Covid-19, sopravvenienze e locazioni commerciali

15 Settembre 2020

L'emergenza Covid-19 e il conseguente lockdown (factum principis) che hanno interessato i rapporti di conduzione della maggior parte degli esercizi commerciali, sono accadimenti che ricadono (non nell'area dell'impossibilità sopravvenuta ma) sotto la disciplina dell'eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione (artt. 1467 ss. c.c.), come anche confermato, nella specifica sedes materiae, dall'1584, comma 1, c.c. Appare comunque consigliabile, nella denegata previsione di futuri ed eventuali provvedimenti restrittivi imposti dalla pubblica autorità, inserire nei contratti, sia nuovi che già in essere, un apposito regolamento pattizio della sopravvenienza in esame.
Il quadro normativo

Il presente contributo è circoscritto al tema delle sopravvenienze (eventi oggettivi, come la forza maggiore - concetto in cui rientra il factum principis -) ai soli rapporti patrimoniali pendenti tra consociati.

Il problema, che si innesta nel più ampio quadro delle possibili vicende del rapporto giuridico, involge, in particolare, i rapporti economici in essere dall'11 marzo 2020 (D.P.C.M. 11 marzo 2020) sino al 18 maggio scorso (D.C.P.M. 26 aprile 2020), coincidenti con i 2 mesi e mezzo di lockdown.

Tuttavia, in prevenzione, vengono in considerazione anche i rapporti di prossima instaurazione, dato il non remoto rischio di seconde ondate di contagio (cluster, focolai, zone rosse, ecc.), la cui considerazione dovrebbe consigliare le parti di precostituirsi specifici rimedi in modo da evitare, per quanto possibile, che la pandemia riversi le proprie conseguenze negative sul costituendo rapporto negoziale.

Le sopravvenienze (che operano non solo in ambito contrattuale ma anche nei rapporti di diritto reale: art. 1068, comma 2, c.c.) non rilevano (fatta eccezione per l'art. 1897 c.c.) per i contratti aleatori (che si caratterizzano per lo schema di scambio: prestazione certa verso controprestazione incerta) e rilevano, invece, per i contratti di durata (a esecuzione continuata o periodica) o anche solo ad esecuzione differita (per esempio, vendita obbligatoria).

A livello normativo, presuppongono una sopravvenienza gli istituti dell'eccessiva onerosità (che sottende l'idea di equità - restando la prestazione possibile -) e dell'impossibilità sopravvenuta (che evoca il concetto di rischio - ossia della sua sopportazione in conseguenza all'estinzione dell'obbligazione -).

Sopravvenienze

In tema di sopravvenienze, la dottrina civilistica ha più volte messo in evidenza che, a fronte delle insoddisfacenti previsioni codicistiche (scarsamente flessibili perché poco sensibili al fenomeno, propendendo per lo scioglimento del contratto tutte le volte in cui la conservazione del rapporto urti contro un “apprezzabile” interesse di una delle parti), è più che mai opportuno rintracciare un rimedio (legale, convenzionale o giudiziale) che, invece di estinguere il rapporto, lo mantenga in vita adeguandolo alle mutate circostanze di fatto (è opportuno ricordare che, di regola, i meccanismi legislativi predisposti ad hoc perseguono la ratio della conservazione del rapporto, a tutela dell'interesse generale: v. d.l. n. 18 del 17 marzo 2020 e d.l. n. 34 del 19 maggio 2020).

Ebbene, cosa fare?

Nel trattare un rapporto in sofferenza a causa del virus corona, affidato alla gestione dell'avvocato, è innanzitutto indispensabile guardare, per avere ogni più ampia chiarezza del quadro di riferimento in cui si è chiamati ad operare, alla disciplina tipica prevista dal legislatore per il contratto speciale di riferimento, al fine di verificare innanzitutto una possibile applicazione estensiva o analogica del rimedio eventualmente previsto dalla specifica fattispecie.

Sotto questo profilo, è d'uopo precisare che i rimedi per le sopravvenienze sono distribuiti nel codice civile in modo disordinato e disomogeneo (per diversità di presupposti e di modalità attuative), e comunque sono fortemente caratterizzati dalla singola fattispecie che li prevede: per questa loro eterogeneità, i rimedi alle sopravvenienze non appaiono agevolmente esportabili altrove (per evitare un intervento opinabile, si deve quindi applicare il criterio dell'ordinamento tipologico di settore).

Si deve, poi, verificare l'atto di autonomia, ossia se il contratto non contempli una clausola di revisione con cui si è regolata pattiziamente la sopravvenienza (in ipotesi, ripartendone il rischio tra contraenti con l'attribuire la situazione soggettiva attiva in favore della parte, come appare logico, che subisce le conseguenze della sopravvenienza): i) prevedendo il diritto potestativo di riduzione ad equità secondo criteri predeterminati (demandando ad una parte la determinazione della revisione entro predeterminati limiti, minimi e massimi, o secondo il suo equo apprezzamento) ovvero, in mancanza di questi, ii) mediante l'intervento equitativo del giudice (art. 114 c.p.c.), non essendo sufficiente la previsione di un mero obbligo di rinegoziazione (nullo per indeterminabilità dell'oggetto e non integrabile dalla buona fede oggettiva di cui agli artt. 1375 e 1374, c.c. in quanto clausola generale che disciplina i soli profili esecutivi dell'adempimento senza poter incidere sul contenuto del programma negoziale). Tutte ipotesi che valgono anche ad escludere pattiziamente il diritto alla risoluzione del contratto.

Ma il rimedio convenzionale può essere anche esterno al rapporto in crisi: per esempio, poco prima dell'epidemia, il 6 febbraio scorso, in occasione di una locazione ho fatto sottoscrivere ad un terzo, nell'interesse del locatore (mio assistito), una garanzia autonoma (garantievertrag). In tal caso, tuttavia, lo squilibrio, invece che rimediato, è stato consolidato.

Dopo di che, una riflessione si impone. L'interprete, operando come giurista, deve ritenere che l'ordinamento non abbia lacune: l'ordinamento si completa (art. 12, comma 2, preleggi: analogia e principi generali).

Quindi la soluzione che ritengo oggi da perseguire in via principale è aderire a quella dottrina civilistica che ha affermato l'applicabilità diretta ai rapporti patrimoniali tra privati delle norme costituzionali (in ossequio al principio di unitarietà dell'ordinamento giuridico): il principio di solidarietà (art. 2 Cost.), oggi più che mai è lo strumento di sistema che, usato come fonte di integrazione del rapporto (art. 1374 c.c.), può essere impiegato per un riequilibrio degli sbilanciamenti economici verificatisi nei rapporti attualmente pendenti.

Si tratta di una soluzione modificativa, e non estintiva: la linea adottata è solo di natura conservativa, senza far correre ai contraenti alcun “rischio” di risoluzione.

Perché allora non usare questa linea argomentativa, proprio ora che di solidarietà tanto si parla e tanto se ne ha bisogno?

Essendo una linea processualmente d'avanguardia, ritengo in ogni caso preferibile impegnarsi nel tentativo di condurre realmente a buon fine una mediazione.

Infatti, la difesa ultima citata incontrerebbe senz'altro lo scoglio dei giudici, che devono prima capire e poi aderire alla linea, anche se ritengo che, producendo in giudizio gli opportuni passi a sostegno (fonti), si potrebbe arrivare ad un leading case capace di creare un precedente formidabile.

Le locazioni commerciali

Il decreto attuativo dell'art. 1, comma 2, lett. j), del d.l. 23 febbraio 2020, n. 6, convertito in l. 5 marzo 2020, n. 13, ha previsto la “chiusura di tutte le attività commerciali, esclusi gli esercizi commerciali per l'acquisto dei beni di prima necessità”.

Sulla base di tale statuizione legislativa, si è letto un po' dovunque che il rimedio dei conduttori per contrastare la pretesa da canone pieno del locatore, in periodo di pandemia, debba essere individuato nell'istituto dell'impossibilità sopravvenuta della prestazione (artt. 1256 ss. e 1463 ss. c.c.).

Ma non si è in un caso di impossibilità della prestazione: il locatore, con la consegna delle chiavi, ha esaurito con esattezza il proprio adempimento, continuando ad assicurare la disponibilità della res (art. 1575 c.c.), e l'immobile in sé considerato resta oggettivamente idoneo all'uso che era stato convenuto in origine (risulta solo proibito l'esercizio dell'attività commerciale). Al limite, si ha un problema di impossibilità di utilizzazione della res da parte del conduttore (evenienza che, per talune sentenze di legittimità, è ritenuta equivalente all'impossibilità di prestare del debitore: Cass. civ.,sez. I, 2 ottobre 2014, n. 20811; Cass. civ.,sez. III, 20 dicembre 2007, n. 26958; Cass. civ.,sez. III, 24 luglio 2007, n. 16315).

Né, di conseguenza, risolverebbe un richiamo all'impossibilità temporanea, che tutt'al più rileverebbe solo ai fini di escludere la mora del (debitore) locatore (exart. 1256, comma 2, c.c.: disposizione che non disciplina alcun eventuale effetto riflesso sul rapporto contrattuale). La temporaneità, del resto, è una semplice caratteristica del fenomeno (è un suo semplice attributo, un mero predicato) e non ne indica la natura, non lo identifica.

Del resto, il locatore un qualche godimento e un profilo utilità li conserva pure: l'uso dei locali locati come spazi a deposito dei beni (destinati alla vendita al pubblico).

Questo impedisce anche di ravvisare una impossibilità parziale, che si ha nelle ipotesi di un godimento diverso (e inferiore) quantitativamente … e non differente per qualità, come nel caso di specie (immobile utilizzabile come deposito interno invece che aperto al pubblico).

Più corretto è quindi affermare l'applicabilità dell'istituto della eccessiva onerosità sopravvenuta, operante proprio per i rapporti di durata (art. 1467 c.c.): si è in presenza di eventi straordinari e imprevedibili (al tempo della costituzione del vincolo) e si fuoriesce dall'alea normale del contratto.

Nel caso di specie, si ha una onerosità “rovesciata” (o indiretta): diminuisce in modo sensibile l'utilità della controprestazione (godimento della res). L'art. 1467 c.c., infatti, è interpretato in modo ampio: l'alterazione del rapporto sinallagmatico tra prestazioni che determina una “eccessiva onerosità” può determinarsi in due modi: o la prestazione di un contraente diventa più onerosa (dal lato del debitore) o si svuota di valore la controprestazione (dal lato del creditore: in ispecie, il conduttore - ma si pensi anche alle ipotesi di svalutazione monetaria intervenuta tra il momento in cui è sorta l'obbligazione pecuniaria e quello in cui essa scade -). Invertendo l'ordine dei fattori, il prodotto non cambia: si è sempre in presenza di uno squilibrio tra prestazioni sinallagmatiche.

D'altronde, il conduttore continua a godere del bene come deposito pagando però un canone per l'apertura al pubblico: si determina uno squilibrio patrimoniale del sinallagma, non giustificato né giustificabile, che dev'essere quindi rimediato (come anche confermerebbe, per il tipo di riferimento, l'art. 1584, comma 1, c.c. che disciplina la privazione temporanea parziale del godimento della res per il conduttore, in caso di riparazioni necessarie e indifferibili, attuando il principio di conservazione della locazione a tutela del diritto del locatore - meno pertinente appare invece un eventuale riferimento all'art. 1623, c.c. previsto per un differente tipo negoziale -).

Tra l'altro, a differenza dell'impossibilità (che determina l'automatica estinzione dell'obbligazione e la risoluzione del contratto sinallagmatico che ne costituisce la fonte), l'eccessiva onerosità contempla la possibilità per il conduttore di modificare secondo equità il contratto, manutenendolo (con ciò non ripristinandosi l'originario equilibrio ma riconducendosi l'economia del contratto nei limiti di tolleranza segnati dall'alea normale del contratto, per es. mediante il richiamo alla vigente raccolta degli usi e delle consuetudini conservata presso la competente C.C.I.A.A. del luogo al fine di individuare il costo, diverso e inferiore, di un corrispondente deposito commerciale).

E sul piano del fatto, il conduttore difficilmente correrà il rischio di dover cambiare location in quanto appare ragionevolmente prevedibile che il locatore, pur di non perdere un debitore certo, preferirà conservare il rapporto contrattuale in vista della ripresa dalla crisi. Del resto, sarebbe difficile trovare un nuovo debitore, per quei medesimi importi pieni, in un periodo di aperta recessione. Fatto salvo il caso in cui il locatore preferisca in assoluto togliersi di mezzo il conduttore, magari perché, storicamente, cattivo pagatore (ma anche questa è una valutazione in fatto che dev'essere compiuta di caso in caso).

Invece, lo strumento del recesso del conduttore per gravi motivi, ai sensi dell'art. 27 ultimo comma, della l. n. 392/78, probabilmente si adatta al caso in cui questi, in conseguenza del covid-19, non riesca più a riaprire l'esercizio commerciale.

Nelle conclusioni di un ipotetico atto introduttivo chiederei al giudice di indicare un termine finale della riduzione del canone, che potrebbe essere fatto coincidere (determinabilità del dies ad quem) con la riapertura dei locali destinati alla vendita al pubblico.

Non aiuterebbe il ricorso al concetto di inesigibilità della prestazione secondo buona fede oggettiva in executivis (art. 1375 c.c.) poiché l'istituto opera (limitando le possibili modalità di adempimento) quando la prestazione potrebbe essere adempiuta solo con mezzi anomali, consentendo di ritenerli non ricompresi nel contenuto dell'obbligazione (del resto, l'inesigibilità è rimedio che non estingue l'obbligazione ma si limita a sospenderla e ad esonerare il debitore dal risarcimento, anche a titolo di mora).

La buona fede, nella fase dinamica del rapporto (artt. 1175 e 1375, c.c.), non svolge una funzione integrativa del regolamento ma solo correttiva, in vista della regolare attuazione del rapporto obbligatorio, consentendo di valutare l'esigibilità della prestazione e la correttezza dell'adempimento.

Né aiuterebbe il richiamo al fenomeno, di fonte giurisprudenziale, della presupposizione (la c.d. base negoziale oggettiva del contratto): considerato che essa condurrebbe tout court alla risoluzione del rapporto, tale figura non soddisferebbe il differente interesse del conduttore a rimanere nell'immobile ad un costo ridotto (finalità potenzialmente realizzabile con lo strumento dell'eccessiva onerosità sopravvenuta: art. 1467, co. 3, c.c.) e offrirebbe una tutela identica a quella già assicurata dal rimedio dell'impossibilità sopravvenuta.

Piuttosto, si potrebbe meglio prospettare il richiamo integrativo al criterio d'equità (art. 1374 c.c.), in funzione di riequilibrare lo squilibrio economico sul piano quantitativo.

Altro è poi valutare se al termine della crisi e alla ripresa delle attività si possa sostenere che il canone non è temporaneamente esigibile, secondo buona fede, sinché la clientela non si è ristabilizzata: l'assunto non pare sostenibile in quanto non si può traslare sul locatore un rischio d'impresa che è collegato esclusivamente a logiche di mercato.

In conclusione

Nel corpo di una difesa, in linea teorica, le domande le disporrei così:

a) in via principale:

ristabilire l'equilibrio funzionale del sinallagma, riducendo il canone nella misura ritenuta equivalente al concreto godimento della res, in forza dell'obbligo di solidarietà o di equità integrativa (ex artt. 2 Cost. e/o 1374 c.c.), fino alla legittima riapertura dell'attività commerciale inibita per sopravvenuto provvedimento dell'autorità

b) in subordine:

risoluzione del contratto per eccessiva onerosità sopravvenuta;

c) in ulteriore subordine (d'altronde un giudice, in sede cautelare, ha già così qualificato la ragione della tutela: Trib. Venezia 14 aprile 2020):

risoluzione del contratto per impossibilità sopravvenuta (di sfruttamento della prestazione da parte del creditore: ipotesi normativamente non prevista).

Guida all'approfondimento

Coviello, Del caso fortuito in rapporto alla estinzione delle obbligazioni, Lanciano, 1895, passim;

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