Le insidie degli errori nella scelta del rito (opposizione a d.i. e impugnazioni)

Mauro Di Marzio
01 Dicembre 2020

La previsione di riti che si introducono con ricorso e riti che si introducono con citazione comporta l'eventualità che la parte possa incorrere in errore nella scelta dell'uno o dell'altra, errore che, di regola, non comporta alcuna ricaduta pregiudizievole sullo svolgimento del processo, attraverso il meccanismo del mutamento del rito. Se, però, si versa in ipotesi di opposizione a decreto ingiuntivo, oppure di impugnazione, l'errore nella scelta del rito può determinare la tardività dell'atto e, dunque, l'inammissibilità dell'opposizione o dell'impugnazione. L'articolo che segue esamina gli aspetti del problema, prestando attenzione alla giurisprudenza più recente, con particolare riguardo al rilievo dell'art. 4 del decreto semplificazione riti, secondo il quale, in caso di errore nella scelta del rito, gli effetti processuali della domanda si producono secondo le norme del rito pur erroneamente prescelto.
Il rito del lavoro e l'esordio del problema

Alla data dell'11 agosto 1973, che segna l'entrata in vigore del cd. «rito del lavoro», buona parte dei nostri lettori non era ancora nata e, certo, non molti esercitavano già la professione forense. A distanza di quasi mezzo secolo, incredibile ma vero, e nonostante il problema si sia posto infinite volte, ancora c'è chi rimane impigliato in una inesorabile trappola, che discende dall'adozione di un rito «sbagliato» — quello del lavoro in luogo del rito ordinario, o viceversa — in determinati contesti processuali: essenzialmente quelli dell'opposizione a decreto ingiuntivo e della proposizione dell'impugnazione in appello. E dunque, il tema è ancora di piena attualità, tenuto conto dell'elevatissimo numero di vittime che la scelta del rito «sbagliato» ha lasciato e tuttora lascia sul campo di battaglia del processo.

Il fatto è che il «rito del lavoro» non reca una disciplina del processo completa ed esaustiva, ma ne regola soltanto alcuni aspetti, tra i quali, anzitutto, la forma dell'atto introduttivo, che non è, come di regola, quella della citazione a udienza fissa, ma quella del ricorso: sicché, nel primo caso, l'attore «prende contatto» prima con la controparte, attraverso la notificazione dell'atto, poi con il giudice, al momento della costituzione; nel secondo caso, viceversa, «prende contatto» prima con il giudice, che emette un decreto di fissazione dell'udienza, e poi con la controparte, alla quale notifica l'atto introduttivo, in forma di ricorso, unitamente al decreto del giudice di fissazione dell'udienza.

Ecco allora che, se per esempio il lavoratore deve agire in giudizio nei confronti del datore di lavoro per ottenere la condanna al pagamento di differenze retributive, oppure per impugnare un licenziamento, deve depositare un ricorso e non invece notificare una citazione. E se «sbaglia»? Poco male, il rimedio sta nell'art. 426 c.p.c.: il giudice, avvedutosi che la causa introdotta con citazione ha ad oggetto materia di lavoro, dispone il passaggio dal rito ordinario al rito speciale, fissa un'udienza di discussione ed assegna un termine alle parti per il deposito di memorie con le quali esse possono mettersi al passo con il sistema di preclusioni e decadenze che caratterizza il «rito del lavoro».

Decreto ingiuntivo per crediti di lavoro e forma dell'opposizione

Ma, cosa occorre fare se invece non si tratta di introdurre ex novo una causa di lavoro, bensì di proporre, per così dire in seconda battuta, un'opposizione a decreto ingiuntivo rilasciato per un credito derivante dal rapporto di lavoro? Occorre fare una citazione o un ricorso? Il quesito non è senza ragione, perché, come si diceva, il «rito del lavoro» non reca un'apposita disciplina del decreto ingiuntivo e della relativa opposizione, sicché occorre al riguardo far capo agli artt. 633 ss. c.p.c., dettati appunto per il procedimento di ingiunzione. Ebbene, l'art. 645 c.p.c. si apre stabilendo che: «L'opposizione si propone davanti all'ufficio giudiziario al quale appartiene il giudice che ha emesso il decreto con atto di citazione notificato al ricorrente». Citazione dunque? No, senza dubbio ricorso. Il fondamentale argomento volto ad escludere che l'atto di opposizione a decreto ingiuntivo debba avere forma di citazione anziché di ricorso, con conseguente soggezione agli artt. 163 ss. c.p.c. anziché agli artt. 414 ss. c.p.c., si rinviene già nel secondo comma dello stesso art. 645 c.p.c., il quale soggiunge che: «In seguito all'opposizione il giudizio si svolge secondo le norme del procedimento ordinario davanti al giudice adito». Si seguono dunque le disposizioni che regolano il processo dinanzi al giudice adito. Ergo, materia di lavoro, rito del lavoro. Norma, quest'ultima, la quale sta a significare che l'opposizione a decreto ingiuntivo introduce un procedimento di cognizione ordinaria concernente il diritto fatto valere in via monitoria, il quale segue le regole di rito a tal riguardo previste. Quindi senza ombra di dubbio ricorso.

E se l'opponente sbaglia? Se, cioè, promuove con citazione e non con ricorso l'opposizione a decreto ingiuntivo per crediti di lavoro?

Qui, in astratto, si possono ipotizzare tre soluzioni diverse:

i) la prima, draconiana, è che, se la forma è sbagliata, non c'è più nulla da fare, non c'è sanatoria possibile, ed è come se, in buona sostanza, l'opposizione non fosse stata neanche proposta;

ii) la seconda, intermedia, è che la citazione è comunque idonea ad introdurre il giudizio di opposizione, e cioè, in sostanza, che il ricorso e la citazione sono fungibili, interscambiabili, sempre però che venga rispettato il termine di 40 giorni per l'opposizione previsto dall'art. 641 c.p.c., e dunque che la citazione, utilizzata per «sbaglio», venga depositata in cancelleria entro il 40º giorno dalla notificazione del decreto ingiuntivo, termine entro cui avrebbe dovuto essere depositato il ricorso;

iii) la terza, lassista, è che non solo la citazione è idonea ad introdurre il giudizio di opposizione, ma è sufficiente che essa sia notificata, e non anche depositata, entro i 40 giorni.

La S.C. ha adottato tutte e tre le soluzioni.

Quella più severa, la prima, si è manifestata attraverso l'affermazione del principio, che, se non vado errando, fa alquanto evidentemente a pugni col buon senso, secondo cui, una volta notificata la citazione in opposizione a decreto ingiuntivo per crediti di lavoro, l'opponente deve non solo depositare l'atto notificato entro il 40º giorno, ma entro quella scadenza lo deve anche ri-notificare, unitamente al decreto di fissazione dell'udienza (Cass. civ., 11 luglio 1979, n. 4010), come se la prima notificazione non ci fosse stata affatto. Cosa che, evidentemente, alla remota epoca in cui questo indirizzo si è manifestato, epoca nella quale la notificazione era fatta pressoché esclusivamente in forma cartacea dall'ufficiale giudiziario o a mezzo posta, ed occorreva che si fosse perfezionata entro il termine, aveva ben poche possibilità di realizzarsi in concreto.

Altre volte si è detto che, se l'opposizione è proposta nelle forme della citazione, essa deve ritenersi tempestiva se notificata nel termine previsto dalla legge perché, quando è prescritto il rito del lavoro, l'erronea instaurazione del giudizio nelle forme ordinarie determina soltanto il provvedimento ordinatorio di mutamento del rito (Cass. civ., 13 settembre 1995, n. 9664, peraltro in fattispecie particolare, di opposizione avverso il decreto di affrancazione da enfiteusi).

L'indirizzo consolidato

Certo però è che l'indirizzo non solo prevalente, ma ormai da decenni ampiamente consolidato (con un solo tentennamento concernente l'impugnazione delle delibere assembleari di condominio, di cui dirò in chiusura) è quello, diciamo così, intermedio, che possiamo riassumere in questi termini: nel conflitto tra la «forma ipotetica» (la forma prescritta dalla legge, nel nostro caso quella del ricorso) e la «forma concreta» (la forma erroneamente utilizzata dall'opponente a decreto ingiuntivo, ossia quella della citazione), l'errore nella scelta della forma dell'atto di opposizione non conta di per sé nulla, giacché ad esso si ovvia attraverso l'ordinanza di mutamento del rito, ma la tempestività dell'opposizione si valuta avuto riguardo alla «forma ipotetica», e non alla «forma concreta». Dunque, l'opponente a decreto ingiuntivo per crediti di lavoro può sì avvalersi della citazione, pur erroneamente, in luogo del ricorso, ma la deve depositare entro 40 giorni dalla notificazione del decreto ingiuntivo, allo stesso modo in cui avrebbe effettuato il deposito se non fosse incorsa nell'errore.

Il principio nel campo delle impugnazioni

E, come dicevo poc'anzi, il problema si pone in termini analoghi in materia di impugnazioni: del resto, anche l'opposizione a decreto ingiuntivo possiede una natura sia pure in senso lato impugnatoria, giacché, se non è proposta, come è noto, il decreto ingiuntivo, secondo la giurisprudenza della S.C., passa in giudicato (v. p. es. tra le tantissime di recente Cass. civ., 24 settembre 2018, n. 22465).

Proprio in materia di impugnazioni la S.C., a Sezioni Unite (Cass. civ., Sez. Un., 8 novembre 2018, n. 28575: si trattava di protezione internazionale), ha recentemente spiegato, a me pare in modo chiarissimo, perché non può essere seguito l'indirizzo più largheggiante, quello secondo cui, ai fini della tempestività, occorre far riferimento alla «forma concreta», e cioè considerare tempestiva l'opposizione-impugnazione fatta col rito «sbagliato», se è tempestiva secondo le regole previste per il rito adottato per «sbaglio»: non può essere seguito perché prescinde da un dato evidente, e cioè che la forma dell'impugnazione, come pure dell'opposizione, non consiste soltanto nell'aver redatto l'atto come citazione oppure come ricorso, ma anche nell'aver «preso contatto» col giudice (ovvero con la controparte, nel caso opposto in cui si sia utilizzato il rito del lavoro in luogo di quello ordinario) entro un dato termine.

Hanno affermato le Sezioni Unite: «Quando il legislatore regola l'esercizio del diritto di impugnazione prescrivendo che l'atto di esercizio debba realizzare la "presa di contatto" con il giudice e quando lo regola prescrivendo invece che detto atto debba realizzare la "presa di contatto" con la controparte tramite la notificazione … la prescrizione della forma da osservare entro il termine di impugnazione è fatta a pena di inammissibilità, il che implica che l'onere formale è relativo ad un'attività che indefettibilmente doveva compiersi nel termine». In altri termini, «l'osservanza del termine è essa stessa parte della forma voluta dal legislatore e, dunque, dev'essere rispettata». Ed in definitiva, «le tesi dottrinali che danno rilevanza agli apporti successivi alla scadenza del termine di impugnazione in quanto realizzatori in via di equipollenza della forma contenutistica che non si è osservata con l'atto di esercizio dell'impugnazione non sembrano preoccuparsi in alcun modo del fatto che l'inosservanza delle forme può essere rimediata attraverso il meccanismo del raggiungimento dello scopo soltanto se l'attività successiva all'atto non rispettoso della forma prescritta assicuri ciò che avrebbe assicurato il rispetto della forma ma lo faccia entro il termine di impugnazione, che è esso stesso requisito formale e lo è a pena di inammissibilità».

L'impatto pratico del problema oggi

Detto questo, la soluzione adottata, ferma da decenni, se non proprio dall'epoca di introduzione del «rito del lavoro», ha nel corso del tempo cambiato sensibilmente di impatto pratico. Negli anni 80 del secolo scorso, un opponente a decreto ingiuntivo per crediti di lavoro (o un appellante) non usava normalmente scadenzare l'atto al 40º giorno (o all'ultimo giorno previsto in caso di impugnazione), ma lo metteva in agenda qualche giorno prima: e ciò per l'ovvia considerazione che, all'epoca, non vigeva la regola della scissione dei momenti perfezionativi della notificazione, e dunque non bastava passare l'atto all'ufficiale giudiziario all'ultimo momento, ma occorreva che il procedimento di notificazione si fosse completato entro il termine utile. Era dunque nella pratica possibile, anche se non proprio probabilissimo, che l'opponente notificasse l'opposizione a decreto ingiuntivo con citazione anziché con ricorso, tanto per dire, quattro-cinque giorni prima dell'ultimo giorno, e poi in quei quattro-cinque giorni andasse in cancelleria a costituirsi: così depositando l'atto, e proponendo perciò l'opposizione, tempestivamente.

Oggi non è più così. Con l'affermarsi della scissione tra i momenti perfezionativi della notificazione, ed in ogni caso con l'avvento della notifica telematica, che si può fare con successo, grazie all'apporto della Corte costituzionale, alle 23.59.59 dell'ultimo giorno disponibile, le possibilità che l'avvocato, errando nella scelta del rito, dopo aver notificato la citazione tempestivamente, la depositi anche tempestivamente, sono realisticamente pari a zero. Se vogliamo, quindi, il problema, quanto a ricadute pratiche, è addirittura più caldo ora di allora.

I tentativi di modificare l'assetto giurisprudenziale

Di qui i reiterati tentativi, anche recenti, da parte di avvocati rimasti impigliati nella trappola, di abbattere il muro della giurisprudenza della S.C. di cui ho brevemente dato conto, perlopiù appellandosi alla consueta declinazione dei sacri principi del giusto processo nonché della strumentalità del processo civile rispetto alla sostanza del diritto in contesa, in pieno accordo con buona parte della dottrina. Tentativi che hanno in più occasioni coinvolto anche la Corte costituzionale, che però ha sempre sbattuto la porta in faccia al giudice remittente che, di volta in volta, denunciava l'incostituzionalità del «diritto vivente» elaborato dalla giurisprudenza.

L'obiezione, a fronte di simili iniziative, potrebbe essere: ma non sarebbe stato meglio per l'opponente preoccuparsi per tempo del rito applicabile, invece di essere costretto ad arrampicarsi sugli specchi per dire ex post che una citazione depositata tardivamente, vale quanto un ricorso invece tempestivo? Tanto più che, a dire il vero, la trappola non dovrebbe ormai sorprendere più nessuno, visto che se ne fa applicazione da mezzo secolo, e dunque, come le sedicenti sardine, nessuno vi dovrebbe più abboccare.

Opposizione a decreto ingiuntivo e crediti da locazione

Le cose però in effetti non stanno proprio così. Credo sia oggi molto raro che la trappola riesca ad ingannare un opponente a decreto ingiuntivo per crediti di lavoro. Ma il «rito del lavoro» si applica oggi ben al di là della materia del lavoro. Ad esempio si applica alle locazioni, ex art. 447-bis c.p.c. (per l'applicazione dello stesso congegno alle locazioni v. Cass. civ., 1° giugno 2000, n. 7263; Cass. civ., 2 gennaio 1998, n. 8). Ed in quel caso possono anche sorgere dubbi tutt'altro che peregrini sulla questione se un determinato credito sorga o no da un rapporto di locazione e se, dunque, l'opposizione a decreto ingiuntivo debba o non debba farsi nelle forme del «rito locatizio». Ad esempio, risponda il lettore a questo quesito: il decreto ingiuntivo che ho ottenuto nei confronti del fideiussore del locatore ha o no ad oggetto un credito che sorge dal contratto di locazione? Per chi non ha pronta la risposta dirò che la S.C. sostiene che in questo caso non si applica il «rito locatizio», e motiva l'affermazione a partire dal carattere di accessorietà della fideiussione (da ult. Cass. civ., 8 novembre 2019, n.28827). Devo dire che ho fatto per molti anni il giudice delle locazioni, ed in quel tempo sostenevo la soluzione esattamente opposta, proprio a partire dal carattere di accessorietà della fideiussione. E, certo, in un caso del genere si può sbagliare sia in un senso che nell'altro: e cioè si può usare la citazione, seguendo la Cassazione, ed incocciare nel giudice che dà motivatamente una lettura ampia e onnicomprensiva dell'art. 447-bis c.p.c.; ma si può anche usare a ragion veduta il ricorso, ritenendo che la fideiussione segua il rapporto principale anche riguardo al rito applicabile, ed incocciare nel giudice che la pensa invece come la Cassazione. Sicché, in questi casi dubbi, non c'è in realtà che un mezzo sicuro al 100%: nel termine di 40 giorni, alternativamente, usare la citazione e, dopo la notificazione, rispettare anche il termine per il deposito, ovvero (ma è molto più pericoloso, perché bisogna fidare nella tempestività del decreto di fissazione dell'udienza) usare il ricorso e rispettare il termine per la notificazione. Certo, si rischia l'ordinanza di trasformazione del rito, che fa perdere tempo, ma non si rischia la dichiarazione di inammissibilità.

Un vecchio intervento della Consulta

Un primo tentativo, per la verità (a me pare) piuttosto rudimentale, di attaccare la soluzione giurisprudenziale sotto il profilo della sua costituzionalità, è consistito nell'invocazione di una sorta di principio dell'affidamento: si è detto cioè che il decreto ingiuntivo dovrebbe avvisare l'ingiunto della forma da adottare per l'opposizione e che, in mancanza, varrebbe la citazione.

Ma, com'è abbastanza intuitivo, il giudice delle leggi ha dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 641 c.p.c., per asserito contrasto con i canoni costituzionali di garanzia del diritto di difesa e di buon andamento nell'amministrazione della giustizia, nella parte in cui non prevede che il decreto ingiuntivo pronunciato nelle materie di cui all'art. 447-bis c.p.c. debba indicare all'ingiunto quali siano le modalità dell'opposizione (Corte cost. 24 maggio 2000, n. 152).

E già in precedenza la S.C. aveva escluso che l'indicazione del rito da applicare in sede di opposizione potesse costituire requisito del decreto ingiuntivo, essendo onere della parte interessata provvedere alla sua individuazione (Cass. civ., 2 gennaio 1998, n. 8). L'argomento, ridotto in termini brutali, è semplice: la difesa tecnica è affidata ad un avvocato? E allora è lui che se la deve vedere ad individuare il rito da applicare nell'opposizione a decreto ingiuntivo o nell'impugnazione, o dove che sia.

L'art. 4 del decreto semplificazione riti

Più sofisticato, e meno scontato nell'esito, è stato il tentativo di sfruttare il dettato dell'art. 4 d.lgs. 1° settembre 2011, n. 150, sulla semplificazione dei riti, il quale, sotto la rubrica «Mutamento del rito», stabilisce che, quando una controversia viene promossa in forme diverse da quelle previste dallo stesso decreto legislativo, il giudice dispone il mutamento del rito con ordinanza e che: «Gli effetti sostanziali e processuali della domanda si producono secondo le norme del rito seguito prima del mutamento».

La norma, evidentemente, dice il contrario di quello che dice la Cassazione: secondo quest'ultima la tempestività va verificata in conformità alla «forma ipotetica»; secondo il decreto semplificazione riti — giacché gli effetti processuali della domanda si producono secondo le norme del rito «sbagliato» — la tempestività va verificata in base alla «forma concreta».

Decreto ingiuntivo per prestazioni professionali di avvocato e opposizione

Dunque, prendiamo il caso dell'iniziativa giudiziaria intrapresa dall'avvocato per farsi pagare dal cliente. Sappiamo che il professionista può seguire due strade: agire con il ricorso in sommario, ai sensi dell'art. 702-bis c.p.c., secondo la previsione dell'art. 14 del decreto semplificazione riti; agire con il ricorso per decreto ingiuntivo, riversando sul cliente l'onere dell'opposizione, che va fatta anch'essa con ricorso ex art. 702-bis c.p.c. Difatti, come è stato anche da ultimo ribadito, la controversia relativa alla liquidazione dell'onorario dell'avvocato può essere introdotta sia con ricorso ex art. 702-bis c.p.c. (con conseguente procedimento sommario «speciale» di cui al combinato disposto dell'art. 14, commi 3 e 4 d.lgs. n. 150/2011) oppure con il procedimento per decreto ingiuntivo ai sensi degli artt. 633 e ss. c.p.c. In entrambi i casi la procedura resta soggetta alle regole procedimentali di cui all'art. 14 d.lgs. n. 150/2011 (Cass. civ., 18 settembre 2019, n. 23259; Cass. civ., 24 gennaio 2019, n. 2045; il tutto sulla scia di Cass. civ., Sez. Un., 23 febbraio 2018, n. 4485).

Poniamo che l'avvocato abbia agito con ricorso monitorio. In questo caso, l'opposizione ex art. 645 c.p.c. avverso l'ingiunzione ottenuta dall'avvocato nei confronti del proprio cliente ai fini del pagamento degli onorari e delle spese dovute, ai sensi del combinato disposto dall' art. 28 della l. n. 794/1942 (la legge professionale forense), art. 633 c.p.c. e art. 14 d.lgs. n. 150/2011, proposta con atto di citazione, anziché con ricorso ai sensi dell'art. 702-bis c.p.c. e dell'art. 14 d.lgs. n. 150/2011, è da reputare utilmente esperita qualora la citazione sia stata comunque notificata entro il termine di quaranta giorni — di cui all'art. 641 c.p.c. — dal dì della notificazione dell'ingiunzione di pagamento. In tale evenienza, ai sensi dell'art. 4, comma 5, d.lgs. n. 150/2011, gli effetti sostanziali e processuali correlati alla proposizione dell'opposizione si producono alla stregua del rito tempestivamente attivato, ancorché erroneamente prescelto, per cui il giudice adito deve disporre con ordinanza il mutamento del rito, ai sensi dell'art. 4, comma 1, d.lgs. n. 150/2011 (Cass. civ., 26 settembre 2019, n. 24069; Cass. civ., 14 maggio 2019, n. 12796). Mutamento del rito che, nelle ipotesi in cui l'opposizione al decreto ingiuntivo venga introdotto con citazione anziché con ricorso, può avvenire, anche d'ufficio, non oltre la prima udienza di comparizione delle parti (Cass. civ., 9 gennaio 2020, n. 186).

Introdotto nell'ordinamento il citato art. 4 del decreto semplificazione riti, il quale valorizza la «forma concreta» rispetto alla «forma ipotetica», quella che l'interessato avrebbe dovuto adottare nel rispetto della legge, vi è stato chi ha provato a sostenere, sia in dottrina che nelle aule giudiziarie, che la norma avrebbe travolto, in tutti i campi, l'orientamento giurisprudenziale finora riassunto. Si è detto in breve che l'art. 4 avrebbe portata di norma generale; che avrebbe determinato l'abrogazione per incompatibilità degli artt. 426, 427 e 439 c.p.c., che regolano il mutamento del rito, in primo grado e in appello, secondo il «rito del lavoro»; che, comunque, la nuova norma introdurrebbe una disparità di trattamento ingiustificabile sul piano costituzionale.

Il limitato ambito di applicazione della norma

Il tentativo non ha avuto alcun successo. Torniamo ad esempio alle locazioni. La S.C. ha stabilito che l'opposizione a decreto ingiuntivo concesso in materia di controversie locatizie, come tale soggetta al rito speciale di cui all'art. 447-bis c.p.c., che sia erroneamente proposta con citazione, deve ritenersi tempestiva, se entro il termine di cui all'art. 641 c.p.c. avvenga l'iscrizione a ruolo mediante deposito in cancelleria dell'atto di citazione, non potendo trovare applicazione l'art. 4 d.lgs. n. 150/2011, il quale concerne i giudizi di primo grado erroneamente introdotti in forme diverse da quelle prescritte da tale decreto legislativo e non anche i procedimenti di natura impugnatoria, come l'opposizione a decreto ingiuntivo (Cass. civ., 12 marzo 2019, n. 7071).

Più in generale, l'art. 4 d.lgs. n. 150/2011, che disciplina il mutamento del rito in caso di controversia promossa in forme diverse da quelle previste nel medesimo decreto, concerne esclusivamente il ben determinato ambito di applicazione del testo normativo in cui è inserito, il quale non attiene a quanto era già disciplinato dal codice di rito all'epoca della sua emanazione, bensì a varie norme speciali che attribuivano alla fattispecie sostanziale delle peculiarità processuali, e ciò al fine di raggrupparle in tre modalità (il rito ordinario, il rito del lavoro ed il rito sommario), in un'ottica semplificativa-efficientistica, ovvero acceleratoria; ne deriva che il citato art. 4 non costituisce una norma generale abrogativa e sostitutiva delle norme specifiche di cui agli artt. 426 e 427 c.p.c., rispetto alle quali si pone come eccezione nei soli casi, compresi appunto nel decreto, in cui non sia stato fatto riferimento espresso a quelle che rimangono le due norme generali di coordinamento tra rito ordinario e rito lavoristico/locatizio (Cass. civ., 25 maggio 2018, n. 13072).

Ancora, il citato art. 4 non può essere applicato per rimediare alla scelta del rito in appello. Così, l'impugnazione dell'ordinanza conclusiva del giudizio sommario di cui all'art. 702-ter c.p.c. può essere proposta esclusivamente nella forma ordinaria dell'atto di citazione, non essendo espressamente prevista dalla legge l'adozione del rito sommario per il secondo grado di giudizio; né è possibile, nel caso di appello introdotto mediante ricorso, la salvezza degli effetti dell'impugnazione, mediante lo strumento del mutamento del rito, previsto dall'art. 4, comma 5, d.lgs. n. 150/2011 (Cass. civ., 10 aprile 2018, n. 8757). Parimenti, il giudizio di opposizione al verbale di accertamento di violazione di norme del codice della strada, instaurato successivamente all'entrata in vigore n. 150/2011, è soggetto al rito del lavoro, sicché l'appello avverso la sentenza di primo grado, da proporsi con ricorso, è inammissibile ove l'atto sia stato depositato in cancelleria (oltre il termine di decadenza di trenta giorni dalla notifica della sentenza ovvero, in caso di mancata notifica) oltre il termine lungo di cui all'art. 327 c.p.c., anche laddove il gravame sia stato irritualmente proposto con citazione, assumendo in tal caso comunque rilievo solo la data di deposito di quest'ultima, giacché non può trovare applicazione, onde superare la decadenza maturata a carico dell'appellante, l'art. 4, comma 5, del citato d.lgs., riferendosi tale norma esclusivamente al mutamento del rito disposto in primo grado e non già in appello (Cass. civ., 2 agosto 2017, n. 19298; Cass. civ., 18 agosto 2016, n. 17192).

Ancora la Consulta

Ecco dunque l'esigenza di battere nuovamente la strada della questione di costituzionalità. Ma anche qui senza successo. La Corte costituzionale (Corte cost. 2 marzo 2018, n. 45) ha prevedibilmente dichiarato inammissibile la questione sollevata, ritenendo che la soluzione della giurisprudenza di legittimità, secondo cui la produzione degli effetti sostanziali e processuali della domanda, nel caso di mutamento del rito, deve essere fissata al momento in cui si sarebbe determinata la litispendenza, in base alla forma che l'atto avrebbe dovuto avere, anziché alla forma errata che in concreto ha avuto, non sia manifestamente irragionevole: si entra cioè nell'ambito della discrezionalità del legislatore, che è sottratta al sindacato di costituzionalità.

Deliberazioni assembleari

Una chiosa finale sull'impugnazione delle delibere assembleari di condominio. Una pronuncia delle sezioni unite (Cass. civ., Sez. Un., 14 aprile 2011, n. 8491), ha affermato che il termine «ricorso» allora adoperato nell'art. 1137 c.c. non dovesse essere inteso in senso tecnico, e non imponesse cioè una determinata forma dell'atto introduttivo, bensì nel significato generico di istanza al giudice, con la conseguenza che per le impugnazioni delle delibere condominiali dovessero essere introdotte con citazione, aggiungendo che, nel caso di errore sulla forma dell'atto introduttivo, l'impugnazione dovesse considerarsi tempestiva, a condizione che entro il termine previsto dall'art. 1137 c.c. il ricorso fosse depositato nella cancelleria del giudice adito, indipendentemente dalla data in cui esso fosse notificato al convenuto, unitamente al decreto di fissazione dell'udienza. E ciò perché l'adozione della forma del ricorso è idonea al raggiungimento dello scopo di istituire il rapporto processuale. Tuttavia la sentenza, riferita alla previsione dell'art. 1137 c.c., mira allo scopo di realizzare la sanatoria a favore dell'impugnante che si sia rifatto al tenore letterale della norma, che, fino all'entrata in vigore dell'art. 15 del decreto semplificazione riti, adottava l'equivoca espressione «ricorso». Sicché, infine, Cass. civ., Sez. Un., 10 febbraio 2014, n. 2907, ha chiarito che la pronuncia sull'art. 1137 c.c. non contraddiceva, ma anzi confermava il monolitico indirizzo prima esaminato.

Una mesta conclusione

In conclusione, quando debba proporre un'opposizione a decreto ingiuntivo (al di fuori del campo regolato dal decreto semplificazione riti), o anche un'impugnazione, l'avvocato non ha che una strada: riflettere prima, e non dopo, su quale rito impiegare. E se l'incertezza permane, come si diceva, rispettare il termine sia in riferimento all'uno che all'altro rito.

Riferimenti
  • Balbi, Ingiunzione (procedimento di), in Enc. giur., XVII, Roma, 1997, 23;
  • Balena, Le conseguenze dell'errore sul modello formale dell'atto introduttivo (traendo spunto da un obiter dictum delle Sezioni unite), in Giusto proc. civ., 2011, 647;
  • Lupano, Sull'introduzione del processo secondo un modello formale errato, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2015, 121;
  • Poli, Le sezioni unite sul regime del ricorso proposto erroneamente al posto della citazione e viceversa, in Riv. dir. proc., 2014, 1201, spec. 1207;
  • Ronco, Pluralità di riti e fase introduttiva dell'opposizione a decreto ingiuntivo, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2001, 433;
  • Valitutti-De Stefano, Il decreto ingiuntivo e la fase di opposizione, Padova, 2000, 1121.
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