La libertà vigilata con obbligo di residenza in comunità come misura di sicurezza per la cura e il recupero del soggetto socialmente pericoloso

Pierangelo Cirillo
23 Dicembre 2020

A distanza di dieci mesi, si sono succedute due sentenze della Suprema Corte che consolidano l'orientamento giurisprudenziale che ritiene compatibile la prescrizione dell'obbligo di residenza in una comunità terapeutica con la misura di sicurezza della libertà vigilata. A tale tipologia di misura hanno fatto ricorso i giudici di merito per far fronte a una grave problema di ordine pratico: la scarsa disponibilità, soprattutto in determinate regioni, di posti nelle REMS...
1. Abstract

A distanza di dieci mesi, si sono succedute due sentenze della Suprema Corte che consolidano l'orientamento giurisprudenziale che ritiene compatibile la prescrizione dell'obbligo di residenza in una comunità terapeutica con la misura di sicurezza della libertà vigilata (Cass. pen., Sez. I, n. 50383 del 12 novembre 2019; Cass. pen., Sez. V, n. 28575 del 14 settembre 2020).

A tale tipologia di misura (accompagnata dal divieto di allontanarsi dalla struttura) hanno fatto ricorso i giudici di merito per far fronte a una grave problema di ordine pratico: la scarsa disponibilità, soprattutto in determinate regioni, di posti nelle REMS.

I recenti pronunciamenti della Suprema Corte, tuttavia, a ben vedere, sembrano riconoscere a tali misure un ambito applicativo più ampio, che consente di far ricorso ad esse (a prescindere dalla disponibilità di posti in REMS) in tutti i casi in cui il ricovero e le conseguenti prescrizioni siano imposte dalle esigenze di cura del soggetto e, al tempo stesso, siano compatibili con le esigenze di tutela della collettività.

L'autore, dopo una breve ricostruzione delle vicende che avevano dato origine al suddetto orientamento giurisprudenziale di merito, analizza i recenti pronunciamenti della Cassazione, soffermandosi sulle condizioni che consentono di ricorrere legittimamente alla particolare misura in esame, ma anche sulle prospettive di una sua utilizzazione che vada al di là del mero rimedio alla carenza di disponibilità di posti nelle REMS.

2. La chiusura degli OPG

La libertà vigilata da eseguirsi in una comunità terapeutica è una misura di sicurezza che recentemente ha trovato un ampio spazio applicativo.

Essa già in passato aveva trovato applicazione, grazie alla sentenza della Corte Costituzionale n. 253/2003, che aveva fatto venir meno l'indefettibilità della misura di sicurezza detentiva (OPG e CCC) e consentito l'adozione della libertà vigilata (accompagnata dalle prescrizioni del caso), quando questa risultasse adeguata a far fronte alle esigenze di cura e al controllo della pericolosità sociale.

Recentemente, però, ha trovato un ben più ampio ambito applicativo, avendo i giudici di merito fatto ricorso a tale tipologia di misura (accompagnata dal divieto di allontanarsi dalla struttura) per far fronte alla scarsa disponibilità di posti nelle REMS.

Prima di analizzare questa particolare forma di libertà vigilata elaborata dai giudici di merito, appare opportuno ricordare i principali passaggi della riforma che ha portato alla graduale chiusura degli OPG e alla previsione delle REMS quali strutture per l'esecuzione dell'OPG e della CCC., tanto nel caso di applicazione definitiva che in quello di applicazione provvisoria della mds detentiva (va precisato che, mentre i vecchi OPG erano destinati a ospitare tutti i malati psichiatrici gravi in qualsiasi modo venuti a contatto con la giurisdizione penale e, dunque, anche i condannati con infermità psichica “sopravvenuta” alla condanna, al contrario le REMS, così come chiaramente indica la loro stessa denominazione, hanno come unici destinatari i malati psichiatrici che sono stati ritenuti non imputabili in sede di giudizio penale o che, condannati per delitto non colposo a una pena diminuita per cagione di infermità psichica, sono stati sottoposti a una misura di sicurezza).

Con le REMS si è spostato il baricentro delle mds dal controllo sociale alla cura e alla risocializzazione della persona. È vero che si tratta di strutture residenziali, ma all'interno di esse il soggetto viene avviato a percorsi prettamente terapeutici e riabilitativi, ad opera di personale medico e sanitario, inquadrato nel SSN. È prevista anche la vigilanza, ma è esterna. E per evitare sovraffollamenti poco compatibili con i programmi terapeutici è stato previsto che, in ogni REMS, il numero di posti non possa essere superiore a venti.

Il processo di riforma è stato lento e graduale ed ha avuto inizio con il DPCM del 1° aprile 2008, che ha previsto il passaggio alle Regioni delle competenze sanitarie attinenti agli OPG.

Non appare opportuno ricordare tutti i passaggi di tale articolato processo di riforma, ma solo quelli più importanti, realizzati con la l. n.9/2012 (d.l. n. 211/2011), che ha previsto il completo superamento degli OPG e l'istituzione delle REMS, e con la l. n. 81/2014 (d.l. n. 52/2014), che ha fissato nuovi e fondamentali principi in materia di misure di sicurezza detentive.

Tra questi ultimi, deve essere senza dubbio ricordato il principio di residualità delle misure detentive (art. 1, comma 1, l. n. 81/2014): nel caso di infermità di mente (e semi infermità), l'OPG e la CCC possono essere disposte, anche in via provvisoria, solo se ogni altra misura risulti inadeguata alle esigenze di cura e al controllo della pericolosità sociale. Già la Corte Costituzionale, con la già menzionata sentenza n. 253/2003, aveva fatto venir meno l'indefettibilità della misura di sicurezza detentiva, consentendo l'applicazione della libertà vigilata, quando questa risultasse adeguata a far fronte alle esigenze di cura e al controllo della pericolosità sociale. Ora con la riforma del 2014, l'applicazione della libertà vigilata non costituisce più solo una possibile alternativa alle misure detentive ma la regola a cui attenersi nel caso di pericolosità sociale dell'infermo di mente: le misure detentive sono rimaste come extrema ratio.

La più importante delle riforme è forse contenuta nell'art. 1-quater della l. n. 81/2014, con il quale si è superato il principio dell'indeterminatezza della durata della misura di sicurezza (che consentiva di mantenere in atto la misura fino a quando non fosse concretamente cessata la pericolosità del soggetto), disponendo che «Le misure di sicurezza detentive provvisorie o definitive … non possono durare oltre il tempo stabilito per la pena detentiva prevista per il reato commesso, avuto riguardo alla previsione edittale massima».

Si è dunque fissato un termine massimo per tutte le mds detentive, ancorandolo al massimo edittale previsto per il fatto di reato commesso dal soggetto, per determinare il quale, si dovranno applicare i criteri fissati nell'art. 278 c.p.p.

L'attuazione della riforma è stata molto lenta e travagliata: gli ultimi OPG sono stati effettivamente chiusi solo nel 2017, benché la normativa a regime ne avesse previsto la definitiva chiusura nell'aprile 2015; ben poche sono state le REMS realizzate e, conseguentemente, i giudici si sono trovati di fronte a una situazione di fatto ben diversa da quella presupposta dalla legge: quest'ultima imponeva loro di ricoverare in REMS il soggetto sottoposto al loro giudizio, ma concretamente non vi era disponibilità di posti in tali strutture.

3. La libertà vigilata con obbligo di residenza in comunità terapeutica

Per far fronte a tali gravissimi problemi, i giudici di merito (Napoli, Roma, Torino) hanno pensato di ricorrere alla misura di sicurezza della libertà vigilata, prevedendo, però, delle prescrizioni particolari – che includessero anche il ricovero in una struttura residenziale – in grado di soddisfare le esigenze di tutela della collettività di fronte ad un soggetto socialmente pericoloso, ma anche (e prima di tutto) di garantire la cura e la risocializzazione del soggetto.

Tale soluzione è stata oggetto di rilievi critici. Si è, in particolare, sostenuto che tale soluzione porterebbe a trasformare completamente la libertà vigilata, attribuendole natura detentiva: si finirebbe in sostanza per creare una misura di sicurezza atipica, in palese contrasto con i principi di legalità e di tassatività.

Tale tesi sembrava aver trovato conforto in alcune pronunce della Suprema Corte: «Nell'ipotesi di applicazione provvisoria della misura di sicurezza della libertà vigilata, il giudice non può imporre, stante il principio di legalità, prescrizioni che ne snaturino il carattere non detentivo» (Fattispecie in cui la Corte annullava l'ordinanza del Tribunale del riesame che aveva confermato la misura provvisoria di sicurezza della libertà vigilata con ricovero presso una comunità terapeutica; Cass. pen., Sez. II, 11 novembre 2014, n. 49497; cfr. anche Cass. pen., Sez. I, 11 giugno 2013, n. 26702).

Queste sentenze, tuttavia, a ben vedere, non precludevano completamente la possibilità di percorrere la strada tracciata dai giudici di merito con i provvedimenti in esame: l'unico, reale, ostacolo era quello di non trasformare la libertà vigilata in una misura di sicurezza detentiva. Si trattava, allora, di verificare se, fermo restando il principio affermato dalla Suprema Corte, vi era comunque uno spazio, seppure ristretto, entro il quale percorrere quella strada; si trattava, cioè, di verificare se era possibile adottare la mds della libertà vigilata in struttura residenziale, con delle prescrizioni tali da non farle assumere carattere detentivo.

Al riguardo, bisogna considerare che la libertà vigilata non ha un contenuto predeterminato: spetta al giudice riempirlo.

Il vero nodo della questione, dunque, erano (e sono) le concrete prescrizioni che il giudice dà per riempire di contenuto la libertà vigilata.

Ai giudici di merito più attenti non era sfuggito che, affinché il profilo detentivo sfumasse completamente, il ricovero nella struttura residenziale doveva trovare giustificazione in specifiche esigenze di cura e recupero del soggetto ed essere funzionale ad esse: doveva, pertanto, essere preceduto da un piano terapeutico che espressamente prevedesse il ricovero nella struttura residenziale. Le prescrizioni imposte all'imputato, poi, non dovevano essere troppo stringenti e comportare un'assoluta limitazione della libertà personale, che non trovava giustificazione nelle esigenze di cura del soggetto.

Tale tesi riceveva avvallo, nel 2015, dalla Suprema Corte, che affermava che: «Nell'ipotesi di applicazione provvisoria della misura di sicurezza della libertà vigilata, il giudice può imporre la prescrizione della residenza temporanea in una comunità terapeutica, a condizione che la natura e le modalità di esecuzione della stessa non snaturino il carattere non detentivo della misura di sicurezza in atto» (In motivazione, la Corte precisava che la prescrizione di un programma terapeutico residenziale non era assimilabile “ex se” ad un ricovero obbligatorio, con sostanziale applicazione di una misura a carattere detentivo; Cass. pen., Sez. I, 22 maggio 2015, n. 33904).

La Suprema Corte, dunque, affermava chiaramente che non vi era incompatibilità assoluta tra libertà vigilata e ricovero in una struttura terapeutica di tipo residenziale.

4. Le recenti sentenze della Cassazione

L'orientamento giurisprudenziale in esame ha ricevuto due recentissime conferme.

In una prima sentenza, del novembre 2019, la Suprema Corte ha affermato che: «È legittima la misura di sicurezza della libertà vigilata provvisoriamente applicata nei confronti di un soggetto affetto da malattia psichiatrica, che ne prescriva il ricovero in una struttura sanitaria con divieto di allontanamento in determinate fasce orarie e, comunque, per finalità incompatibili con il programma terapeutico, trattandosi di prescrizioni funzionali all'esecuzione di tale programma che non snaturano il carattere non detentivo della misura di sicurezza non comportando alcun sacrificio aggiuntivo alla libertà di movimento rispetto a quello che inerisce a qualsiasi percorso di cura» (Cass. pen., Sez. I, n. 50383 del 12 novembre 2019).

In tale sentenza, la Cassazione era stata chiamata a decidere su un caso in cui il Tribunale di Modena, in funzione di giudice del riesame, aveva sostituito la misura di sicurezza detentiva provvisoria presso una REMS (applicata per l'addebito di tentato omicidio) con quella della libertà vigilata con le seguenti prescrizioni: risiedere presso una struttura terapeutica; sottoporsi a un programma di cura stabilito in quella sede; non allontanarsi dalla struttura se non in compagnia di un operatore professionale e per finalità ritenute congrue con il programma terapeutico; non allontanarsi in ogni caso tra le ore 20,30 e le ore 8,00; non detenere armi; portare sempre con sé copia del provvedimento applicativo della misura.

Avverso tale provvedimento, proponeva ricorso la Procura della Repubblica di Modena, adducendo, tra l'altro, il vizio di violazione di legge, in quanto il provvedimento impugnato, in concreto, avrebbe comportato un'effettiva e pressoché assoluta compressione della libertà personale, giungendo a snaturare il carattere non detentivo della libertà vigilata, con conseguente grave violazione delle disposizioni di legge in materia.

La Suprema Corte ha ritenuto infondato il ricorso.

Dopo aver premesso che fermo restava il principio di diritto per il quale, in tema di libertà vigilata, non possono essere applicate prescrizioni che snaturino le caratteristiche di una misura di sicurezza non detentiva (il riferimento è alla sentenza Cass. pen., Sez. I, n. 26702 dell'11 giugno 2013), la Cassazione ha ricordato come in giurisprudenza fosse già stato affermato che il giudice, nell'ipotesi di applicazione provvisoria della misura di sicurezza della libertà vigilata, potesse imporre la prescrizione della residenza temporanea in una comunità terapeutica, a condizione che la natura e le modalità di esecuzione della stessa non snaturassero il carattere non detentivo della misura di sicurezza in atto (il riferimento è alla sentenza Cass. pen., Sez. I, n. 33904 del 22 maggio 2015).

Fatte tali premesse in diritto, la Suprema Corte ha analizzato le prescrizioni adottate dal Tribunale di Modena, compresa quella relativa al ricovero presso una struttura sanitaria, ritenendole non incompatibili con la fisionomia della misura della libertà vigilata: «la prescrizione di ricovero ha una spiccata ed esclusiva vocazione terapeutica e non si colora dei tratti tipici delle misure di restrizione della libertà personale». Ha analizzato specificamente anche la prescrizione censurata con maggior evidenza – ossia quella di non allontanarsi dalla struttura ospedaliera se non in compagnia di un operatore sanitario e per finalità compatibili con il programma terapeutico e in ogni caso di non lasciare la struttura nel periodo dalle ore 20,30 alle ore 8,00 – concludendo che si trattava, a ben vedere, «di prescrizioni esclusivamente funzionali all'esecuzione del programma terapeutico, che non comportano alcun sacrificio aggiuntivo alla libertà di movimento rispetto a quello che inerisce strutturalmente a un qualsiasi percorso di cura» (Cass. pen., Sez. I, n. 50383 del 12 novembre 2019).

Analoghi principi ritroviamo nella sentenza emessa pochi mesi fa: «Nell'ipotesi di applicazione provvisoria della misura di sicurezza della libertà vigilata, il giudice può imporre la prescrizione della residenza temporanea in una comunità terapeutica, a condizione che la natura e le modalità di esecuzione della stessa non snaturino il carattere non detentivo della misura di sicurezza in atto» (Cass. pen., Sez. V, n. 28575 del 14 settembre 2020).

La sentenza in questione, in realtà, ha annullato il provvedimento con cui i giudici di merito avevano disposto la misura di sicurezza provvisoria della libertà vigilata con la prescrizione dell'obbligo di dimora presso una comunità di recupero. Il profilo censurato dalla Suprema Corte, tuttavia, è solo quello relativo al divieto di allontanarsi dalla comunità terapeutica, senza la preventiva autorizzazione del giudice o dei sanitari responsabili, che era stato imposto dai giudici di merito quale prescrizione aggiuntiva. E va evidenziato che la Cassazione non ha censurato la prescrizione del divieto di allontanamento in quanto tale, ma la circostanza che essa non era collegata alle esigenze terapeutiche del soggetto.

Invero, la Cassazione, dopo aver ricordato che «È consolidato il principio, già affermato da questa Corte, secondo cui, nell'ipotesi di applicazione provvisoria della misura di sicurezza della libertà vigilata, il giudice può imporre la prescrizione della residenza temporanea in una comunità terapeutica, a condizione che la natura e le modalità di esecuzione della stessa non snaturino il carattere non detentivo della misura di sicurezza in atto», ha aggiunto che tale principio è stato precisato dalla più recente giurisprudenza «nel senso che è legittima la misura di sicurezza della libertà vigilata provvisoriamente applicata nei confronti di un soggetto affetto da malattia psichiatrica, che ne prescriva il ricovero in una struttura sanitaria con divieto di allontanamento in determinate fasce orarie e, comunque, per finalità incompatibili con il programma terapeutico, trattandosi di prescrizioni funzionali all'esecuzione di tale programma che non snaturano il carattere non detentivo della misura di sicurezza non comportando alcun sacrificio aggiuntivo alla libertà di movimento rispetto a quello che inerisce a qualsiasi percorso di cura» (Cass. pen., Sez. V, n. 28575 del 14 settembre 2020).

Tanto premesso, la Corte ha ritenuto che, nel caso al suo esame, il divieto di allontanarsi dalla comunità terapeutica, senza la preventiva autorizzazione del giudice o dei sanitari responsabili, imposto senza alcun limite temporale o finalistico, aveva comportato una sostanziale trasfigurazione della libertà vigilata in una misura detentiva.

La nullità del provvedimento, dunque, è stata determinata dall'imposizione di un divieto limitativo della libertà personale che non era funzionale alla realizzazione del programma terapeutico a cui era sottoposto il soggetto.

Possiamo, allora, affermare che anche questa recentissima sentenza finisce per consolidare l'orientamento che riconosce piena legittimità alla misura di sicurezza della libertà vigilata con la prescrizione del ricovero presso una struttura residenziale di tipo terapeutico, sempre che tale ricovero sia funzionale alle esigenze terapeutiche del soggetto. Tali esigenze devono essere il faro che deve illuminare il giudice anche nella determinazione delle prescrizioni aggiuntive, che potranno prevedere anche il divieto di allontanamento dalla struttura, ma sempre che tale prescrizione non comporti alcun sacrificio aggiuntivo alla libertà di movimento rispetto a quello che inerisce al percorso di cura.

Non è facile indicare in astratto il contenuto del divieto di allontanamento, essendo questo evidentemente legato alle particolari esigenze di cura del soggetto e al piano terapeutico concretamente redatto dalla ASL competente.

Si può, tuttavia, affermare che un divieto assoluto, per tutto il giorno e senza far salva l'esigenza di uscita con operatori sanitari, difficilmente potrebbe essere considerato strettamente collegato alle esigenze di un piano terapeutico (fatti salvi casi particolarissimi) e, conseguentemente, finirebbe per risolversi in una sostanziale trasfigurazione della natura non detentiva della libertà vigilata.

Va ribadito che, rispetto alle misure in esame, diventa fondamentale il piano terapeutico: se esso prevede il ricovero presso una struttura residenziale, evitando al soggetto anche qualsiasi occasione per sottrarsi al costante controllo sanitario, si può pure prevedere il divieto di allontanamento, modulandolo, però, con le uscite in compagnia del personale sanitario, che normalmente sono previste dai piani di cura per il graduale reinserimento del soggetto.

Sotto il profilo in esame, è dominante l'esigenza di cura del soggetto. E', tuttavia, possibile che tale esigenza si ponga in conflitto con quelle di salvaguardia della collettività, rispetto ad una persona di rilevante pericolosità sociale. In tal caso, il giudice deve valutare comparativamente le esigenze in conflitto e, ove ritenesse prevalenti quelle di tutela della collettività, non potrebbe che scegliere una mds più afflittiva della libertà vigilata. Quel che egli non potrà fare, per il rispetto del principio di legalità, è la sostanziale trasformazione della libertà vigilata in una misura di tipo detentivo.

5. In conclusione

Le recenti sentenze della Cassazione non si limitano a consolidare l'orientamento che ritiene compatibile la prescrizione del ricovero in una struttura residenziale con la libertà vigilata, ma precisano anche in maniera puntuale che la misura in questione e tutte le prescrizioni ad essa collegate devono essere strettamente funzionali alle esigenze di cura del soggetto. L'aver puntualizzato tale profilo apre alla misura in esame una prospettiva di certo più ampia di quella che traeva origine dall'orientamento giurisprudenziale di merito che ricorreva a tale forma di libertà vigilata, accompagnata dal divieto di allontanamento dalla struttura, per far fronte alla carenza di posti nelle REMS.

Al riguardo occorre ricordare che, sebbene in un diverso quadro normativo e ancora prima che sorgesse il problema di far fronte alla mancanza di posti nelle REMS, la possibilità di eseguire la libertà vigilata anche in una struttura psichiatrica era stata ritenuta legittima dalla Cassazione (cfr. Cass. pen., Sez. I, n. 49255 del 21 ottobre 2004) e compatibile con il nostro sistema costituzionale dalla Corte Costituzionale, che, nel dichiarare inammissibile una questione che tendeva ad ottenere una pronuncia additiva, lamentava proprio il fatto che il giudice rimettente non teneva «conto della più recente giurisprudenza, anche di legittimità, secondo cui la libertà vigilata, accompagnata da opportune prescrizioni idonee ad evitare le occasioni di nuovi reati, può essere eseguita anche in una struttura psichiatrica protetta» (ordinanza n. 83/2007).

Deve essere, poi, sottolineato che la libertà vigilata (e, dunque, anche quella con le prescrizioni in questione), nell'attuale quadro normativo, deve essere senza dubbio preferita rispetto alle misure detentive, che, a seguito della l. n. 81/2014, hanno oramai assunto un rilievo del tutto residuale.

Si può, dunque, concludere che, allo stato dell'attuale elaborazione giurisprudenziale, la misura della libertà vigilata, con la prescrizione del ricovero in struttura residenziale e con divieto di allontanamento modulato secondo le esigenze terapeutiche del soggetto, costituisce una particolare tipologia di libertà vigilata, alla quale il giudice deve ricorrere (a prescindere dalla disponibilità di posti in REMS) quando il ricovero e le conseguenti prescrizioni siano imposte dalle esigenze di cura del soggetto e, al tempo stesso, siano compatibili con le esigenze di tutela della collettività, legate alla pericolosità sociale del soggetto.

6. Guida all'approfondimento

BALBI, Infermità di mente e pericolosità sociale tra OPG e REMS, in DPC, 20.7.2015.

CIRILLO, Il giudice del dibattimento di fronte alla pericolosità sociale: come orientarsi con la sospensione del processo, le misure di sicurezza e le misure cautelari, in Il Penalista, 17.1.2020;

GATTA, OPG e REMS: a che punto siamo? Le relazioni del commissario unico per il superamento degli OPG, Franco Corleone, in DPC, 27.12.2016;

GATTA, Chiusura completa degli OPG: finalmente a un passo dalla meta, in DPC, 7.3.2017;

DI NICOLA, La chiusura degli OPG: un'occasione mancata, in DPC, 13.3.2015;

SPANGHER, Gli eterni giudicabili, in La riforma Orlando, 2017, 101.

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