Il giudice della nomofilachia definisce l'oggetto dell'azione revocatoria
07 Settembre 2020
Massima
Oggetto della domanda revocatoria, sia essa ordinaria che fallimentare, non è il bene trasferito in sé, ma la reintegrazione della generica garanzia patrimoniale dei creditori, mediante il suo assoggettamento ad esecuzione forzata, sicché quando l'azione sia stata promossa dopo il fallimento dell'accipiens, non potendo essere esperita con la finalità di recuperare il bene ceduto – stante l'intangibilità dell'asse fallimentare – ai creditori dell'alienante deve essere riconosciuto il diritto nei confronti dell'acquirente all'esercizio dell'azione restitutoria per equivalente parametrata al valore del bene sottratto alla garanzia patrimoniale e, quindi, in caso di fallimento dell'acquirente, il diritto di insinuarsi al passivo per il controvalore del bene oggetto dell'atto di disposizione posto in essere a danno delle loro ragioni. Il caso
Una società di capitali aveva ceduto beni aziendali in favore di altra società. Successivamente entrambe le società erano dichiarate fallite e la curatela fallimentare della società alienante chiedeva, in sede di rivendica ai sensi dell'art. 103 l. fall., che fosse dichiarata l'inefficacia ex art. 66 l.fall. e art. 2901 c.c. di alcuni atti dispositivi posti in essere dalla società in bonis nei confronti della società acquirente. La domanda era rigettata sia dal Giudice Delegato, sia dal Tribunale in sede di opposizione allo stato passivo, sul rilievo della inammissibilità di un'azione revocatoria proposta nei confronti di una procedura fallimentare dopo l'apertura del concorso in virtù del principio di cristallizzazione sancito dall'art. 52 l. fall. La curatela soccombente ha proposto ricorso per cassazione, lamentando che dopo la dichiarazione di fallimento del terzo sarebbe possibile promuovere l'azione revocatoria nei confronti della curatela fallimentare di quest'ultimo. La prima sezione della Corte, con ordinanza interlocutoria n. 19881/19, ha rimesso gli atti al Primo Presidente per l'eventuale assegnazione del ricorso alle Sezioni unite in ordine alla questione dell'ammissibilità o meno dell'azione revocatoria (ordinaria e fallimentare) nei confronti di un fallimento. Le Sezioni Unite confermano la natura costitutiva dell'azione revocatoria, in quanto la sentenza di accoglimento modifica ex post una situazione preesistente. Per quanto riguarda la funzione dell'azione, si ribadisce che l'azione revocatoria ha la funzione di ricostruire la garanzia generica assicurata al creditore dal patrimonio del suo debitore, che si prospetti compromessa dall'atto di disposizione da questi posto in essere; sicché in caso di esito vittorioso, essa non travolge l'atto impugnato con conseguente effetto restitutorio del bene al patrimonio del debitore, ma comporta l'inefficacia dell'atto medesimo nei confronti del solo creditore vittorioso, al fine di consentirgli di aggredire il bene con l'azione esecutiva qualora il proprio credito rimanga insoddisfatto. Da questo punto di vista, prosegue la Corte, è senza dubbio rilevante la sopravvenienza del fallimento dell'acquirente, in particolare per la necessità di cristallizzare l'asse fallimentare (il patrimonio e, dunque, l'attivo) alla data del fallimento. La norma dell'art. 52 l. fall. secondo cui «il fallimento apre il concorso dei creditori sul patrimonio del fallito» deve essere letta nel senso che niente che sia insorto dopo (ovvero con titolo successivo al fallimento) può determinare un'ingerenza sull'asse patrimoniale assoggettato al concorso. Si conferma quindi la non esperibilità dell'azione revocatoria nei confronti di un fallimento: l'esercizio dell'azione revocatoria finirebbe con il sottrarre il bene che ne costituisce oggetto alla garanzia dei creditori del fallimento dell'acquirente sulla base di un atto (la sentenza) successivo a tale fallimento; atto-sentenza che, in nome del principio per cui la durata del processo non può pregiudicare chi ha ragione, retroagisce - quod effectum - alla data della domanda, essa pure successiva al fallimento; questo contrasta con il complesso di regole desumibili dagli artt. 42, 44, 45, 51 e 52 della l. fall. e spiega perché è inammissibile l'azione costitutiva in casi simili.
La questione
La questione in esame è la seguente: è possibile esperire l'azione revocatoria ordinaria o fallimentare nei confronti di una curatela? Le soluzioni giuridiche
Le Sezioni Unite, con il provvedimento in commento, sono ritornate ad affrontare la controversa questione dell'ammissibilità dell'azione revocatoria, ordinaria e fallimentare, nei confronti di un fallimento, dando continuità all'orientamento di cui alla precedente pronuncia sempre delle Sezioni Unite n. 30416/2018, puntualizzando le conclusioni raggiunte. Invero, già in passato, la Corte di cassazione aveva concluso per l'inammissibilità, alla luce del fatto che l'azione revocatoria ordinaria o fallimentare si concretizza in un'azione costitutiva che modifica ex post una situazione giuridica preesistente e che, alla data di apertura del concorso, il passivo si deve considerare cristallizzato al fine di tutelare la massa dei creditori (Cass. civ., Sez. Un., n. 30416/2018). In particolare, con l'odierna pronuncia, il giudice della nomofilachia conferma la natura costitutiva della sentenza che accoglie l'azione revocatoria, adeguandosi alle conclusioni raggiunte già in passato (Cass. civ., Sez. Un., n. 437/2000; Cass. civ., Sez. Un., n. 5443/1996). La sentenza che accoglie la domanda revocatoria fallimentare ha natura costitutiva, in quanto modifica ex post una situazione giuridica preesistente, sia privando di effetti, nei confronti della massa fallimentare, atti che avevano già conseguito piena efficacia, sia determinando, conseguentemente, la restituzione dei beni o delle somme oggetto di revoca alla funzione di generale garanzia patrimoniale (art. 2740 c.c.) ed alla soddisfazione dei creditori di una delle parti dell'atto; con la conseguenza che la situazione giuridica vantata dalla massa ed esercitata dal curatore non integra un diritto di credito (alla restituzione della somma o dei beni) esistente prima del fallimento (né nascente all'atto della dichiarazione dello stesso) e indipendentemente dall'esercizio dell'azione giudiziale rappresenta un vero e proprio diritto potestativo all'esercizio dell'azione revocatoria, rispetto al quale non è configurabile l'interruzione della prescrizione a mezzo di semplice atto di costituzione in mora (art. 2943, ultimo comma, c.c.). L'azione revocatoria ha “unicamente” la funzione di ricostituire la garanzia generica assicurata al creditore del patrimonio del suo debitore e da questi messa in pericolo per effetto di un atto dispositivo: se accolta, non comporta la restituzione del bene al patrimonio del debitore, quanto piuttosto l'inefficacia dell'atto dispositivo nei confronti del solo creditore che ha agito, consentendogli così di aggredire il bene attraverso l'azione esecutiva nel momento in cui il credito non sia stato soddisfatto. Al riguardo è affermato come «la situazione giuridica vantata dalla massa ed esercitata dal curatore non integra infatti un diritto di credito (alla restituzione della somma o dei beni) esistente prima e indipendentemente dall'esercizio dell'azione giudiziale, ma rappresenta un vero e proprio diritto potestativo all'esercizio dell'azione revocatoria, al punto che rispetto a esso non è configurabile l'interruzione della prescrizione a mezzo di semplice atto di costituzione in mora (art. 2493, ultimo comma, c.c.)». In effetti l'azione revocatoria ha natura costitutiva, dal momento che i suoi effetti sono collegati al passaggio in giudicato della sentenza; essa mira ad ottenere il mutamento della situazione giuridica del convenuto, prescindendo dalla sua collaborazione e tenendo conto che il credito nei confronti di quest'ultimo sorge a seguito della sentenza. La natura costitutiva della sentenza che accoglie la domanda di inefficacia e l'applicazione del principio di cristallizzazione del patrimonio del fallito alla data di apertura del concorso, portano alla conclusione che un'azione revocatoria nei confronti di un altro fallimento non è ammissibile. Tale interpretazione è conforme a quella assunta dalla giurisprudenza di legittimità, secondo la quale non è ammissibile un'azione revocatoria nei confronti di un fallimento, in quanto il patrimonio dell'imprenditore fallito è insensibile alle pretese di soggetti che sono divenuti creditori dopo la dichiarazione di fallimento (Cass. civ., Sez. Un., n. 30416/2018; Cass. civ. n. 3672/2012; Cass. civ. n. 10486/2011). Da ciò ne discende che non possono essere avviate azioni revocatorie nei confronti delle procedure fallimentari, ma possono essere solo proseguite ove intraprese prima della dichiarazione di fallimento del convenuto. Tale soluzione trova applicazione sia con riferimento alla revocatoria fallimentare di cui all'art. 67 l.fall., sia con riferimento a quella ordinaria di cui all'art. 66 l.fall.; ciò in quanto tali azioni, tendendo ad ottenere una pronuncia costitutiva del credito, condividono la medesima natura.
Osservazioni
L'azione revocatoria produce benefici esclusivamente a favore del creditore che l'abbia esercitata – nel caso del fallimento, evidentemente, per l'intera massa dei creditori –, ma l'atto dispositivo non è inefficace né per il debitore, né per la controparte. Il terzo acquirente del bene continua a mantenere inalterato il diritto di proprietà, ma diventa esposto alle ragioni esecutive del creditore, in una situazione che può essere assimilata a quella del terzo acquirente del bene ipotecato o dato in pegno. L'eventuale fallimento dell'acquirente rileva, da questo punto di vista, per la necessità di cristallizzare l'asse fallimentare, ossia il patrimonio e dunque l'attivo, alla data del fallimento: si apre di fatto il concorso dei creditori sul patrimonio del fallito per titolo anteriore alla sentenza, mentre accadimenti successivi non debbono incidere sull'asse patrimoniale assoggettato al concorso. L'accoglimento dell'azione revocatoria successiva al fallimento dell'acquirente determinerebbe come conseguenza il recupero del bene alla garanzia patrimoniale del solo creditore dell'alienante, sottraendolo invece alla garanzia collettiva dei creditori dell'acquirente: si violerebbero così i principi della disciplina fallimentare. L'azione deve essere, perciò, considerata inammissibile, poiché non è possibile sottrarre il bene oggetto dell'azione all'asse fallimentare cristallizzato al momento della dichiarazione di fallimento.
Da ciò ne discende che non possono essere avviate azioni revocatorie nei confronti delle procedure fallimentari, ma possono essere solo proseguite ove intraprese prima della dichiarazione di fallimento del convenuto. Tale soluzione trova applicazione sia con riferimento alla revocatoria fallimentare di cui all'art. 67 l.fall., sia con riferimento a quella ordinaria di cui all'art. 66 l.fall.; ciò in quanto tali azioni, tendendo ad ottenere una pronuncia costitutiva del credito, condividono la medesima natura. È necessario osservare che tale divieto dovrebbe trovare applicazione anche quando l'azione revocatoria non sia promossa da una curatela fallimentare, ma da un creditore del debitore che ha compiuto gli atti di disposizione patrimoniale. Dunque, qualora il beneficiario dell'atto sia dichiarato fallito prima che i creditori del disponente abbiano avviato l'azione revocatoria, tale azione non può essere esercitata da questi ultimi; allo stesso modo, l'esercizio dell'azione revocatoria è precluso anche al curatore fallimentare del disponente, laddove questo sia stato dichiarato fallito. Tuttavia, l'impossibilità di avviare l'azione revocatoria, ordinaria o fallimentare, non esime dal tentativo di trovare una soluzione al problema della tutela dei creditori del disponente. Nel caso in esame, la Suprema Corte, osserva che il divieto di avviare l'azione revocatoria trova la propria giustificazione nella dichiarazione di fallimento del beneficiario dell'atto. In questo modo, la tutela dei creditori del disponente dipenderebbe dal momento in cui quest'ultimo è stato dichiarato fallito. A tal proposito, giova rammentare l'orientamento espresso già in passato dalla Corte di cassazione e richiamato in sentenza, secondo il quale oggetto dell'azione revocatoria è la reintegrazione della garanzia patrimoniale dei creditori mediante l'assoggettabilità del bene a esecuzione. Tale bene viene in considerazione solo per il suo valore; di conseguenza, qualora la restituzione non sia possibile, il giudice può condannare il convenuto al pagamento dell'equivalente monetario (Cass. civ. n. 6262/2018; Cass. civ. n. 26425/2017; Cass. civ. n. 14098/2009). L'applicazione di tali principi porta alla conclusione per cui al curatore fallimentare di chi ha compiuto l'atto di disposizione patrimoniale (o ai suoi creditori ove questi non sia stato dichiarato fallito) cui è precluso l'esercizio dell'azione revocatoria nei confronti della curatela fallimentare del beneficiario dell'atto, è tuttavia consentito di presentare istanza di insinuazione al passivo per il valore del bene oggetto dell'atto di disposizione. In altri termini, il fallimento del terzo acquirente, prevenuto all'azione costitutiva, rende l'azione suddetta inammissibile perché non è consentito incidere sul patrimonio del menzionato fallimento recuperando il bene alla sola garanzia patrimoniale del creditore dell'alienante, non essendo possibile sottrarre quel bene all'asse fallimentare cristallizzato al momento della dichiarazione di fallimento; ma, così come accade quando il bene oggetto dell'atto di cui si chiede la revoca non sia più nella disponibilità dell'acquirente (per essere stato da questi alienato a terzi con atto trascritto anteriormente alla trascrizione dell'atto di citazione in revocatoria), ai creditori dell'alienante deve essere riconosciuto il diritto nei confronti dell'acquirente all'esercizio dell'azione restitutoria per equivalente parametrata al valore del bene sottratto alla garanzia patrimoniale e, quindi, in caso di fallimento dell'acquirente, il diritto di insinuarsi al passivo per il controvalore del bene oggetto dell'atto di disposizione posto in essere a danno delle loro ragioni. Tale soluzione comporta quale corollario che il credito fatto valere, ove ammesso al passivo, avrà verosimilmente natura chirografaria e sarà pagato secondo i tempi e le modalità stabilite dalla legge fallimentare.
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