Contratto a tempo indeterminato riconosciuto dal giudice: niente restituzione della disoccupazione all’INPS

Attilio Ievolella
28 Agosto 2020

Inutile il ricorso proposto dall'istituto previdenziale. Confermato il decreto con cui è stata ordinata all'INPS la restituzione delle trattenute operate sul trattamento pensionistico di un uomo ritenuto colpevole di avere indebitamente percepito l'indennità di disoccupazione per quattro anni.

Inutile il ricorso proposto dall'istituto previdenziale. Confermato il decreto con cui è stata ordinata all'INPS la restituzione delle trattenute operate sul trattamento pensionistico di un uomo ritenuto colpevole di avere indebitamente percepito l'indennità di disoccupazione per quattro anni.

A bocca asciutta l'INPS. Illegittima la pretesa dell'ente previdenziale, cioè ottenere la restituzione della indennità di disoccupazione versata per ben quattro anni a un lavoratore che, in realtà, per quell'arco di tempo si è visto riconosciuto in Tribunale un rapporto a tempo indeterminato – poi risolto definitivamente e in modo consensuale con una transazione – con annesso risarcimento del danno non patrimoniale. (Cassazione, sez. Lavoro, ordinanza n. 17793, depositata il 26 agosto).

Terreno di scontro è un decreto con cui viene ordinata all'INPS «la restituzione delle trattenute operate sul trattamento pensionistico» di un uomo per «indebita percezione dell'indennità di disoccupazione» da parte sua per quattro anni.

Prima in Tribunale e poi in Appello viene respinta l'opposizione proposta dall'istituto previdenziale. In particolare, in secondo grado, i Giudici ritengono sacrosanto il diritto del pensionato a «trattenere l'indennità di disoccupazione», osservando che nel periodo in esame «egli era stato effettivamente disoccupato, non percependo alcuna retribuzione».

Dai giudici, poi, un ulteriore chiarimento: «non era di ostacolo al diritto all'indennità di disoccupazione la sopravvenuta sentenza con cui il Tribunale, nella controversia tra l'uomo e una società, aveva dichiarato la nullità della clausola di apposizione del termine e riconosciuto un rapporto a tempo indeterminato per lo stesso periodo», condannando peraltro «la datrice di lavoro al risarcimento nella misura delle retribuzioni spettanti». A questo proposito, viene rilevato che «per una parte del periodo in contestazione al lavoratore era stato riconosciuto il risarcimento del danno e non la retribuzione, e, considerato anche l'intervento della disciplina prevista con la legge numero 183 del 2010, sussisteva l'interesse del lavoratore, stante il configurarsi di una ‘res dubia', a concludere una transazione con riconoscimento di 45mila euro a titolo di danno non patrimoniale, ben inferiore alle annualità non percepite».

In sostanza, «non era configurabile un'inerzia del lavoratore a far valere i suoi diritti derivanti dalla sentenza, dovendosi valutare anche la concreta possibilità del lavoratore di conseguire gli effetti della sentenza stessa».

Inoltre, viene rilevato ancora in Appello, l'uomo «non era mai stato reintegrato nel posto di lavoro, né aveva ricevuto spettanze retributive, e ciò escludeva che l'indennità di disoccupazione potesse diventare indebita per il solo fatto di aver ottenuto una sentenza favorevole» e comunque «nei confronti dell'INPS si doveva avere riguardo non alla sentenza ma alla transazione intercorsa tra l'uomo e la società».

La visione tracciata tra primo e secondo grado viene fortemente contestata dall'INPS. Ecco spiegato il ricorso in Cassazione, ricorso centrato su una considerazione: «l'accertamento giudiziale di un valido rapporto di lavoro a tempo indeterminato» per i quattro anni in esame «escludeva la sussistenza del diritto a percepire l'indennità di disoccupazione». Senza dimenticare, poi, che «la mancata concretizzazione di quanto statuito dalla sentenza era conseguenza dell'inerzia del lavoratore», aggiungono ancora dall'INPS.

I Giudici della Cassazione ribattono ricordando che «l'evento coperto dal trattamento di disoccupazione è l'involontaria disoccupazione per mancanza di lavoro, ossia quella inattività, conseguente alla cessazione di un precedente rapporto di lavoro, non riconducibile alla volontà del lavoratore, ma dipendente da ragioni obiettive e cioè mancanza della richiesta di prestazioni del mercato di lavoro. La sua funzione è quella di fornire in tale situazione ai lavoratori (e alle loro famiglie) un sostegno al reddito, e tale presupposto si verifica anche nel caso di scadenza del termine contrattuale, in cui la cessazione del rapporto non deriva da iniziativa del lavoratore».

Peraltro, «la domanda per ottenere il trattamento di disoccupazione non presuppone neppure la definitività del licenziamento e non è incompatibile con la volontà di impugnarlo, mentre l'effetto estintivo del rapporto di lavoro, derivante dell'atto di recesso, determina comunque lo stato di disoccupazione che rappresenta il fatto costitutivo del diritto alla prestazione, e sul quale non incide la contestazione in sede giudiziale della legittimità del licenziamento». Di conseguenza, «solo una volta dichiarato illegittimo il licenziamento e ripristinato il rapporto per effetto della reintegrazione, le indennità di disoccupazione potranno e dovranno essere chieste in restituzione dall'istituto previdenziale, essendone venuti meno i presupposti, così non potendo, peraltro, le stesse essere detratte dalle somme cui il datore di lavoro è stato condannato ai sensi della legge numero 300 del 1970, articolo 18».

Alla luce di tali principio, si può affermare, spiegano dalla Cassazione, che in questa vicenda «si è verificata una situazione di disoccupazione all'esito della scadenza del termine contrattuale, non ostandovi il fatto che in presenza di una sentenza dichiarativa dell'illegittimità del detto termine contrattuale e di conversione del rapporto a tempo indeterminato ex tunc, sia intervenuta tra le parti una transazione prevedente la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro, la regolarizzazione previdenziale e l'erogazione di un importo a titolo di danno non patrimoniale».

Per quanto concerne poi gli effetti della sentenza, cioè «la conversione del rapporto di lavoro a tempo determinato», e «il comportamento del lavoratore che, secondo l'INPS, colpevolmente non avrebbe posto in esecuzione» il provvedimento giudiziario, i magistrati del ‘Palazzaccio', osservano che «l'impugnazione giudiziale della legittimità del recesso datoriale costituisce un diritto, ma non un obbligo del lavoratore, e che l'intervenuta disoccupazione involontaria deve valutarsi alla stregua e al momento dell'atto risolutivo. Diversamente opinando, non spetterebbe l'indennità di disoccupazione ogni qual volta il lavoratore omettesse di impugnare un licenziamento che pur si presentasse manifestamente illegittimo oppure ogni qual volta transigesse la lite prima ancora della (possibile) sentenza di reintegra, e neppure può ritenersi idonea ad escludere l'indennità di disoccupazione la mera ricostituzione de iure del rapporto, sia pure con sentenza esecutiva, essendo necessario per garantire l'effettività della tutela che a detta reintegra sia data effettiva attuazione, con la realizzazione di una situazione de facto tale da escludere la sussistenza della situazione di disoccupazione protetta ex lege». E peraltro «neppure rileva in senso ostativo alla percezione dell'indennità in discussione un'eventuale inerzia del lavoratore nel portare ad esecuzione una sentenza favorevole. Difetta allo scopo un'esplicita previsione di legge tale da escludere in tale ipotesi la ricorrenza dell'evento protetto» e «non vi è luogo, dunque, ad indagare circa le ragioni e l'imputabilità o meno di tale eventuale inerzia, collegate anche ad una sempre difficile prognosi circa l'esito positivo delle necessarie iniziative, giudiziali e stragiudiziali».

In conclusione, «anche qualora sia stata resa in sede di impugnativa del termine contrattuale una sentenza di conversione ex tunc del rapporto di lavoro, elemento ostativo alla percezione dell'indennità di disoccupazione sarebbe dunque l'effettiva ricostituzione del rapporto, nei suoi aspetti giuridici ed economici», che in questo caso non si è concretizzata, poiché si è accertato che «il lavoratore non è mai stato reintegrato e che per il periodo in contestazione non ha ricevuto le proprie spettanze retributive».

Ininfluente, infine, secondo i giudici, «il sopravvenire, nelle more della lite avente ad oggetto l'impugnativa del termine contrattuale, dell'articolo 32, comma 5, della l. n. 183/2010 (cosiddetto ‘Collegato Lavoro'), che può aver pesato sulla trattativa che ha preceduto la conciliazione in sede sindacale, ma che non ha inciso sulla (in)volontarietà dello stato di disoccupazione, né sulla materiale percezione di retribuzioni».

(Fonte: Diritto e Giustizia)

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