Equa riparazione: quando si intende iniziato il “processo”?
30 Novembre 2020
Le censure del giudice a quo. La pronuncia in commento trae origine dalla questione di legittimità costituzionale dell'art. 2, comma 2-bis, l. n. 89/2001 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell'articolo 375 del codice di procedura civile), nel testo novellato nel 2012, nella parte in cui prevede che, ai fini del computo della durata ragionevole, il processo penale si considera iniziato con l'assunzione della qualità di parte civile in capo alla persona offesa dal reato. Secondo il giudice a quo, la disposizione impugnata violerebbe l'art. 117, comma 1, Cost., in relazione all'art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (CEDU). In particolare, il rimettente ritiene che la norma censurata si ponga in contrasto con la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo (Corte EDU, 7 dicembre 2017, Arnoldi contro Italia), secondo cui, nel diritto italiano, la posizione della parte lesa che, in attesa di potersi costituire parte civile, abbia esercitato almeno uno dei diritti e facoltà ad essa riconosciuti dalla legislazione interna, non differisce, per quanto riguarda l'applicabilità dell'art. 6 CEDU, da quella della parte civile.
Equa riparazione: il “processo” comprende anche le precedenti attività procedimentali. La pronuncia in commento richiama il precedente (Corte Cost., n. 184/2015) con il quale la Consulta ha ritenuto fondata la questione di legittimità costituzionale della disposizione oggi impugnata nella parte in cui la medesima prevedeva che il processo penale si considerasse iniziato con l'assunzione della qualità di imputato, ovvero quando l'indagato avesse avuto legale conoscenza della chiusura delle indagini preliminari, anziché quando l'indagato, in seguito a un atto dell'autorità giudiziaria, avesse comunque avuto conoscenza del procedimento penale a suo carico. In quella occasione, il Giudice delle leggi ha avvertito che, una volta penetrato nel nostro ordinamento, per effetto della giurisprudenza europea e con valore di fonte sovra-legislativa, il principio che collega alla lesione del diritto alla ragionevole durata del processo, sancito dall'art. 6 della CEDU, una pretesa riparatoria nei confronti dello Stato, viene da sé che l'equa riparazione abbia ad oggetto, non soltanto la fase che la normativa nazionale qualifica “processo”, ma anche le attività procedimentali che la precedono, ove idonee a determinare il danno al cui ristoro è preposta l'azione. La nozione di “processo” è, quindi, autonoma dalle ripartizioni per fasi dell'attività giudiziaria finalizzata all'accertamento dei reati, per come viene disegnata dal legislatore nazionale. Pertanto, ai fini del diritto ad un indennizzo per l'eccessiva pendenza dell'accusa, il processo penale si considera iniziato già quando l'indagato, in seguito a un atto dell'autorità giudiziaria, abbia avuto conoscenza del procedimento penale a suo carico.
Giudizio civile e giudizio penale sono autonomi. La disposizione impugnata ha provveduto a determinare la congruità del termine di durata del processo penale per la persona offesa dal reato, considerandolo iniziato soltanto da quando la stessa assume la qualità di parte civile. L'assetto generale del processo, posto a base del codice di procedura penale del 1988, è ispirato all'idea della separazione dei giudizi, penale e civile, essendosi rivelata prevalente, nel disegno del legislatore, l'esigenza di speditezza e di sollecita definizione dei processi rispetto all'interesse del soggetto danneggiato di avvalersi del processo penale ai fini del riconoscimento delle sue pretese di natura civilistica (Corte cost., n. 353/1994 e Corte cost. n. 192/1991). L'intervento nel processo penale della parte civile, invero, trova giustificazione, oltre che nella necessità di tutelare un legittimo interesse della persona offesa dal reato, nell'unicità del fatto storico, valutabile sotto il duplice profilo dell'illiceità penale e dell'illiceità civile, realizzando così, non solo un'esigenza di economia dei giudizi, ma anche evitando un possibile contrasto di pronunce. Tuttavia, l'azione per il risarcimento o le restituzioni ben può avere ab initio una propria autonomia nella naturale sede del giudizio civile, con un iter del tutto indipendente rispetto al giudizio penale, senza che sussistano quei condizionamenti che, viceversa, la legge impone nel caso in cui si sia preferito esercitare l'azione civile nell'ambito del procedimento penale, e che sono giustificati dal fatto che oggetto dell'azione penale è l'accertamento della responsabilità dell'imputato (Corte cost., n. 532/1995). Il disegno del legislatore italiano del codice di procedura penale del 1988 guarda, pertanto, alla persona offesa, quale soggetto eventuale del procedimento o del processo, e non quale parte principale e necessaria (Corte cost., n. 254/2011 e Corte cost., n. 339/2008).
La giurisprudenza della Corte EDU. Il dubbio sulla legittimità costituzionale della disposizione censurata muove dall'interpretazione emersa nella sentenza Arnoldi della Corte europea dei diritti dell'uomo, secondo la quale, nel diritto italiano, la posizione della parte lesa che, in attesa di potersi costituire parte civile, abbia esercitato almeno uno dei diritti e facoltà ad essa riconosciuti dalla legislazione interna, non differisce, ai fini dell'osservanza del canone del giusto processo in ambito convenzionale, da quella della parte civile. In questa sentenza, la Corte EDU ha ribadito che l'applicabilità dell'art. 6, paragrafo 1, della Convenzione non può dipendere dal riconoscimento dello status formale di “parte” ad opera del diritto nazionale, che lo spirito della Convenzione impone di non intendere il termine “contestazione” in un'accezione troppo tecnica e di darne una definizione materiale piuttosto che formale, e che non è determinante per la tutela convenzionale la data del deposito della domanda di risarcimento. Ciò che piuttosto è apparso decisivo alla Corte EDU è stato verificare: a) se, nel caso deciso, la ricorrente avesse inteso, in sostanza, ottenere la tutela del suo diritto civile o far valere il suo diritto a una riparazione nell'ambito del procedimento penale; b) se l'esito della fase delle indagini preliminari fosse stato determinante per il diritto di carattere civile in causa.
Persona offesa dal reato: ai fini del risarcimento per eccessiva durata, conta la costituzione di parte civile. Ad avviso della Consulta, la valenza strettamente personale, e non patrimoniale, della qualità della persona offesa nel nostro ordinamento ed i diritti alla stessa riconosciuti nel corso delle indagini preliminari risultano estranei all'ambito del “diritto di carattere civile in causa” di cui all'art. 6 della Convenzione. Il sistema italiano vigente, giacché ispirato all'idea della separazione dei giudizi, scongiura ogni automatica incidenza determinante dell'esito delle indagini preliminari, semmai di eccessiva durata, sul “diritto di carattere civile” del danneggiato da reato, sempre tutelabile con la proposizione dell'azione restitutoria o risarcitoria innanzi al giudice civile. L'interferenza degli approdi del processo penale sulla pretesa civile di danno, ai sensi degli artt. 75 e 652 c.p.p., discende, piuttosto, unicamente dalla scelta che il danneggiato compie proprio mediante la costituzione di parte civile, la quale configura l'unico modo di esercizio dell'azione civile nel processo penale stesso. Pertanto, la soluzione adottata dalla norma impugnata – secondo cui, ai fini del computo del termine ragionevole, il processo penale si considera iniziato soltanto con l'assunzione della qualità di parte civile – si rivela coerente con la ricostruzione sistematica che, prima e al di fuori della formale instaurazione del rapporto processuale, nega al danneggiato la facoltà di far valere in sede penale, sia pur soltanto in senso sostanziale, il “diritto di carattere civile” al risarcimento. I profili attinenti all'accertamento di una qualche responsabilità correlata ai ritardi o alle inerzie nell'adozione o nella richiesta dei provvedimenti necessari a prevenire o reprimere comportamenti penalmente rilevanti esulano, peraltro, dalle finalità perseguite dai rimedi avverso la violazione del diritto al rispetto del termine ragionevole del processo di cui all'art. 6, paragrafo 1, CEDU, trovando appropriata ed effettiva risposta mediante ricorso ad altre azioni e in altre sedi. Per questi motivi, il Giudice delle leggi esclude la prospettata violazione costituzionale.
*Fonte: www.dirittoegiustizia.it
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