La Cassazione moltiplica i mezzi di intercettazione ed esclude controlli sul virus trojan
04 Dicembre 2020
I principi enunciati
Davvero deludente la pronuncia della Corte di cassazione che ammette l'impiego di diversi mezzi di intercettazione nei confronti dello stesso soggetto ma, soprattutto, esclude il controllo del giudice e delle parti sull'operatore e sulle modalità di installazione e di esercizio del captatore informatico.
Infatti, la sentenza afferma i seguenti principi di diritto:
La moltiplicazione degli strumenti di intercettazione
La Corte di cassazione ritiene legittima la sovrapposizione di nuovi decreti autorizzativi di intercettazione tramite trojan ad altri già in corso e in esecuzione nei confronti dello stesso soggetto mediante strumenti tradizionali di captazione delle conversazioni. La Corte di legittimità sostiene, infatti, che «la disposizione di un diverso decreto di intercettazione sul medesimo bersaglio/dispositivo elettronico colpito dalle investigazioni, motivata dalla necessità di far ricorso, per ragioni investigative, allo strumento di captazione informatica sviluppato tramite virus trojan, configura, un nuovo ed autonomo mezzo di ricerca della prova, perfettamente legittimo in presenza del rispetto dei presupposti di legge per la sua autorizzazione, che non presenta interferenze con le intercettazioni telefoniche e/o ambientali già disposte con i mezzi ordinari, pur se l'oggetto sul quale sono stati installati i captatori informatici coincide con quello su cui sono state disposte altre intercettazioni». La pronuncia arriva a dedurre dal sistema normativo un “principio”, che sarebbe basato, oltre che sull'analisi del dato normativo che non prevede preclusioni di sorta per tale ipotesi, su alcune constatazioni della disciplina "di sistema" delle intercettazioni, ricavate dalla giurisprudenza della stessa Corte di cassazione. Secondo la Corte di legittimità è ben possibile, da parte dell'autorità giudiziaria, oltre che, ovviamente, far cessare l'intercettazione già disposta prima del termine ovvero non prorogarla, anche disporla nuovamente, una volta che sia scaduto per qualsiasi ragione il termine per la proroga, dovendosi in tal caso solo giustificare la nuova intercettazione (identica per obiettivo colpito) secondo gli ordinari criteri previsti dal legislatore come presupposti per l'autorizzazione (la sentenza cita in tal senso Cass. pen. Sez. VI, 16 giugno 2005, n. 28521, Ciaramitaro, Rv. 231957) La Corte di cassazione motiva la sua conclusione richiamando la giurisprudenza di legittimità che afferma che il decreto formalmente qualificato "di proroga" dell'intercettazione, intervenuto dopo la scadenza del termine originario o già prorogato, può avere natura di autonomo provvedimento di autorizzazione all'effettuazione delle suddette operazioni, se dotato di autonomo apparato giustificativo, che dia conto della ritenuta sussistenza delle condizioni legittimanti l'intromissione nella altrui sfera di riservatezza (Così Cass. pen., Sez. V, 17 luglio 2015, n. 4572, Ambroggio, Rv. 265746). La sentenza conclude che la legittimità di sostituire l'intercettazione di un obiettivo tramite captatore informatico a quella tramite strumenti ordinari, anche sovrapponendole nei tempi e termini di autorizzazione, discenderebbe dalla diversa natura dell'attività di intercettazione mediante trojan che è più pervasiva, avendo ad oggetto il complesso dei flussi informativi afferenti ad un determinato target e ponendosi come finalità quella di arrivare alla percezione e registrazione di conversazioni, messaggi ed informazioni ulteriori rispetto a quelle captate tramite gli strumenti ordinari. E la riprova di tale “diversità” deriva dalla disciplina normativa in parte differente, che è stata prevista per regolamentare i presupposti normativi per l'autorizzazione delle intercettazioni tramite captatore informatico, secondo le regole procedimentali dettate dal legislatore del 2017. Ma la conclusione cui perviene la Corte di cassazione non può essere condivisa perché il fatto che gli strumenti di intercettazione siano diversi non giustifica la molteplice restrizione (sia che essa avvenga in contemporanea sia che si realizzi in tempi diversi) degli stessi “inviolabili” beni della libertà domiciliare e della segretezza delle comunicazioni. Una tale moltiplicazione di intercettazioni nei confronti dello stesso soggetto non può consentirsi perché l'impiego del virus trojan costituisce un'eccezione e, in quanto tale, è ammesso quando il ricorso ad altri strumenti di intercettazione non è possibile, per cui l'utilizzo del captatore informatico aggiunto all'intercettazione telefonica, di telecomunicazione o ambientale significherebbe smentire la motivazione di indispensabilità posta a sostegno del ricorso al virus trojan. Inoltre, tale moltiplicazione degli strumenti intercettativi si risolverebbe in una surrettizia elusione dei termini previsti dal legislatore per la durata delle intercettazioni, richiamati in ciascun decreto autorizzativo, che sarebbero sostanzialmente moltiplicati. La Corte di cassazione si pronuncia pure sulla questione attinente alla mancata indicazione nel verbale delle operazioni del nominativo di chi ha materialmente eseguito l'inoculazione del virus nel dispositivo elettronico portatile e dato luogo alla fase primaria e ancora più delicata della stessa installazione del software captatore, cioè quella di analisi dei dati relativi al dispositivo da intercettare. La sentenza in commento segue le indicazioni delle Sezioni Unite Scurato per concludere che la disciplina in tema di intercettazioni ambientali è omogenea a quella delle intercettazioni disposte tramite captatore informatico e da tale omogeneità deriverebbe, anzitutto, che le operazioni esecutive di installazione degli strumenti tecnici atti a captare le conversazioni tra presenti dovrebbero ritenersi implicitamente autorizzate ed ammesse con il provvedimento che dispone l'intercettazione. A tale conclusione la Corte perviene sulla scorta della giurisprudenza che afferma che la collocazione di microspie all'interno di un luogo di privata dimora, costituendo una delle naturali modalità attuative di tale mezzo di ricerca della prova, deve ritenersi implicitamente ammessa nel provvedimento che ha disposto le operazioni di intercettazione, senza la necessità di una specifica autorizzazione (in tal senso cfr. Cass. pen., Sez. VI, 31 gennaio 2011, n. 14547, Di Maggio, Rv. 250032; Cass. pen., Sez. I, 9 dicembre 2003, n. 24539, Rigato, Rv. 230097). E infatti la giurisprudenza ritiene scriminata l'attività della polizia giudiziaria di collocazione delle microspie all'interno di abitazioni private, anche se questa consiste in vere e proprie violazioni di domicilio. Secondo la Corte dovrebbe ricavarsi un “principio”, che legittima una autonomia della polizia giudiziaria nella fase dell'esecuzione dell'intercettazione, dal fatto che tale captazione è un mezzo di ricerca della prova funzionale al soddisfacimento dell'interesse pubblico all'accertamento di gravi delitti, tutelato dal principio dell'obbligatorietà dell'azione penale di cui all'art. 112 Cost., con il quale il principio di inviolabilità del domicilio previsto dall'art. 14 Cost. e quello di segretezza della corrispondenza e di qualsiasi forma di comunicazione previsto dall'art. 15 Cost. devono coordinarsi, subendo la necessaria compressione (Così Cass. pen., Sez. II, 18 febbraio 2013, n. 21644, Badagliacca, Rv. 255541; Cass. pen., Sez. I, 2 ottobre 2007, n. 38716, Biondo, Rv. 238108; Cass. pen., Sez. IV, 28.9.2005, Cornetto, n. 47331, Rv. 232777; Cass. pen., Sez. VI, 10 novembre 1997, n. 4397, Greco, Rv.210062). La pronuncia in esame aggiunge che le operazioni di collocazione e disinstallazione del materiale tecnico necessario per eseguire le captazioni costituiscono «atti materiali rimessi alla contingente valutazione della polizia giudiziaria, non essendo compito del pubblico ministero indicare le modalità dell'intrusione negli ambiti e luoghi privati ove verrà svolta l'intercettazione»; inoltre «l'omessa documentazione delle operazioni svolte dalla polizia giudiziaria non dà luogo ad alcuna nullità od inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni ambientali» (Cass. pen., Sez. VI, del 23 giugno 2017, n. 39403, Nobile, Rv. 270941; Cass. pen., Sez. VI, 25 settembre 2012, Adamo, n. 41514 Rv. 253805). La sentenza in esame si spinge a sostenere che l'autorizzazione a disporre le operazioni di intercettazioni «rende superflua l'indicazione delle modalità da seguire nell'espletamento dell'attività materiale e tecnica da parte della polizia giudiziaria, mentre la prova delle operazioni compiute nel luogo e nei tempi indicati dal giudice stesso e dal pubblico ministero è offerta dalla registrazione delle conversazioni intercettate». Ma questa è una affermazione “pilatesca” che si disinteressa del modo, più o meno legittimo, con cui la polizia giudiziaria limita la libertà domiciliare e la segretezza delle comunicazioni! La sentenza esamina anche il problema della scarsa precisione dei decreti autorizzativi nell'indicare, nel caso concreto, le modalità con le quali la polizia giudiziaria ha potuto avvalersi del personale di una ditta privata specializzata nelle attività di inserimento del trojan e l'incertezza, dovuta a mancanza di adeguata documentazione e verbalizzazione delle operazioni svolte, su quali siano state le modalità attuative dell'intercettazione poste in essere dal personale privato delegato, avendo riguardo ai rischi derivanti dal servirsi per l'installazione del trojan di personale proveniente da ditte private. Anche sul punto, la sentenza annotata richiama la giurisprudenza di legittimità che ha già chiarito come, in tema di intercettazioni telefoniche, la previsione dell'art. 267 c.p.p., secondo cui «il pubblico ministero procede alle operazioni personalmente ovvero avvalendosi di un ufficiale di polizia giudiziaria», si riferirebbe unicamente alle operazioni previste dal precedente art. 266 c.p.p., ossia alle intercettazioni di conversazioni o comunicazioni telefoniche o di altre forme di telecomunicazioni, con la conseguenza che qualsiasi altra operazione diversa, ancorché correlata, dalle suddette non rientrerebbe nella previsione normativa evocata e legittimamente, dunque, potrebbe essere svolta da personale privato (in tal senso Cass. pen., Sez. IV, 1° dicembre 2016, n. 3307, Agnotelli, Rv. 269012; Cass. pen., Sez. III, 7 gennaio 2014, n. 11116, Vita, Rv. 259744, nonché Cass. pen., Sez. VI, 23 giugno 2017, n. 39403 Nobile, cit., in motivazione). In altre parole, quando serve a sorreggere la conclusione prescelta l'operazione di intercettazione mediante virus trojan diventa “diversa” da quella telefonica o di altre forme di telecomunicazioni. Ma la sentenza contraddice sé stessa, giacché poco prima aveva affermato che «la disciplina in tema di intercettazioni ambientali è omogenea a quella delle intercettazioni disposte tramite captatore informatico», per poi contraddirsi e sostenere che l'operazione di intercettazione mediante virus trojan sarebbe “diversa” da quelle telefoniche e di altre forme di telecomunicazioni. Insomma, la Corte di cassazione, che dovrebbe censurare la manifesta illogicità delle motivazioni altrui, ci offre essa stessa una motivazione manifestamente illogica! Ma ancora più grave è l'affermazione secondo cui, anche quando il decreto autorizzativo del G.I.P. ha indicato gli strumenti da utilizzare per eseguire le captazioni, il pubblico ministero potrebbe modificarli a suo piacimento. In questo caso, la decisione del P.M. prevarrebbe su quella del giudice e addirittura sulla legge, la quale per l'impiego eccezionale del virus trojan prevede presupposti più rigorosi e modalità più restrittive rispetto alle intercettazioni tradizionali. Secondo la Corte di cassazione, la libertà domiciliare e la segretezza delle comunicazioni sarebbero affidate all'iniziativa della polizia giudiziaria, la quale avrebbe pieno e incontrollabile arbitrio di utilizzare qualsiasi operatore e qualunque mezzo per eseguire l'intercettazione, mentre il giudice e il P.M. non dovrebbero nemmeno sapere chi e come ha proceduto, cioè se in maniera più o meno legittima. Quindi alla pericolosità insita nelle potenzialità intrusive del virus trojan si aggiunge l'ulteriore insidia dell'operatore, anche privato, che rimane ignoto, e delle modalità di inoculamento, che restano sconosciute al giudice e al P.M. e sono incontrollabili dalla difesa. Conclusioni
In conclusione, ci troviamo di fronte a una pronuncia molto deludente, che, in nome dell'efficienza del processo, sacrifica la libertà domiciliare e la segretezza delle comunicazioni, la cui limitazione è in definitiva affidata all'iniziativa, incontrollabile e priva di sanzioni, della polizia giudiziaria. In sintesi, la Corte di cassazione consente che lo stesso soggetto sia “bersagliato” con più strumenti di intercettazione, ma al giudice non deve interessare chi installa e in che modo è inoculato il virus trojan,perché si tratta della fase esecutiva dell'intercettazione demandata al pubblico ministero, il quale delega la polizia giudiziaria, che però ha mano libera nell'agire, anche con modalità diverse da quelle indicate dal G.I.P.; e comunque la polizia giudiziaria potrebbe omettere qualsiasi verbalizzazione delle operazioni compiute perché tale omissione è priva di sanzione processuale. Ovviamente l'affermazione è inaccettabile, soprattutto ora che il legislatore ha previsto, nel comma 1-bis dell'art. 271 c.p.p., una specifica causa di inutilizzabilità per i «dati acquisiti nel corso delle operazioni preliminari all'inserimento del captatore informatico su dispositivo elettronico portatile» e per i «dati acquisiti al di fuori dei limiti di tempo e di luogo indicati nel decreto autorizzativo». Non resta che sperare che rimanga una pronuncia isolata e non apra la strada ad un nuovo illiberale indirizzo giurisprudenziale. |