Ai confini tra fatto e diritto. Valutazione delle prove e sindacato di legittimità

25 Gennaio 2021

La Suprema Corte affronta la questione controversa dei limiti all'ingresso in Cassazione di censure fondate sulla violazione, da parte del giudice di merito, degli artt. 115 e 116 c.p.c.
Massima

Per dedurre in Suprema Corte la violazione dell'art. 115 c.p.c. occorre denunciare che il giudice, in contraddizione espressa o implicita con la prescrizione della norma, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli; per far valere la violazione dell'art. 116 c.p.c., è invece necessario allegare che il giudice non abbia operato secondo il suo «prudente apprezzamento», quando avrebbe dovuto, o che viceversa lo abbia fatto pur essendo la prova soggetta a una specifica regola di valutazione.

Il caso

Avverso un decreto ingiuntivo, conseguito da una casa di cura in relazione alle prestazioni sanitarie illo tempore erogate in base ad apposito contratto di convenzionamento, proponeva opposizione la parte ingiunta, chiedendo revocarsi l'emesso provvedimento. Rigettata l'opposizione, la soccombente interponeva appello; appello che veniva, quindi, integralmente respinto.

L'allora appellante coltivava la lite proponendo ricorso per Cassazione; anche quest'ultimo subiva sorte negativa, culminando il giudizio con la declaratoria di infondatezza del primo motivo e di inammissibilità di tutti quelli successivi.

La questione

La questione controversa attiene ai limiti all'ingresso in Cassazione di censure fondate sulla violazione, da parte del giudice di merito, degli artt. 115 e 116 c.p.c.; questione che ripropone il vessato dibattito sull'ammissibilità di doglianze ex art. 360 c.p.c. che, impingendo nella valutazione del materiale istruttorio, si pongono ai confini con il giudizio di fatto.

Le soluzioni giuridiche

Che, dietro censure fondate sull'asserita violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. (come, sovente, dietro motivi costruiti su presunte violazioni degli artt. 2697 c.c. o 2727 e ss. c.c.), si nasconda spesso il tentativo surrettizio di riproporre alla Corte questioni che, impingendo nella quaestio facti, non sono ammissibili in Cassazione, è cosa che la prassi quotidianamente dimostra.

Alla ratio di prevenire operazioni siffatte è ispirata la sentenza Cass. civ. n. 20867/2020, che, inserendosi in un orizzonte giurisprudenziale univoco, traccia un chiaro regolamento dei confini tra ciò che è dato e ciò che non è dato fare in Suprema Curia.

Non tutte le doglianze basate sulla violazione del c.d. principio dispositivo in senso processuale (art. 115 c.p.c.; su cui, per tutti, Carratta-Taruffo, op. cit., sub art. 115 c.p.c.) sono ammissibili, né lo sono tutti i motivi imperniati su presunte violazioni del principio del libero convincimento (art. 116 c.p.c.), che, tanto quanto il precedente canone, postula valutazioni discrezionali (con l'implicito limite del buon senso e dell'onere di impiego di una metodologia razionale di ricostruzione dei fatti (Taruffo, op. cit., p. 2) di spettanza del giudice del merito.

A essere ammissibile è la sola censura ex art. 115 c.p.c. con la quale si lamenti che, a fondamento della sentenza, constino prove non introdotte dalle parti, ma disposte al di fuori dell'alveo dei poteri istruttori ufficiosi; proprio in quanto, con un motivo così confezionato, si veicola l'inosservanza di una regula iuris, e non la mera denuncia delle modalità di esercizio di discrezionali prerogative del giudice del merito.

Analogamente, come emerge dal tessuto motivazionale della sentenza, l'unico motivo ex art. 116 c.p.c. che possa ritenersi compatibile con i limiti del giudizio di Cassazione è quello imperniato su uno sconfinamento del giudice a quo a fronte dello svilimento dell'efficacia di una prova legale o viceversa dell'attribuzione di un'efficacia probatoria piena a elementi istruttori soggetti a libera valutazione.

Osservazioni

Il giudizio di fatto è, ontologicamente, incompatibile con il processo innanzi alla Corte Suprema (Calamandrei, op. cit., p. 274, secondo cui «in Cassazione ciò che conta è il diritto»; cfr., tuttavia, l'analisi di Panzarola, op. cit.).

Se ciò è, da sempre, vero, per essere la quaestio facti estranea al ristretto perimetro del giudizio di legittimità, lo è a più forte ragione dopo la novella del 2012 (cfr. il d.l. n. 83/2012, convertito dalla l. n. 134/2012, che ha, in definitiva, comportato un ritorno alla formulazione del c.p.c. del 1940; in dottrina, cfr. ad es., Bove, op. cit., ivi; De Cristofaro, op. cit., ivi).

Il transito dal sindacato sulla motivazione omessa, insufficiente o contraddittoria a quello sull' «omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti»mette al bando lo scrutinio dei passaggi motivi della pronuncia ricorsa che non si appunti sull'obliterazione di un fatto storico oggetto di dibattito processuale e risolutivo rispetto alla lite in corso.

Nonostante i tentativi di attenta dottrina di incanalare il vizio di motivazione insufficiente e contraddittoria nei binari dell'art. 360 n. 4, c.p.c., rigorosa è stata la linea della Suprema Corte, che ha ritenuto che, dato il canone di cui all'art. 12 delle Preleggi, il difetto di motivazione denunciabile in Cassazione debba concretarsi in violazioni di legge costituzionalmente rilevanti (Cass. civ., sez. un., 7 aprile 2014, n. 8053, spec. § 14.5) e che l'omesso esame di elementi istruttori non possa avere cittadinanza (ancora Cass. civ., sez. un., n. 8053/2014, cit., spec. § 14.7; contra, tuttavia, l'orientamento che equipara l'esame incompleto del mezzo probatorio all'omesso esame del fatto che la prova è tesa a dimostrare: Cass. civ., sez. lav., 27 luglio 2016, n. 15636, nonché, con specifico riguardo alla confessione stragiudiziale, Cass. civ., sez. I, 6 giugno 2018, n. 14635).

Se nel più è necessariamente compreso il meno, alla scorretta disamina delle risultanze probatorie è vietato l'accesso.

Le sole strade percorribili si appuntano, alternativamente, nella spendita del radicale vizio di «motivazione apparente», nella violazione delle regole di riparto degli oneri probatori o nella denuncia dello scorretto impiego dei criteri ex artt. 2727 e ss. c.c.

Al crocevia tra diritto e fatto si collocano le doglianze imperniate sulla violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c.; violazione che, sovente, si risolve nella sostanziale critica del quomodo della valutazione delle prove.

Posto che spetta al giudice del merito l'interpretazione e la valutazione del materiale probatorio, il controllo dell'attendibilità e della concludenza delle prove, nonché la scelta dei mezzi istruttori ritenuti idonei alla formazione del prudente apprezzamento (ex multis, Cass. civ., sez. II, 4 marzo 2019, n. 6245), i soli casi in cui censure siffatte possono ammettersi sono quelli in cui il giudice di merito abbia dedotto d'ufficio un mezzo istruttorio riservato all'esclusiva delle parti, abbia disatteso una prova legale o attribuito l'efficacia di prova piena a una risultanza soggetta a libera valutazione.

La, pur condivisibile, linea di confine, puntualmente tracciata dalla sentenza in epigrafe, si presta a inevitabili valutazioni del caso concreto, legate alla formulazione delle singole doglianze per come veicolate nei ricorsi notificati; valutazioni la cui complessità è direttamente proporzionale alla labilità dei margini che separano la violazione dei principi ex artt. 115-116 c.p.c. dalla erronea disamina della piattaforma probatoria e, più in generale, la quaestio iuris dalla quaestio facti (sulla incidenza della premessa minore su quella maggiore del sillogismo giudiziale, v., del resto, Carnelutti, op. cit., p. 244; sul principio per cui omnis quaestio facti est quaestio iuris, v. Giuliani, op. cit., p. 253).

Sta alla perizia dell'avvocato estrarre la purezza del diritto dal magma fattuale; e alla prudenza del giudice (questa volta di legittimità) applicare i filtri selettivi con l'equità imposta dal canone del processo giusto (come ha talora fatto la Cassazione in relazione al vizio di «motivazione apparente»: Cass.Civ., sez. un., 3 novembre 2016, n. 22232). Perché il rigore, imposto dall'art. 360 comma 1 n. 5 c.p.c., serva sì a contrastare gli abusi (le impugnazioni che si limitino a sollecitare nuove letture delle risultanze probatorie), senza, però, mortificare quel diritto al ricorso (Corte Edu, 21 giugno 2011, Dobrić v. Serbia; Chiarloni, op. cit., p. 144) di cui la Corte deve essere la prima garante.

Riferimenti
  • Bove, Giudizio di fatto e sindacato della corte di cassazione: riflessioni sul nuovo art. 360 n. 5 c.p.c., in www.judicium.it;
  • Calamandrei, La Cassazione e i giuristi, in Studi sul processo civile, III, Padova, 1934, p. 274;
  • Carnelutti, Lezioni di diritto processuale civile, IV, Padova, 1931, p. 244;
  • Carratta-Taruffo, Poteri del giudice, Bologna, 2011;
  • Chiarloni, Giusto processo, garanzie processuali, giustizia della decisione, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2008, p. 144;
  • Dalfino (a cura di), Il nuovo procedimento in Cassazione, Torino, 2017;
  • De Cristofaro, Appello e cassazione alla prova dell'ennesima «riforma urgente»: quando i rimedi peggiorano il male (considerazioni di prima lettura del d.l. n. 83/2012);
  • Giuliani, Leibniz e la teoria dei fatti relazionali, in Riv. intern. fil. dir., 1992;
  • M. Di Marzio, Ricorso per cassazione, in www.ilprocessocivile.it;
  • Panzarola, La Cassazione civile giudice del merito, I e II, Torino, 2005;
  • Taruffo, voce Libero convincimento del giudice. I) Diritto processuale civile, Enc. giur. Treccani, XVIII, Roma, 1990;
  • Verde, voce Prova (diritto processuale civile), in Enc. dir., XXXVII, Milano, 1988.

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