si basava il giudizio di appartenenza del prevenuto ad una delle categorie contemplate nel D.Lgs. n. 159 del 2011, art. 1 sia in ordine agli elementi addotti con riferimento alla sua ritenuta pericolosità. A fronte del ricorso del Pubblico ministero, la Corte di cassazione ha statuito che è legittima la disapplicazione dell'atto motivato soltanto sulla base di illazioni, congetture o meri sospetti e sulla astratta probabilità della commissione di delitti, poiché l'ordine, alla cui violazione consegue l'illecito penale, non può che essere adottato in presenza dei presupposti normativi e, segnatamente, emesso nei confronti di un soggetto appartenente ad una delle categorie contemplate dalla disposizione normativa citata e del quale sia stata enunciata, con argomentazioni ancorate a concreti elementi di fatto, la pericolosità. Secondo i giudici di legittimità, dei detti principi il Tribunale ha fatto corretta interpretazione ed esatta applicazione, ponendo in rilievo come il provvedimento del questore: avesse valorizzato attività certamente non costituenti reato, quali l'esercizio abusivo di facchinaggio e l'accattonaggio (che diventa reato, ex art. 600-octies c.p., nel caso di coinvolgimento di minori o di organizzazione dell'accattonaggio altrui); avesse adombrato presunte modalità estorsive di siffatte condotte senza nessuna indicazione di elementi concreti e apprezzabili, atti ad accreditarne una connotazione marcatamente intimidatoria, ma svolgendo considerazioni generiche nemmeno specificamente riferite all'imputato ("...la stazione di Mestre...è diventato luogo di sosta di numerosi soggetti i quali, stazionando lungo le vie in attesa degli utenti, si avvicinano ad essi chiedendo loro l'elemosina con atteggiamenti insistenti e forzosi dell'altrui volontà"); avesse poi fatto un generico riferimento a "precedenti di polizia" per reati contro la persona e contro il patrimonio - cui non aveva trovato seguito nessuna condanna, essendo l'imputato incensurato -, senza neppure una descrizione sommaria dei fatti e indicazione dei tempi; avesse indebitamente valorizzato la condizione di senza fissa dimora e di assenza di stabile attività lavorativa quale fattore agevolatore di iniziative illecite. E lo ha, pertanto, ritenuto atto non legalmente dato siccome privo di ogni reale motivazione giustificativa della qualificazione dell'imputato quale appartenente alla categoria, espressamente indicata, dei soggetti elencati al d.lgs. n. 159 del 2011, art. 1, lett. c) che si riferisce a “coloro che per il loro comportamento debbono ritenersi, sulla base di elementi di fatto,....dediti alla commissione di reati che offendono o mettono in pericolo l'integrità fisica o morale dei minorenni, la sanità, la sicurezza o la tranquillità pubblica”. Con la conseguenza che l'offesa o la messa in pericolo degli indicati beni per essere rilevante, ai fini della formulazione del giudizio di pericolosità, devono discendere da reati, e non da condotte non aventi rilevanza penale. Il riferimento a reati – connotati dalla particolare qualità soggettiva delle persone offese o dallo specifico bene giuridico vulnerato – e, dunque, a un concreto riscontro di attività di comprovata rilevanza penale, esclude ogni valenza giuridica al rilievo di precedenti di polizia genericamente e indistintamente evocati, come pure al rilievo dell'esercizio di attività di facchinaggio o di accattonaggio, circostanze di per sè sole anodine e non significative sul piano della effettiva prognosi criminale imposta dall'art. 1, lett. c), nel difetto di elementi concreti dai quali desumere che le suddette attività, di per sè non costituenti reato, fossero svolte con modalità tali da mettere in pericolo la sicurezza e la tranquillità pubblica; mentre la condizione di marginalità sociale e lavorativa non può certamente fondare sul piano logico, oltre che giuridico, nessuna prognosi in ordine alla futura commissione di condotte di rilevanza penale. Gli argomenti “spesi” dai giudici di legittimità sembrano replicare, mutatis mutandis, quelli che si rinvengono nel decreto che si commenta. Per altro, la sentenza della Cassazione pare assumere una valenza “profetica”: le conseguenze economiche del lockdown sono indubbiamente destinate ad amplificare i fenomeni di marginalità sociale e lavorativa, magari commessi con violazione delle norme sul distanziamento sociale. Per questi motivi appare opportuno che l'autorità amministrativa di pubblica sicurezza avvii un'efficace azione di self restraint: diversamente si corre il rischio di banalizzare una pandemia che può trovare incerta occasione di sviluppo a seguito della violazione delle generiche norme sul distanziamento sociale, ma che, viceversa, trova sicuro motivo di “esplosione” laddove non vengano osservate le specifiche condotte cautelative sopra evidenziate. Crimi Francesco, Viola l'obbligo di distanziamento da Covid–19: corretto applicare la sorveglianza speciale?, in www.quotidianogiuridico.it, 2 luglio 2020 Codice penale commentato, Giuffrè, Art. 452 – Delitti colposi contro la salute pubblica, e bibliografia ivi richiamata Paolo Piras, Sulla configurabilità dell'epidemia colposa omissiva, in www.sistemapenale.it, 8 Luglio 2020 Luca Agostini, Pandemia e "penademia": sull'applicabilità della fattispecie di epidemia colposa alla diffusione del Covid-19 da parte degli infetti, in Sistema Penale 4/2020 Giuseppe Battarino, Andrea Natale, Reati dell'epidemia e reati nell'epidemia, Questione Giustizia, 2/2020 Ferdinando Brizzi, Gli interventi del d.l. sicurezza in tema di pericolosità sociale: “ci sarà pure un giudice a Berlino”, in Il Penalista 14 Febbraio 2019 |