Danno differenziale e azione di regresso: accertamento in sede civile del fatto costituente reato e affermazione della responsabilità del datore di lavoro
Il risarcimento del danno del lavoratore costituisce un sottosistema, speciale ma non autonomo, nel variegato panorama delle modalità risarcitorie dei danni patrimoniali e non patrimoniali alla persona; ogni qual volta il danno derivi da un infortunio sul lavoro o da una malattia professionale oggetto di copertura assicurativa tale risarcimento deve, infatti, coordinarsi con la tutela indennitaria garantita dall'INAIL...
Abstract
Il risarcimento del danno del lavoratore costituisce un sottosistema, speciale ma non autonomo, nel variegato panorama delle modalità risarcitorie dei danni patrimoniali e non patrimoniali alla persona; ogni qual volta il danno derivi da un infortunio sul lavoro o da una malattia professionale oggetto di copertura assicurativa tale risarcimento deve, infatti, coordinarsi con la tutela indennitaria garantita dall'INAIL.
I rapporti tra la tutela indennitaria riconosciuta ai lavoratori e la tutela risarcitoria del danno alla salute spettante a qualsiasi cittadino sono complessi e condizionati dall'ambito di estensione della prima: in presenza di voci di danno non indennizzate, i cd. danni complementari, il datore di lavoro è chiamato a risponderne integralmente, secondo le regole generali della responsabilità civile; ove opera l'assicurazione sociale trova, invece, applicazione la regola dell'esonero e quindi, nell'ipotesi in cui venga accertata una responsabilità datoriale per un fatto che costituisce reato perseguibile d'ufficio, vedremo poi con quali criteri, trova ingresso un articolato meccanismo che porta alla liquidazione del danno cd. differenziale ed all'ammissibilità dell'azione di regresso da parte dell'Istituto previdenziale.
La tutela dei danni subiti dal lavoratore è garantita da una normazione non organica, stratificata nel tempo, che è stata oggetto di significativi adeguamenti manipolativi della Corte costituzionale per i valori fondamentali di cui costituisce espressione e di una elaborazione giurisprudenziale settoriale, cospicua ma spesso non coordinata, in bilico tra l'esigenza di adeguarsi alle spinte innovative provenienti dall'evoluzione della tematica generale del risarcimento del danno alla persona, a partire dalle aperture al danno non patrimoniale, e quella di restare ancorata alle specificità del microcosmo lavoristico, al fine di evitare ora duplicazioni risarcitorie indebite ora depauperamenti ingiustificati.
La materia si è sempre rivelata ostica in quanto richiede agli interpreti di coordinare il diritto del lavoratore ad una tutela piena ed effettiva, in presenza di una lesione all'integrità fisica e alla dignità morale, l'interesse del datore di lavoro a contenere i suoi obblighi risarcitori, avvantaggiandosi del meccanismo dell'esonero dalla responsabilità civile di cui all'art. 10 del d.P.R. 30 giugno 1965 n. 1124 ( di seguito T.U.), quale contropartita al pagamento dei premi assicurativi, ed ancora quello dell'Istituto assicuratore a recuperare, nella misura più ampia possibile, quanto erogato all'avverarsi dell'evento assicurato, ai fini di una più efficiente gestione delle sue finalità istituzionali; il tutto in un contesto normativo che coinvolge, oltre al diritto del lavoro e della previdenza, settori giuridici differenti, quali il diritto penale, il diritto civile, il diritto processuale civile e penale.
La Corte di cassazione negli ultimi anni si è distinta per uno sforzo sistematico di ampio respiro che ha portato alla enunciazione nomofilattica di importanti principi di diritto in alcune delle più controverse tematiche in tema di danno “differenziale” ed azione di regresso.
Ultimo approdo di tale percorso ricostruttivo la recente sentenza Cass. 19 giugno 2020 n. 12041, che ha esaminato e risolto la questione molto dibattuta in dottrina, e sino ad oggi mai direttamente affrontata dalla giurisprudenza, dei criteri di accertamento della responsabilità del datore di lavoro per un fatto costituente reato, in caso di azione del lavoratore proposta per il risarcimento del danno cd. "differenziale" derivante da infortunio o malattia professionale e nell'ipotesi di azione di regresso esercitata dall'INAIL.
L'accertamento in sede civile della rilevanza penale del fatto generatore di un danno al lavoratore: l'ambito di rilevanza della questione
Nell'ambito del rapporto lavorativo opera il sistema dell'assicurazione obbligatoria, che trova il suo fondamento nell'art. 38 Cost. ed ha la finalità di garantire al lavoratore infortunato sul lavoro, o che abbia contratto una malattia professionale, un sostegno adeguato di tipo economico e sanitario per liberarlo dal bisogno in un momento in cui è impossibilitato a rendere la prestazione lavorativa; il “rischio professionale” che viene assicurato ha una configurazione ambivalente: copre il lavoratore dai pericoli cui è soggetto nello svolgimento dell'attività lavorativa, ma nello stesso tempo il datore di lavoro rispetto ai danni subiti dai suoi dipendenti addetti a prestazioni lavorative potenzialmente pericolose.
La tutela del lavoratore infortunato o tecnopatico, ed eventualmente dei suoi prossimi congiunti, viene garantita dalla sinergia di una pluralità di azioni, ciascuna caratterizzata da autonomi presupposti e regole sostanziali e processuali: quella esperibile nei confronti dell'Istituto assicuratore per far valere il diritto alle prestazioni indennitarie e quella di cd. danno differenziale esercitabile nei confronti del datore di lavoro, per ottenere l'integralità del risarcimento del danno, nelle due diverse accezioni del danno differenziale quantitativo e qualitativo, definito anche danno complementare.
Diverse anche le azioni spettanti all'INAIL per il recupero delle prestazioni erogate in dipendenza dell'evento lesivo, potendo l'istituto assicuratore agire con l'azione di regresso nei confronti del datore di lavoro e con quella di surroga nei confronti del terzo-responsabile estraneo al rapporto di lavoro; l'azione di regresso, poi, può essere esercitata contro l'infortunato stesso, quando l'infortunio sia avvenuto per dolo del medesimo accertato con sentenza penale.
Ove sussiste la copertura assicurativa, e quindi solo per i danni indennizzabili, opera l'istituto dell'esonero, per questo motivo definito parziale, al di fuori di tale ambito il lavoratore può invece agire secondo le regole generali della responsabilità civile; come affermato dalla Corte cost. nelle note sentenze 18 luglio 1991 n. 356 e 27 dicembre 1991n. 485 “se non si fa luogo a prestazione previdenziale non c'è assicurazione; mancando l'assicurazione cade l'esonero”.
L'esonero è un meccanismo complesso il cui raggio di azione risulta delimitato da confini esterni, dettati dall'estensione della copertura assicurativa, e condizionato all'interno dalla possibilità di un suo superamento nel caso in cui l'evento assicurato consegua ad una condotta del datore di lavoro che costituisce reato perseguibile d'ufficio.
Nell'ipotesi in cui gli eventi siano riconducibili a siffatta responsabilità del datore di lavoro, o di soggetti a lui riconducibili, in quanto preposti alla direzione o sorveglianza dell'attività lavorativa, l'istituto assicuratore può esperire nei suoi confronti l'azione di regresso; inoltre il datore di lavoro è chiamato a rispondere dell'eventuale differenza, tra il danno civilistico e quello coperto da assicurazione, nei confronti del lavoratore, con l'effetto di poter essere tenuto a rispondere per l'intero, pur avendo pagato i contributi assicurativi.
Il sistema pubblico dell'assicurazione INAIL si caratterizza per una marcata selettività, nel senso che non garantisce una protezione globale e capillare a tutti i lavoratori, per tutti gli eventi dannosi, per tutti i danni, e tuttora, nonostante gli ampliamenti dell'ambito applicativo iniziale determinati da interventi legislativi e giurisprudenziali, sia costituzionali che di legittimità, la tutela offerta resta tristemente parcellizzata.
La selezione opera sul piano soggettivo, in quanto l'assicurazione sociale è riconosciuta solo a determinate categorie di lavoratori, e sul piano oggettivo, sia perché è limitata a determinate attività ritenute protette o pericolose, sia perché garantisce la copertura di limitate voci di danno rispetto a quelle potenzialmente risarcibili in ambito civilistico.
Il problema dell'accertamento in sede civile della rilevanza penale del fatto generatore della responsabilità datoriale si pone solo laddove trova applicazione la tutela indennitaria.
A seguito dell'entrata in vigore del d.lgs. 23 febbraio 2000 n. 38, rientrano nella tutela indennitaria il danno patrimoniale per invalidità temporanea, il danno biologico dal 6%, il danno patrimoniale dal 16%, la rendita ai superstiti, le spese mediche pagate dall'INAIL; per le voci di danno ulteriori subite dal lavoratore o dai suoi eredi, da considerarsi danni complementari, non oggetto di assicurazione e non rientranti nel raggio di operatività degli art. 10 e 11 del T.U., seppure fatte valere dal lavoratore-danneggiato nello stesso giudizio, al contrario non assume alcuna rilevanza la riconducibilità a reato perseguibile d'ufficio della condotta datoriale illecita.
Per gli eventi ed i danni riconducibili all'assicurazione obbligatoria l'art. 10 del T.U. pone al comma 1 la regola dell'esonero del datore di lavoro dalla responsabilità civile ed ai commi successivi prevede, quale eccezione, un meccanismo in relazione al quale permane la responsabilità del datore di lavoro.
Quando è accertata una responsabilità riconducibile ad un fatto che costituisce reato perseguibile d'ufficio, la regola speciale di cui all'art.10, commi 6 e 7, del T.U. consente al lavoratore di ricevere dal datore di lavoro, seppure esonerato, il danno “differenziale”, che viene individuato per differenza, nell'ambito di quei danni qualitativamente coperti dall'assicurazione e quindi soggetti al regime dell'esonero, in quanto danno quantitativamente superiore a quello oggetto dell'assicurazione INAIL.
In presenza delle stesse condizioni l'art. 11 riconosce all'Istituto assicuratore il diritto di rivalersi in regresso, nei confronti del datore di lavoro e di altri responsabili, di quanto erogato a favore del lavoratore assicurato; il regresso è una speciale azione, di natura contrattuale, che compete all'INAIL iure proprio, nei confronti del datore di lavoro e delle persone civilmente responsabili, anche se soggetti terzi rispetto all'obbligo assicurativo, quali i soci e gli amministratori, l'appaltante o il subappaltante.
Dal carattere originario dell'azione, dalla sua appartenenza al rapporto di assicurazione sociale e non al sistema del risarcimento del danno, e dal tenore testuale dell'art. 11, che riconosce il diritto di regresso per le somme pagate nei casi previsti dall'art. 10, e quindi laddove, venendo meno la regola dell'esonero rivive la responsabilità civile del datore di lavoro, se ne deduce la specularità delle due azioni.
L'esonero: le ragioni storiche di una crisi
La regola dell'esonero parziale, destinata ad operare nei limiti innanzi delineati, seppure mai modificata nella sua formulazione originaria, né investita direttamente da dichiarazioni di illegittimità costituzionale, ha subito negli anni un lento processo di svuotamento che ha inciso su due distinti fronti, quello procedurale, in seguito al superamento del vincolo di pregiudizialità del processo penale, e quello sostanziale, conseguente sia all'ampliamento della deroga prevista in presenza di un reato perseguibile d'ufficio, dovuta all'utilizzo ad opera della giurisprudenza penale dell'art. 2087 c.c. quale criterio di imputazione soggettiva della colpa penale, sia alla storica evoluzione della giurisprudenza civilistica in tema di risarcimento del danno non patrimoniale.
I due profili, pur incidendo su piani diversi, hanno avuto un effetto comune potenziato, in quanto la possibilità riconosciuta al giudice civile di procedere autonomamente all'accertamento del reato si è evoluta nell'ammettere l'applicazione delle regole probatorie civilistiche anche in sede di verifica dell'illiceità penale, questione controversa qui in esame.
L'effetto finale è stato quello di una progressiva restrizione del raggio di azione dell'esonero e la sua trasfigurazione da regola ad eccezione, idonea ad inibire solo in ipotesi residuali l'ingresso dei principi generali in tema di responsabilità civile nel sottosistema dell'assicurazione contro gli infortuni.
Sul piano processuale rileva che, all'esito dei ripetuti interventi della Corte cost. e delle modifiche normative, risultano ormai dati acquisiti: la totale autonomia del giudizio penale da quello civile; che non sia più necessario attendere l'esito del processo penale; che l'accertamento della responsabilità del datore di lavoro, ai fini della non operatività dell'esonero, possa essere effettuata direttamente in sede civile.
Espunto dal nostro ordinamento il principio dell'unità della giurisdizione e della prevalenza del giudizio penale su quello civile, l'attuale sistema è caratterizzato da una quasi completa autonomia e separazione fra i due giudizi, nel senso che, tranne alcune particolari e limitate ipotesi di sospensione del processo civile previste dall'art. 75, comma 3, c.p.p., il processo civile prosegue senza essere influenzato dal processo penale nell'autonomo accertamento dei fatti e della responsabilità civile.
La sentenza penale di condanna, che nella formulazione originaria della norma costituiva un presupposto o condizione sia del diritto sostanziale che dell'azione, tanto che l'azione promossa prima della definizione del procedimento penale sarebbe risultata improponibile o improcedibile, prima ancora che infondata, ha ceduto il passo alla responsabilità penale del datore di lavoro, o di un suo incaricato, per l'infortunio sul lavoro sofferto dall'assicurato, da accertarsi direttamente nel giudizio civile, indipendentemente dal processo penale.
Sul piano sostanziale ha inciso, oltre all'acquisizione di un concetto unitario di colpa penale e colpa civile, quanto meno sul piano definitorio, il consolidarsi dell'orientamento secondo cui la violazione dell'art. 2087 c.c., norma di cautela in bianco avente carattere generale e sussidiario, è ormai ritenuta idonea a fondare l'addebito di colpa a carico del datore di lavoro anche in sede penalistica, ai sensi dell'articolo 43 c.p. (cfr. Cass. Pen. 10 novembre 2015 n. 46979; Cass. Pen. 21 ottobre 2014 n. 4361; Cass. Pen. 28 febbraio 2013 n. 43987; Cass. Pen.04 luglio 2006 n. 32286; Cass. Pen.26 aprile 2000 n. 7402)
Per configurare la responsabilità penale del datore di lavoro, dunque, non occorre la violazione di specifiche norme dettate per la prevenzione degli infortuni stessi, essendo sufficiente che l'evento dannoso si sia verificato a causa dell'omessa adozione di quelle misure ed accorgimenti imposti all'imprenditore dall'art. 2087 c.c. ai fini della più efficace tutela dell'integrità fisica del lavoratore negli ambienti di lavoro, giacché il datore di lavoro ha il dovere di garantire l'incolumità dei propri dipendenti mediante l'adozione di misure tecniche e organizzative idonee a ridurre al minimo i rischi connessi ad attività lavorative.
Inevitabili le ricadute sulla perseguibilità d'ufficio: si è così ritenuto che in tema di delitti colposi derivanti da infortunio sul lavoro, per la configurabilità della circostanza aggravante speciale della violazione delle norme antinfortunistiche di cui agli art. 589 e 590 c.p., non occorra che siano violate norme specifiche dettate per prevenire infortuni sul lavoro, essendo sufficiente che l'evento dannoso si sia verificato a causa della violazione dell'art. 2087 c.c. (Vedi Cass. Pen. 19 maggio 2011 n. 28780)
Se si accerta una violazione dell'art. 2087 c.c., ciò è sufficiente a rendere perseguibili d'ufficio i reati di lesioni colposi gravi e gravissime; se la norma civilistica impone al datore di lavoro di adottare tutte le misure di sicurezza richieste dall'esperienza e dalla tecnica per tutelare l'integrità fisica e la personalità morale del lavoratore, sarà certamente negligente quel datore di lavoro che non rispetta quegli standard di diligenza, con certa configurabilità anche della colpa generica richiesta dalla fattispecie penale.
Per la determinazione degli standard di diligenza, la cui inosservanza determina la colpa del datore di lavoro rilevante ai fini degli artt. 589 e 590 c.p. e, quindi anche quella che consente il superamento dell'esonero ex art. 10, comma 2, del T.U., rilevano non solo gli obblighi di prevenzione e protezione espressamente stabiliti dalla legge (oggi, principalmente, il d.lgs. 9 aprile 2008 n. 81), ma anche quelli più in generale riferibili alle misure che, secondo l'esperienza e la tecnica, l'art. 2087 c.c. impone al datore di lavoro; questa appropriazione penalistica dell'art. 2087 c.c. ha inevitabilmente avuto un effetto di contrazione dell'ambito di efficacia incondizionata della regola dell'esonero.
L'altro elemento che ha contribuito a determinare “una crisi di effettività e di legittimità dell'esonero”, va individuato nella storica rivoluzione interpretativa che, in tema di risarcibilità del danno non patrimoniale, ha portato al superamento della tradizionale lettura limitativa dell'art. 2059 c.c., liberando il risarcimento del danno morale subiettivo dall'accertamento rigoroso da parte del giudice civile di tutti gli elementi oggettivi e soggettivi della fattispecie di reato ex art. 185 c.p., sino all'affermazione finale di un sistema bipolare del risarcimento del danno alla persona in cui il danno non patrimoniale, nella sua accezione più ampia di danno determinato dalla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica, deve essere risarcito, oltre che in presenza di fatti costituenti reato e nei casi espressamente individuati, in tutti i casi in cui risulti il prodotto della lesione di diritti inviolabili della persona riconosciuti dalla Costituzione, quali salute, libertà, onore, immagine, autodeterminazione in materia di cure mediche, etc., ed a condizione che sussista la gravità dell'offesa e la serietà del danno, quale forma di tutela minima, e per ciò stesso indefettibile ed incomprimibile, apprestata dall'ordinamento. (Principi affermati a partire da Cass. 31 maggio 2003 n.n. 8827 e 8828 e consolidati da Cass. SU 11 novembre 2008 n. 26972).
Questa svolta interpretativa ha aperto nuovi scenari nella materia regolata dal T.U., che ha ad oggetto esclusivamente la tutela di diritti inviolabili della persona, suggerendo l'idea di utilizzare lo stesso percorso costituzionalmente orientato per un superamento delle restrizioni delle condizioni di accesso alla tutela risarcitoria, derivanti dall'accertamento della esistenza di un fatto-reato richiesto dagli art. 10 e 11, al fine di uniformare anche il sottosistema governato dall'esonero al nuovo corso della giurisprudenza costituzionale e di legittimità.
I criteri di accertamento della illiceità penale del fatto: due tesi a confronto
Affidata al giudice civile la verifica della illiceità penale del fatto a seguito del superamento della pregiudizialità penale, è restata a lungo questione controversa se il giudice civile, tenuto a procedere nell'individuazione del reato, nelle sue componenti oggettive e soggettive, fosse tenuto a farlo applicando i più rigidi criteri di imputazione e le più severe regole probatorie della responsabilità penale, o gli fosse consentito giovarsi di quelli rispettivamente più favorevoli operanti in tema di responsabilità civile di natura contrattuale.
Mutuando una felice immagine utilizzata per descrivere la posizione del giudice nazionale nella gestione dei rapporti tra ordinamento nazionale ed ordinamento europeo, ci si è chiesti se il giudice civile nell'effettuare l'accertamento della illiceità penale del fatto dovesse continuare a vestire i suoi panni o piuttosto indossare la “giacca” del giudice penale.
Le ricadute di tale scelta non sono di poco momento: l'opzione penalistica impone di utilizzare nella verifica del nesso causale, il cui onere probatorio incomberebbe sul lavoratore, la regola probatoria dell'”oltre ogni ragionevole dubbio” e di porre sempre a carico del lavoratore la prova della colpevolezza del datore di lavoro.
L'opzione civilistica consente di utilizzare, in tema di causalità materiale, la regola probatoria del “più probabile che non”, ed al lavoratore di avvantaggiarsi dell'inversione dell'onere della prova sull'elemento soggettivo, di cui all'art. 1218 c.c., con possibilità del datore di lavoro di provare la non imputabilità dell'evento e quindi l'assenza di colpa.
Quanto al nesso causale, le Sezioni Unite civili (Cass.11 gennaio 2008 n. 576) sottolineano da tempo che il più importante divario tra il campo penale (da cui si sono elaborati i principi anche per la causalità civile) e il campo civile stia proprio nella regola probatoria: "Essendo questi i principi che regolano il procedimento logico - giuridico ai fini della ricostruzione del nesso causale, ciò che muta sostanzialmente tra il processo penale e quello civile è la regola probatoria, in quanto nel primo vige la regola della prova “oltre il ragionevole dubbio” …mentre nel secondo vige la regola della preponderanza dell'evidenza o “del più probabile che non”, stante la diversità dei valori in gioco nel processo penale tra accusa e difesa, e l'equivalenza di quelli in gioco nel processo civile tra le due parti contendenti", conformemente agli standard delle prove negli ordinamenti occidentali e anche alla giurisprudenza della C.G.U.E.
Quanto all'elemento soggettivo, posto che in ambito civilistico risulta sufficiente la colpa, ed ininfluente il dolo, e che, seppure con qualche perdurante rimostranza della dottrina più attenta, risulta ormai affermato un concetto unitario di colpa, generica per negligenza, imperizia e imprudenza, specifica per violazione di norme, regolamenti, ordini e discipline, determinato dal fatto che anche in sede penale la violazione della regola cautelare generale desumibile dall'art. 2087 c.c. è sufficiente a configurare la colpa, la differenza tra responsabilità civile contrattuale e responsabilità penale opera questa volta sul piano del riparto degli oneri probatori.
In ambito penalistico l'accusa è tenuta a dimostrare la colpa in concreto e in positivo e la regola probatoria è sempre quella generale dell'”oltre ogni ragionevole dubbio” di cui all'art. 533 c.p.p.; anche nell'ambito di responsabilità civile extracontrattuale, ad eccezione che per le ipotesi speciali di responsabilità oggettiva di cui agli artt. da 2047 a 2054 c.c., ove il criterio di imputazione si fonda su un dato oggettivo, l'onere della prova dell'elemento soggettivo della colpa incombe sul danneggiato.
In riferimento alla responsabilità contrattuale opera, invece, il meccanismo dell'inversione dell'onere della prova di cui all'art. 1218 c.c., costituendo ormai principio consolidato che “In tema di prova dell'inadempimento di una obbligazione, il creditore che agisca per la risoluzione contrattuale, per il risarcimento del danno, ovvero per l'adempimento deve soltanto provare la fonte (negoziale o legale) del suo diritto ed il relativo termine di scadenza, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell'inadempimento della controparte, mentre il debitore convenuto è gravato dell'onere della prova del fatto estintivo dell'altrui pretesa, costituito dall'avvenuto adempimento” ( Vedi Cass.S.U. 30 novembre 2001 n 13533; Cass. 12 ottobre 2010 n. 3373; Cass. 15 luglio 2011 n. 15659; Cass. 20 gennaio 2015 n. 826).
Le posizioni della dottrina: dal rigore alle letture evolutive costituzionalmente ispirate
La dottrina, nella consapevolezza delle conseguenze collegate alla selezione del criterio di accertamento, si è da subito appassionata al tema distinguendosi tra posizioni più intransigenti, seppure con qualche distinguo, a favore dell'utilizzo dei criteri penalistici, in difesa della specialità di un sottosistema frutto della combinazione di tutele indennitarie e risarcitorie, e posizioni evolutive che ne hanno propugnato il superamento attraverso l'adozione dei criteri civilistici, in nome della tutela dei principi costituzionali desumibili dagli artt. 32 e 38 Cost.; altri autori hanno optato per atteggiamenti di neutralità, prospettando l'esistenza della contrapposizione, ma senza esprimersi nettamente a favore dell'uno o dell'altro criterio.
Secondo la posizione più estrema a supporto dei criteri penalistici, identificando illecito civile e reato si supererebbe sistematicamente l'esonero, annullando la differenza tra danno complementare e differenziale e si vanificherebbe l'esistenza di un intero apparato assicurativo.
Per evitare il rischio di un'inammissibile e definitiva “interpretatio abrogans” dell'art. 10 T.U., e garantire la tenuta del sistema, occorre che, anche in sede civile, il giudizio di reità sia concreto, effettivo, tangibile, individualizzante, ed il giudice civile, in sede di accertamento del reato, si identifichi con il giudice penale, adottando gli stessi criteri di giudizio e la stessa metodologia di controllo, in tema di nesso causale e di accertamento in concreto della colpa, in modo che, stante il principio dell'indifferenza della sede entro cui il giudizio risarcitorio si svolge, non vi sia difformità nelle tipologie di accertamento ed il danneggiato che si costituisce parte civile nel processo penale riceva quell'identica tutela risarcitoria che riceverebbe proponendo una autonoma azione civilistica; con lo stesso rigore quanto agli oneri di allegazione si richiede, a pena di inammissibilità, che la domanda di danno differenziale contenga una puntuale e formale qualificazione dei fatti in termini di illiceità penale nonché delle deduzioni sul quantum, in termini differenziali con l'indennizzo liquidato (o liquidabile) dall'INAIL, che ne prospettino l'esistenza in concreto, rendendolo astrattamente apprezzabile. (In tali termini M. Casola, Esonero dalla responsabilità del datore di lavoro e conseguenze processuali in tema di danno differenziale, in RIDL, 2009, 1, 99).
Per altro autorevole sostenitore del principio dell'esonero quale “asse portante” del sistema regolativo del diritto del lavoratore al danno differenziale e dell'Istituto previdenziale al regresso, la tesi che nell'ambito di tali azioni vengano applicate le stesse regole presuntive della colpa valevoli nell'ambito della responsabilità contrattuale, senza far gravare su chi agisce l'onere della prova dell'illiceità penale del fatto, oltre a scontrarsi con il dato letterale dell'art. 10 T.U., avrebbe finito con lo svuotare di significato la regola dell'esonero, che costituisce principio cardine dell'intero sistema assicurativo, omogeneizzando in modo inammissibile la tutela del danno differenziale e di quello complementare.
Sul piano sistematico si evidenziava il rischio di una eliminazione “in radice” dell'esonero del datore, sia per il danno non patrimoniale che per quello patrimoniale, dal momento che l'esistenza di una fattispecie di reato procedibile d'ufficio è rinvenibile in tutte le ipotesi di lesioni del lavoratore per infortunio o malattia con violazione delle norme sulla prevenzione degli infortuni ai sensi del solo art. 2087 c.c., con periodo di inabilità superiore a 40 giorni, nonché il pericolo di uno stravolgimento dello stesso assetto della tutela assicurativa predisposto dal T.U., in quanto, allo stesso modo che per il danno c.d. complementare, il lavoratore avrebbe potuto sempre adire oltre all'istituto assicuratore lo stesso giudice civile per chiedere il danno differenziale, a tal punto che l'azione di danno sarebbe divenuta automatica.
Non da ultimo si paventava la vanificazione della funzione deterrente che è indirettamente assolta dal meccanismo dell'esonero e della pregiudizialità penale sul piano logico, dal momento che la graduazione della responsabilità in funzione della provata inosservanza di una regola di prevenzione, spinge il datore ad adottarla per non esporsi all'azione di danno differenziale ed a quella di regresso dell'istituto, laddove tale funzione preventiva verrebbe indebolita se il datore di lavoro fosse chiamato a rispondere comunque in giudizio nei confronti del lavoratore e dell'INAIL in via di regresso a prescindere dalla colpa, e quindi dall'aver adottato o meno le misure di prevenzione con l'effetto di essere disincentivato ad adottarle, con una eterogenesi dei fini rispetto alla tutela primaria della salute del lavoratore, posto come criterio prioritario dell'ordinamento e criterio interpretativo cardine di ogni istituto.
Si segnalava comunque che, pur adottando l'interpretazione che consente l'applicazione dei criteri civilistici di accertamento della colpa, non fosse sostenibile che la regola dell'esonero avesse cessato di esistere oltre il profilo del semplice quantum, in quanto, in ogni caso, il lavoratore assicurato all'INAIL ha diritto al danno differenziale nella sola ipotesi in cui il reato sia procedibile d'ufficio, e quindi nulla gli spetterà nell'ipotesi in cui si tratti di un fatto che abbia prodotto ad es. una lesione inferiore ai 40 giorni, ancorché avvenuta con violazione dell'art. 2087 c.c. o di altre specifiche regole precauzionali.
Tale posizione dottrinaria si distingueva tuttavia dalla precedente in quanto non ne avallava le soluzioni formalistiche sul requisito della specificità dell'allegazioni, rilevando, quanto all'illiceità penale del fatto, che la qualificazione giuridica dei fatti rientra nei compiti del giudice per cui l'allegazione nel ricorso introduttivo di un fatto integrante, in astratto, nei suoi presupposti oggettivi e soggettivi, un reato perseguibile di ufficio è sufficiente a incardinare validamente la causa per danno biologico nei confronti del datore di lavoro, e in ordine al quantum che la regola cardine dell'esonero costituisce un precetto che attiene agli elementi costitutivi della responsabilità, per cui il giudice deve scomputare dai danni quanto ottenuto o ottenibile dall'INAIL per effetto dell'assicurazione obbligatoria anche d'ufficio, e quindi anche in assenza di specifica allegazione. (Vedi R. Riverso, Fondamento e limiti dell'esonero del datore dalla responsabilità civile, in Lav. giur. 2015, 1, 17).
In contributi più recenti lo stesso Autore ha tuttavia messo in evidenza l'avvenuto superamento dell'opinione tradizionale che riportava il fondamento dell'assicurazione ed il principio dell'esonero alla tesi della transazione sociale, il cui connotato transattivo starebbe nella corrispettività tra contributi ed esonero, a vantaggio di una nuova interpretazione che, partendo dalla valorizzazione degli artt. 32 e 41 Cost. che impongono di proteggere in modo pieno ed incondizionato la salute del lavoratore alla stregua di un diritto fondamentale, pone l'accento più sul bisogno del lavoratore che sul rischio del datore in conformità all'art. 38, comma 2, Cost.
In tale nuova ottica il pagamento del premio assolve più alla funzione di finanziamento dell'assicurazione sociale che a quella di esonerare dalla responsabilità civile il datore che eserciti un lavoro rischioso, rischio poi da intendersi in senso ampio, come insito in qualsiasi rapporto di lavoro da cui possa derivare una situazione di bisogno a seguito della lesione della salute, a prescindere dall'adibizione ad un'attività intrinsecamente rischiosa.
Con una rimeditazione evolutiva si osserva così che la soluzione contrattuale, secondo cui l'accertamento della responsabilità datoriale per danno differenziale, od in sede di regresso, debba essere effettuato secondo il regime della presunzione ex art. 1218 c.c., risponde con maggiore coerenza, sotto più profili, al nuovo corso che la giurisprudenza ha impresso al sistema di tutela del danno subito dal lavoratore infortunato nell'ambito del T.U.
La soluzione restrittiva verso l'impostazione penalistica viene letta come espressione di un antico retaggio del tutto antistorico ed asistematico, rispetto alla moderna concezione della responsabilità civile che è tutta improntata verso la riparazione del danno.
Porre l'onere della prova a carico del lavoratore e dell'INAIL, che agiscono nei confronti del datore di lavoro pur sempre con azione contrattuale, sarebbe così in antitesi con il principio di integralità del risarcimento del danno e col principio di eguaglianza, ed in controtendenza sia con la propensione alla progressiva emarginazione (processuale e sostanziale) dell'esonero datoriale che con il superamento del principio della transazione sociale, a favore del suo fondamento solidaristico, quale mezzo volto al reperimento delle risorse per rispondere ai bisogni di tutti i lavoratori infortunati ex art. 38 Cost., a prescindere dalla responsabilità civile, dalla colpa del lavoratore e dal pagamento di contributi. (Cfr. R. Riverso, L'azione di regresso dell'Inail: evoluzioni prospettive ed onere della prova, in Lav. giur. 2020, 2, 105).
Altra parte della dottrina, con argomentazioni costituzionalmente ispirate, ha sostenuto da sempre e con forza che, anche ai fini del riconoscimento del danno differenziale e dell'azione di regresso, l'accertamento della colpa debba essere effettuato alla stregua dei meccanismi presuntivi stabiliti dall'articolo 1218 c.c., così come avviene per tutti i danni complementari estranei alla regola dell'esonero di cui all'art. 10 T.U.
Di questo filone ne costituisce senza dubbio la principale ed illuminante fonte propulsiva l'elaborazione che, via via con maggiori elementi, ha posto in evidenza come la norma dell'esonero abbia assunto nel tempo un significato profondamente diverso a partire dal momento in cui il modello di transazione sociale che l'aveva ispirata è stato superato dall'art. 38 Cost., sicché il pagamento del «premio» da parte del datore di lavoro è pacificamente divenuto un mezzo di finanziamento di una specifica forma di tutela previdenziale, consentendo di accomunare sul piano funzionale l'assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali a tutte le forme previdenziali pubbliche nel nostro ordinamento costituzionale.
Nella nuova logica costituzionale, il pagamento del «premio» non può più esonerare il datore di lavoro dalla responsabilità civile, poiché quell'assicurazione non ha, o comunque ha perso, la funzione di sollevarlo dalle conseguenze del suo rischio professionale, quando questo derivi dall'inadempimento dell'obbligo di sicurezza.
Ne consegue che per attribuire all'esonero un significato coerente con il sistema costituzionale gli va assegnata una funzione derogatoria marginale, che in tanto può consentire una deviazione rispetto ai comuni principi in tema di responsabilità civile, purché non entri in collisione, oltre che con la funzione fondamentale della forma di tutela previdenziale (art. 38 Cost.), con l'esigenza di assicurare alla vittima dell'infortunio, per i profili non coperti dall'indennizzo previdenziale, una integrale riparazione del danno alla persona (artt. 2 e 32 Cost.), per cui “l'esonero non costituisce più, con ogni evidenza, una regola cardine del sottosistema, ma un elemento accessorio, e tendenzialmente recessivo, sia rispetto alla funzione di tutela previdenziale disciplinata dal t.u., sia rispetto alla rilettura costituzionale dell'intero sistema della responsabilità civile” (Vedi S. Giubboni, La crisi della regola dell'esonero nell'assicurazione infortuni, RDSS, 2012, pp. 273; ID, Un breve excursus sul danno differenziale, in Notiziario INCA, 2017, 12).
Lo stesso Autore analizza compiutamente l'evoluzione storica dell'istituto, di cui stigmatizza una crisi di “effettività” e di “legittimità”, determinata da fattori endogeni ed esogeni, già innanzi ampiamente esaminati, ed evidenzia che il fatto che l'art. 10 T.U. presupponga ancora oggi nei confronti del lavoratore infortunato, un'ipotesi di responsabilità contrattuale qualificata o rafforzata dall'additivo specializzante della ricorrenza, in astratto, di un fatto di reato perseguibile d'ufficio, non esclude che, ai fini della imputabilità dell'infortunio al datore di lavoro, valgano in pieno le regole di accertamento di cui agli artt. 1218 e 2087 c.c., costituendo anzi tale direzione interpretativa l'unica che consenta di superare le altrimenti inevitabili incongruenze del sistema previdenziale rispetto al nuovo diritto vivente in tema di tutela del danno alla persona.
La classica giustificazione economicistica, fondata, in una logica di scambio, sull'idea di transazione sociale, appare del tutto inconciliabile con la logica dei diritti inviolabili della persona che ammette, al più, forme di bilanciamento con situazioni giuridiche, nella specie non ricorrenti, di pari rango costituzionale (art. 41, c. 2, Cost.); del resto nell'ambito del contratto di lavoro subordinato, le istanze di protezione che nascono dalla diretta implicazione della persona del lavoratore nello svolgimento del rapporto, comportano che gli stessi diritti di natura economica, a partire evidentemente dal credito retributivo (art. 36 Cost.), debbano essere annoverati nel nucleo dei diritti fondamentali costituzionalmente garantiti, per cui gli stessi riflessi patrimoniali e reddituali della lesione dell'integrità psico-fisica del lavoratore (ovvero il danno patrimoniale che consegua alla violazione del diritto fondamentale alla salute del prestatore di lavoro) rientrano, a pieno titolo, in tale sfera costituzionalmente garantita.
Condividendo le esigenze di pieno adeguamento della lettura dell'art. 10 del T.U. ai canoni della interpretazione «costituzionalmente orientata» o «conforme», e quella di uniformare pienamente il sottosistema governato dalla speciale regola ivi contenuta ai principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità in tema di risarcimento del danno non patrimoniale alla persona, da altro Autore si è giunti sino a proporre di espungere la regola dell'esonero in punto di interpretazione, senza bisogno di attendere auspicate riforme legislative.
Si suggerisce quindi di leggere il comma 2 dell'art. 10 del T.U. «come se dicesse: “nonostante l'assicurazione predetta, permane la responsabilità civile per danno non patrimoniale in caso di colpa penale ovvero di lesione di diritti inviolabili della persona costituzionalmente protetti”» poiché «i diritti tutelati dal t.u. n. 1124/1965 sono tutti diritti inviolabili della persona costituzionalmente protetti, l'area della eccezione viene a coincidere con l'area della regola, che quindi non ha più ragione di esistere; i due insiemi di segno contrario, ormai coincidenti, si annullano». (In tali termini A. De Matteis, Assicurazione infortuni: perché non esiste più la regola dell'esonero, RDSS, 2011, pp. 355 ss.).
Sostanzialmente in adesione all'impostazione favorevole all'adozione dei criteri civilistici, in altri contributi scientifici si pongono in evidenza, di volta in volta, aspetti ulteriori, privilegiando diverse angolazioni, quali i dubbi di legittimità dell'art. 10 T.U., nella parte in cui condiziona alla presenza di un reato perseguibile d'ufficio il risarcimento del danno biologico differenziale, benché la Consulta lo abbia ritenuto meritevole di una tutela integrale (Vedi A. Rossi, L'esonero datoriale dalla responsabilità civile nell'assicurazione contro gli infortuni: una regola da rivitalizzare? in RDSS 2018, pp. 315 ss.), o l'irrazionalità di una interpretazione che, a fronte di un unico fatto lesivo generatore di danno e del positivo accertamento dell'esistenza di un nesso causale tra il mancato rispetto da parte del datore di lavoro dell'obbligazione di sicurezza ex art. 2087 c.c. rientrante nel sinallagma del contratto di lavoro ed il danno, imponga al giudice, anche nell'ambito dello stesso giudizio, di condurre un diverso accertamento ai fini del riscontro, con criteri civilistici ovvero penalistici, della colpa a seconda che si tratti di danno differenziale o complementare. (Cfr. A. Leuzzi Indennizzo previdenziale e risarcimento del danno. Profili processuali del danno differenziale, RGLP, 2011, I 852).
Da altra prospettiva, infine, si prende atto come l'esonero abbia perduto la centralità e la sua originaria funzionalità a beneficio del datore di lavoro, assumendo le caratteristiche di un congegno di mero raccordo tecnico tra indennizzo e risarcimento, quale regola operativa per la determinazione e quantificazione del differenziale economico riconosciuto al lavoratore per la compromissione dei suoi diritti inviolabili. (Vedi P. Tullini, Il danno differenziale: conferme e sviluppi di una categoria in movimento, in RIDL, 4, 2015, 485).
La giurisprudenza di legittimità: un contesto in movimento
In passato la giurisprudenza di legittimità era già intervenuta sul tema dello sganciamento dell'accertamento del fatto costituente reato perseguibile d'ufficio dai rigidi criteri penalistici, sia con riferimento al danno differenziale sia con riguardo all'azione di regresso, ma in termini puramente assertivi e senza esplicitare le motivazioni di tale posizione.
Per Cass.14 aprile 2008 n. 9817, avendo la responsabilità ex art. 2087 c.c. carattere contrattuale, in quanto il contenuto del contratto individuale di lavoro risulta integrato per legge dalla disposizione che impone l'obbligo di sicurezza e lo inserisce nel sinallagma contrattuale, il riparto degli oneri probatori nella domanda di danno differenziale da infortunio sul lavoro si pone negli stessi termini che nell'art. 1218 c.c. sull'inadempimento delle obbligazioni, con la conseguenza che il lavoratore deve allegare e provare la esistenza dell'obbligazione lavorativa, del danno ed il nesso causale di questo con la prestazione, mentre il datore di lavoro deve provare che il danno è dipeso da causa a lui non imputabile e cioè di avere adempiuto al suo obbligo di sicurezza, apprestando tutte le misure per evitare il danno.
Si legge in tale decisione che “La regola sovrana in tale materia, desumibile dall'art. 1218 c.c., è che il creditore che agisca per il risarcimento del danno deve provare la fonte (negoziale o legale) del suo diritto, il danno, e la sua riconducibilità al titolo dell'obbligazione, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell'inadempimento della controparte, mentre è il debitore convenuto ad essere gravato dell'onere di provare il proprio adempimento, o che l'inadempimento è dovuto a causa a lui non imputabile”
Seguendo tale ricostruzione non c'è responsabilità del datore di lavoro, con operatività dell'esonero, solo in presenza di comportamenti del lavoratore caratterizzati dai requisiti della abnormità, inopinabilità ed esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo e alle direttive ricevute, in caso di dolo del lavoratore o di cd. rischio elettivo, ossia in presenza di quelle condotte atipiche ed eccezionali che, ai sensi dell'art. 41 comma 2 c.p., divengano causa esclusiva dell'evento; la condotta imprudente e negligente del lavoratore non esclude la responsabilità del datore che abbia violato le obbligazioni di sicurezza e di garanzia su di lui gravanti, ma, poiché si inserisce nel procedimento causale di verificazione dell'evento, che senza tale apporto si sarebbe realizzato con modalità o conseguenze differenti, determina un'ipotesi di concorso di colpa della vittima, ed una corrispondente riduzione percentuale del danno risarcibile, anche ai fini del calcolo del danno differenziale.
Nella di poco successiva Cass. 23 aprile 2008 n. 10529 si propone per la prima volta un'equiparazione del regime probatorio dell'azione di danno proposta dal lavoratore ex art. 2087 c.c., nei termini innanzi delineati, e dell'azione di regresso proposta ex artt. 10 e 11 del T.U. dall'INAIL nei confronti dell'imprenditore responsabile.
Su tale equiparazione si registra, tuttavia, una successiva pronuncia di segno opposto; per Cass. 19 settembre 2012 n. 15715, premesso che nell'azione di regresso proposta dall'INAIL occorre accertare se in relazione all'infortunio sul lavoro sia ravvisabile un fatto-reato imputabile al datore di lavoro per violazione delle norme antinfortunistiche o degli obblighi scaturenti dall'art. 2087 c.c., e che il relativo accertamento giudiziale non deve necessariamente avvenire in sede penale, potendo essere effettuato anche in sede civile, mentre nell'ambito dell'azione proposta dal lavoratore infortunato ex art. 2087 c.c., è sufficiente che costui dimostri il danno e la sua riconducibilità al titolo negoziale e si limiti ad allegare l'inadempimento datoriale, spettando all'imprenditore l'onere di dimostrare il proprio adempimento o che l'inadempimento sia dovuto a causa a lui non imputabile, sicché la prova che tutto sia stato predisposto per il rispetto del precetto del suddetto art. 2087 c.c. e che gli esiti dannosi siano stati determinati da un evento imprevisto e imprevedibile deve essere fornita dal datore di lavoro, restando a suo carico il fatto ignoto, in tema di azione di regresso grava, invece, sull'INAIL l'onere di allegare e provare il fatto-reato, nei suoi elementi costitutivi.
Nella giurisprudenza successiva la questione non viene più affrontata in modo specifico, salvo meri richiami alle regole probatorie di cui all'art. 1218 c.c. sull'inadempimento delle obbligazioni, ritenute pacificamente applicabili sia nella domanda di danno differenziale proposta dal lavoratore sia in quella dell'Istituto assicuratore in via di regresso.
Anche Cass. 10 aprile 2017 n. 9166, pur avendo preso posizione, dopo una ampia ricostruzione storico-evolutiva degli istituti, su quasi tutti i punti controversi in tema di “an” e di “quantum” dei rapporti tra responsabilità civile e sistema indennitario e sulle più importanti questioni sorte in tema di esonero, danno differenziale e regresso, esaminando anche la problematica degli oneri di allegazione, non dedica un approfondimento particolare alla tematica del riparto degli oneri probatori ed alla sottostante questione dei criteri applicabili nell'accertamento della rilevanza penale della condotta datoriale, non essendo stata su tali punti sollecitata dai motivi di ricorso.
Da ultimo, tuttavia, una maggiore attenzione al tema è rinvenibile nelle decisioni di legittimità che, con un significativo percorso evolutivo in materia previdenziale, hanno valorizzato da un lato l'ampliamento soggettivo del regresso nei confronti dei terzi, consolidatosi a partire da Cass. S.U. 16 aprile 1997, n. 3288 - allargamento che, portando l'azione oltre l'ambito dei datori assicurati e del presupposto del pagamento di contributi, ne ha accentuato la funzione preventiva e deterrente - e dall'altro hanno individuato espressamente il fondamento della tutela assicurativa nel precetto costituzionale dell'art. 38.
Si parte così da Cass. 5 marzo 2018 n. 5066 che, nel riconoscere l'indennizzabilità del mobbing, ha giustificato un ampliamento dell'assicurazione sociale configurandone il fondamento, ai sensi dell'art.38 Cost., non più nella nozione tradizionale di rischio assicurato o di traslazione del rischio, ma nella protezione del bisogno del lavoratore, considerato in quanto persona, posto che, come riconosciuto dalla Corte cost. nella sentenza 2 marzo 1991 n. 100l'“oggetto della tutela dell'art. 38 non è il rischio di infortuni o di malattia professionale, bensì questi eventi in quanto incidenti sulla capacità di lavoro e collegati da un nesso causale con attività tipicamente valutata dalla legge come meritevole di tutela”.
Al distacco della tutela indennitaria dal concetto statistico-assicurativo di rischio, al quale era originariamente legata, ed alla sua collocazione nel cono d'ombra dell'art. 38 Cost, da coordinarsi con l'art. 32 Cost., al fine di garantire massima efficacia alla tutela fisica e sanitaria dei lavoratori, consegue, secondo la Corte, che, “non può più neppure sostenersi che il premio assicurativo INAIL abbia la funzione di delimitare la tutela assicurativa a rischi precisamente individuati in base alle tabelle; assolvendo invece la precipua funzione di provvedere al finanziamento del sistema“.
In tema di azione di regresso si segnala lo sviluppo argomentativo di Cass. 19 ottobre 2018 n. 26497 in cui, confermando una sentenza di merito che aveva accolto la domanda di regresso applicando la ripartizione dell'onere della prova secondo il regime degli artt. 1218 e 2087 c.c., si afferma che “ai fini dell'azione di regresso esercitabile dall'INAIL nei confronti del datore di lavoro o degli altri corresponsabili del fatto reato (Cass. n. 12561/2017) in seguito ad infortunio o malattia professionale, come ai fini dell'azione di danno differenziale promossa dal lavoratore - entrambe assoggettate allo stesso regime normativo ai sensi degli artt.10 e 11 DPR 1124/65 - occorre che venga dedotta in giudizio l'illiceità penale del fatto, accertabile incidenter tantum anche in sede civile, per un reato perseguibile d'ufficio” e che, ferma l'allegazione dell'illiceità penale del fatto, sull'INAIL incombe soltanto la prova del nesso causale tra infortunio e fatto, secondo lo schema della responsabilità contrattuale ex art. 1218 c.c.
Anche Cass. 25 ottobre 2018 n. 27102, nel confermare una sentenza di condanna del datore di lavoro in sede di regresso, che aveva applicato “la comunanza di principi, quanto alla distribuzione dell'onere probatorio, tra azione di responsabilità esperita dal lavoratore ex art. 2087 cod. civ. nei confronti del datore di lavoro ed azione di regresso dell'INAIL” e proceduto ad un autonomo accertamento dell'astratta configurabilità della fattispecie di reato, ricorda che “in tema di assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro, ai fini del sorgere del credito dell'INAIL nei confronti della persona civilmente obbligata, è necessario che il fatto costituisca reato perseguibile d'ufficio, ma l'accertamento giudiziale, sempre che si renda necessario in mancanza di adempimento spontaneo del soggetto debitore o di bonario componimento della lite, può avvenire sia in sede penale che in sede civile (Cass. n.2138 del 2015; 11986 del 2010).”
La soluzione nomofilattica favorevole ai criteri di giudizio civilistici: le fondamenta di una scelta
L'intervento chiarificatore invocato dalla dottrina non ha deluso le aspettative di quanti confidavano nell'adozione da parte della Suprema Corte di una soluzione che fosse in sintonia con un ordinamento giuridico evoluto e moderno, che pone al centro i diritti inviolabili della persona, tutelati dalla Costituzione e dalla normazione europea di diretta applicazione, e tra questi il diritto alla salute del lavoratore presidiato dagli artt. 32 e 38 della Carta costituzionale.
Cass. 19 giugno 2020 n. 12041 ha, innanzitutto, individuato la res dubia, contrapponendo la tesi di quanti ritengono che il giudice civile, all'atto dell'accertamento della responsabilità del datore di lavoro in caso di azione per danno cd. "differenziale" o di azione di regresso esercitata dall'INAIL, debba adottare gli stessi criteri di giudizio e la stessa metodologia di controllo del giudice penale, allo scopo di non svuotare di contenuto la regola dell'esonero, a quella di coloro che, con argomentazioni ispirate agli artt. 32 e 38 Cost., sostengono l'operatività delle regole di accertamento previste dagli artt. 1218 e 2087 c.c.
All'esito di una rivisitazione sistematica e capillare di tutti gli aspetti processuali e sostanziali più rilevanti, la scelta nomofilattica si è orientata a netto favore dell'opzione civilistica con l'enunciazione del seguente principio di diritto:” In tema di assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, la disciplina prevista dagli artt. 10 e 11 del D.P.R. n. 1124 del 1965 deve essere interpretata nel senso che l'accertamento incidentale in sede civile del fatto che costituisce reato, sia nel caso di azione proposta dal lavoratore per la condanna del datore di lavoro al risarcimento del cd. danno differenziale, sia nel caso dell'azione di regresso proposta dall'INAIL, deve essere condotto secondo le regole comuni della responsabilità contrattuale, anche in ordine all'elemento soggettivo della colpa ed al nesso causale tra fatto ed evento dannoso".
A ristoro di anni di affermazioni dogmatiche, l'impianto motivazionale della sentenza si apre alla disamina di tutti i mutamenti che negli anni hanno interessato i riferimenti legislativi e la ratio complessiva del sistema; l'evoluzione del contesto generale e specifico in cui si inseriva il dato normativo alla base del meccanismo dell'esonero conduce così al decisum quale punto di approdo esegetico coerente con il diverso assetto istituzionale ridefinito alla luce dei principi costituzionali.
Completano la blindatura della decisione l'approfondimento degli argomenti a favore ed il disinnesco di quelli contrari.
Nel dettaglio la Corte evidenzia il definitivo superamento della pregiudizialità penale, l'estensione della tutela assicurativa al danno biologico, l'evoluzione che ha portato il sistema dell'assicurazione sociale ad abbandonare la logica originaria della transazione sociale, legata alla corrispettività tra contributi ed esonero, ed a privilegiare la funzione di socializzazione del rischio e di tutela previdenziale imposta dall'art. 38 Cost., trasformando l'esonero da regola cardine ad elemento tendenzialmente recessivo rispetto all'esigenza prioritaria di assicurare alla vittima dell'infortunio una integrale riparazione del danno alla persona.
Molteplici e concorrenti gli argomenti che indirizzano la scelta verso le regole di ingaggio civilistiche:
-in primo luogo rileva la posizione già espressa dalle Sezioni Unite civili in casi analoghi in cui è stata chiamata ad esaminare i rapporti tra giudizio penale e giudizio civile; il riferimento è alle pronunce che, a partire da Cass. S.U. 18 settembre 2008 n. 27337, in tema di individuazione del termine di prescrizione del fatto illecito ai sensi dell'art. 2947, comma 3, c.c., in presenza di un fatto considerato dalla legge come reato, hanno affermato che l'attuale autonomia del giudizio civile da quello penale comporta la necessità che il giudice civile, chiamato ad accertare in via incidentale la sussistenza di una fattispecie che integri gli estremi di un fatto-reato in tutti i suoi elementi costitutivi, soggettivi ed oggettivi, utilizzi i mezzi propri previsti dal codice di rito civile, e quindi strumenti probatori, quali le presunzioni legali e le prove legali del tutto sconosciute all'ordinamento penale, ed i diversi standard di certezza probatoria, operando nel processo penale la regola probatoria della prova "oltre il ragionevole dubbio" mentre nel processo penale quella della preponderanza dell'evidenza o "del più probabile che non", stante la diversità dei valori in gioco nel processo penale tra accusa e difesa, e l'equivalenza di quelli in gioco nel processo civile tra le due parti contendenti.
Quest'orientamento, ormai consolidato, ha portato a completamento un processo di allontanamento dai vincoli penalistici iniziato con la rilettura dell'art. 2059 c.c.; mentre rispetto a tale ultima norma era facile obiettare che la stessa non prevedesse alcun riferimento al reato, e che la sussistenza del reato condizionasse solo il profilo quantitativo del risarcimento ma non anche la sussistenza del diritto, in tema di prescrizione è innegabile che il presupposto stesso dell'allungamento del termine prescrizionale è individuato dalla norma nell'esistenza di un fatto costituente reato, analogamente a quanto previsto dall'art. 10 del T.U. ai fini della risarcibilità del danno differenziale.
Si richiama poi Cass. S.U. 21 maggio 2019 n. 13661 che, esaminando un caso di sospensione necessaria previsto dall'art. 75, comma 3, c.p.p., ha ribadito che la separazione e l'autonomia dei giudizi comportano che il giudizio civile sia disciplinato dalle sole regole sue proprie, che si differenziano da quelle del processo penale sia sotto il profilo probatorio che con riguardo alla ricostruzione del nesso di causalità;
-in secondo luogo la Corte evidenzia la necessità di evitare che, in caso di infortunio o malattia, il lavoratore subisca una trattamento deteriore rispetto a quello garantito ad un semplice cittadino-danneggiato che in un rapporto contrattuale agisca per la tutela dello stesso danno, in conseguenza di un aggravamento dei suoi carichi probatori.
La tutela indennitaria deve restare una prerogativa ulteriore, aggiuntiva, tutelata costituzionalmente dall'art. 38 Cost., ma non tramutarsi in un ostacolo ingiustificato al pieno risarcimento del danno alla persona dando la stura ad una immotivata disparità di trattamento, con il rischio che nella stessa sede processuale e rispetto al medesimo fatto, il giudice operi con criteri di giudizio diversi a seconda che sia chiamato a determinare danni "complementari" oppure "differenziali", arrivando addirittura a riconoscere i primi e a negare i secondi per il diverso onere probatorio applicato.
Ne consegue che tra le interpretazioni possibili va certamente privilegiata quella “conforme ai principi costituzionali laddove quella diversa ponga dubbi di compatibilità con la Carta fondamentale”, specie in un ambito che ha ad oggetto la garanzia della salute, quale diritto fondamentale ed inviolabile della persona umana, per il quale opera il principio dell'integrale riparazione del pregiudizio quale aspetto essenziale della tutela risarcitoria;
-in terzo luogo si ricorda la già evidenziata evoluzione giurisprudenziale che ha portato al superamento della logica transattiva, per cui il rischio professionale assicurato non è più soltanto quello dell'impresa, ma anche quello del lavoratore vittima di infortuni e malattie professionali, ed il premio assicurativo ha assunto la veste di una forma di finanziamento di un sistema finalizzato a garantire tutela alla salute del lavoratore.
Completa l'iter della motivazione la confutazione della principale obiezione a tale tesi, quella secondo cui l'applicazione dei criteri di accertamento civilistici determinerebbe in modo surrettizio l'eliminazione dell'istituto dell'esonero.
Sebbene un processo di ridimensionamento sussista, e l'opzione scelta possa contribuire ad accentuarlo, la Corte sottolinea che l'esonero è destinato a sopravvivere anche a tale soluzione interpretativa in quanto:
1) la responsabilità civile non è mai oggettiva, ma presuppone comunque la prova della colpa, seppure agevolata dall'inversione dell'onere probatorio;
2) qualsiasi posizione si assuma rispetto ai criteri di accertamento permane un'area, quella della responsabilità datoriale per un fatto che integri un reato procedibile a querela di parte, quali le lesioni colpose lievi guaribili in meno di 40 gg, da cui consegua una invalidità permanente superiore alla franchigia del 6%, per la quale il lavoratore non potrà mai avanzare una domanda di danno differenziale, né tanto meno autonoma azione per danno complementare in quanto coperta da assicurazione, né il datore di lavoro essere chiamato a risponderne in regresso;
3) il lavoratore assicurato non potrà mai pretendere in prima battuta dal datore di lavoro il risarcimento integrale del danno, potendo questi sempre opporgli l'operatività dell'esonero, con la conseguenza che, nell'eventualità che il lavoratore non abbia poi, per qualsiasi ragione processuale, sostanziale o per sua semplice inerzia, ricevuto in concreto l'indennizzo dall'INAIL, che secondo la più recente giurisprudenza va detratto anche d'ufficio e pur se non corrisposto, il datore di lavoro potrà comunque avvantaggiarsi di tale mancata erogazione non essendone chiamato a rispondere né in sede di differenziale né in sede di regresso; analogamente potrebbe anche avvantaggiarsi del mancato esperimento dell'azione di regresso da parte dell'Istituto, ad esempio nei casi di intervenuta prescrizione triennale dell'azione ex art. 112 del TU.
Ultimo importante passaggio quello in cui si espongono le ragioni che inducono ad estendere la conclusione enunciata per il danno differenziale anche all'azione di regresso, i cui presupposti sono normativamente speculari a quelli dell'azione del lavoratore per danno differenziale, e su cui ha inciso il medesimo mutamento del contesto costituzionale che ha portato a potenziarne la funzione solidaristica di finanziamento e quella deterrente di prevenzione.
Lo stesso percorso evolutivo viene del resto evocato da Cass. 24 giugno 2020 n. 12465, di poco successiva, ove in termini chiari si afferma che “il paradigma contrattuale, secondo cui l'accertamento della responsabilità datoriale per danno differenziale deve essere effettuato secondo il regime della presunzione ex art. 1218 c.c. risponde con maggiore coerenza, sotto più profili, all'evoluzione che la giurisprudenza ha impresso al sistema di tutela del danno subito dal lavoratore infortunato nell'ambito del t.u. 1124 ed alla stessa azione di regresso. Oltre che dal processo di affrancamento della protezione sociale del lavoratore dagli stilemi e dalle categorie del diritto penale, l'allargamento della possibilità di accertamento del fatto reato attraverso l'impiego degli stessi schemi della responsabilità civile contrattuale ex art. 1218 c.c. discende dall'evoluzione impressa dalla giurisprudenza all'azione di regresso dell'INAIL.”.
In tale pronuncia si aggiunge che, sia rispetto all'evoluzione giurisprudenziale che ha portato ad esaltare la funzione solidaristica della tutela assicurativa, sia rispetto all'ampliamento soggettivo del regresso operato dalla giurisprudenza delle S.U., appare più coerente riconoscere all'INAIL gli strumenti di accertamento più agili garantiti dall'ordinamento con l'impiego delle categorie proprie della responsabilità contrattuale, trovando cosi i due profili una ricomposizione “all'interno di un disegno organico”.
In conclusione
Il sistema indennitario, abbandonata la logica economica della transazione sociale, trova oggi il suo fondamento solidaristico nell'art. 38 Cost., che impone di fornire al lavoratore un sostegno adeguato per liberarlo dal bisogno in un momento in cui è impossibilitato a rendere la prestazione lavorativa in conseguenza di un evento protetto.
Al centro del sistema indennitario si pone la regola dell'esonero che garantisce il riparto di competenze, tra l'area di intervento dell'assicurazione sociale obbligatoria e quello di riemersione della responsabilità civile del datore di lavoro, in ordine alla riparazione dei danni conseguenti a infortunio sul lavoro o a malattia professionale.
Operando il meccanismo di socializzazione del rischio professionale basato sulle prestazioni indennitarie erogate dall'INAIL, la responsabilità civile ha spazio d'intervento solo nei casi in cui rivive per «sanzionare», in combinato disposto con l'azione di regresso riservata all'Istituto assicuratore dall'art. 11, una condotta penalmente rilevante del datore di lavoro.
Tale regola di riparto, pur rimasta inalterata nel tempo da un punto di vista formale, in quanto sopravvissuta ai numerosi esami a cui è stata sottoposta innanzi al Giudice delle leggi ed esentata da modifiche legislative che hanno invece inciso profondamente sul sistema indennitario, ha subito negli anni un lungo, lento ma inesorabile, processo di erosione.
Nel pur immutato quadro normativo, l'esonero attuale non può essere più quello originario, in quanto è mutata nel quadro costituzionale la gerarchia dei valori: le valutazioni meramente economiche, in termini di un reciproco dare/avere, sostegno del meccanismo della cd transazione sociale, che avevano un senso laddove all'indennizzo si contrapponeva il solo danno patrimoniale, e che consentivano di giustificare una limitazione di tutela per la posizione del lavoratore- danneggiato, hanno ceduto il passo da un lato al diritto del lavoratore ad una tutela previdenziale indennitaria che trova un suo autonomo riconoscimento nell'art. 38 Cost., dall'altro ai mutamenti epocali della giurisprudenza costituzionale e di legittimità in tema di tutela dei diritti inviolabili della persona e nello specifico del diritto alla salute.
Nella nuova ottica solidaristica, il pagamento del premio non costituisce più il corrispettivo integrale della copertura assicurativa garantita con l'esonero, ma un onere contributivo, analogo a quello previdenziale, posto a carico del datore di lavoro, chiamato parzialmente a partecipare alla scelta di una socializzazione del rischio professionale estesa anche al danno biologico.
In ogni caso l'applicazione dei criteri di accertamento civilistici non contrasta con il dettato normativo determinando in modo surrettizio l'eliminazione dell'istituto: sebbene un processo di ridimensionamento sussista, e l'opzione civilistica possa contribuire ad accentuarlo, l'esonero è destinato a sopravvivere anche a tale soluzione interpretativa, permanendo un'area limitata ma non marginale, innanzi specificata, in cui lo stesso opera in termini assoluti, ed un ambito significativo di situazioni in cui è potenzialmente destinato ad esplicare il suo effetto contenitivo della responsabilità datoriale.
Con un espresso obiettivo nomofilattico la Corte di legittimità ha colto a fondo la rilevanza epocale del mutamento ed, in risposta alle sollecitazioni di cui era destinataria da tempo, ha dettagliatamente e compiutamente analizzato tutti gli aspetti della questione, offrendo agli interpreti una soluzione a cui è difficile far mancare una piena e convinta adesione per la lucidità dell'analisi e la persuasività degli elementi logico-giuridici posti a fondamento della motivazione.
Senza tralasciare nessun profilo, né gli argomenti a favore né quelli contrari, in presenza di due possibili soluzioni interpretative, la S.C. ha enunciato un principio di diritto che, in continuità con una evoluzione già intrapresa in sede di legittimità, consente la massima espansione di diritti costituzionalmente tutelati, evitando che la tutela integrale di diritti inviolabili del lavoratore venga inutilmente compressa, ostacolandolo nell'integrità del ristoro del danno differenziale nel momento di massima debolezza in cui viene leso da un infortunio sul lavoro o da una malattia professionale, per giunta imputabili alla responsabilità datoriale; analoga protezione costituzionale è stata infine riconosciuta all'Istituto che agisce in regresso, costituendo tale azione uno strumento indispensabile per il finanziamento e dunque per l'effettività dell'assicurazione sociale.
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Sommario
L'accertamento in sede civile della rilevanza penale del fatto generatore di un danno al lavoratore: l'ambito di rilevanza della questione
L'esonero: le ragioni storiche di una crisi
I criteri di accertamento della illiceità penale del fatto: due tesi a confronto
La giurisprudenza di legittimità: un contesto in movimento