Controversie in materia di discriminazione

Roberta Metafora
09 Luglio 2018

L'art. 28 d.lgs. n. 150/2011 stabilisce che sono regolate dal rito sommario di cognizione le controversie: in materia di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi; riguardanti l'azione civile contro ogni discriminazione a causa della razza o dell'origine etnica, per quanto concerne l'accesso al lavoro e la disciplina del rapporto di lavoro, la formazione professionale, la protezione sociale, l'assistenza sanitaria, le prestazioni sociali, l'istruzione e l'accesso a beni e servizi; relative alle azioni civili contro ogni discriminazione a causa della religione, delle convinzioni personali, degli handicap, dell'età o dell'orientamento sessuale, per quanto concerne l'occupazione e le condizioni di lavoro; concernenti le azioni civili contro ogni discriminazione attuata in pregiudizio delle persone disabili ed, infine, quelle relative alle azioni civili contro le discriminazioni per ragioni di sesso nell'accesso a beni e servizi e loro fornitura.
Inquadramento

L'art. 28 del d.lgs. 1 settembre 2011, n. 150 stabilisce che sono regolate dal rito sommario di cognizione le controversie: a) in materia di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi di cui all'art. 44 del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286 (T.U. in materia di immigrazione); b) quelle regolate dall'art. 4 del d.lgs. 9 luglio 2003, n. 215 riguardante l'azione civile contro ogni discriminazione a causa della razza o dell'origine etnica, per quanto concerne l'accesso al lavoro e la disciplina del rapporto di lavoro, la formazione professionale, la protezione sociale, l'assistenza sanitaria, le prestazioni sociali, l'istruzione e l'accesso a beni e servizi; c) quelle regolate dall'art. 4 del d.lgs. 9 luglio 2003, n. 216, relative alle azioni civili contro ogni discriminazione a causa della religione, delle convinzioni personali, degli handicap, dell'età o dell'orientamento sessuale, per quanto concerne l'occupazione e le condizioni di lavoro; d) quelle previste dall'art. 3 della l. 1 marzo 2006, n. 67, concernenti le azioni civili contro ogni discriminazione attuata in pregiudizio delle persone disabili; e) quelle di cui all'art. 55-quinquies del d.lgs. 11 aprile 2006, n. 198 (Codice delle pari opportunità tra uomo e donna), relative alle azioni civili contro le discriminazioni per ragioni di sesso nell'accesso a beni e servizi e loro fornitura.

Non sono invece disciplinate dal citato art. 28 alcune azioni in materia di discriminazione previste dal Codice delle pari opportunità tra uomo e donna (d.lgs. n. 198/2006 cit.) ed in particolare, quelli aventi ad oggetto le discriminazioni di genere di cui al Libro terzo, Titolo primo del Codice in materia di pari opportunità nel lavoro, nonché le azioni aventi ad oggetto le cd. condotte di vittimizzazione (cioè quei comportamenti pregiudizievoli posti in essere come reazione ad una qualsiasi attività diretta ad ottenere il rispetto del principio di parità di trattamento tra uomo e donna). Per tali controversie resta applicabile la disciplina processuale di cui agli artt. 37 e 38 del d.lgs. n. 198/2006 (v. infra).

Dubbi di costituzionalità

L'applicazione del rito sommario di cognizione alle azioni in materia di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi di cui all'art. 44 del T.U. in materia di immigrazione (v. supra, sub a) ha determinato il sorgere di un dubbio di legittimità costituzionale.

La sottoposizione al rito sommario di cognizione dell'azione di cui all'art. 44 citato, infatti, potrebbe aver determinato l'incostituzionalità dell'art. 28 per eccesso di delega, a causa della natura dell'azione in materia di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi.

Invero, sulla natura dell'azione dottrina e giurisprudenza sono divise.

NATURA DEL PROCEDIMENTO DI CUI ALL'

ART. 44 D.LGS. 286/1998

Per la giurisprudenza, l'azione civile contro la discriminazione regolata dall'art. 44 del d.lgs. n. 286/1998 ha natura cautelare; ad essa si applicano le norme sul procedimento cautelare uniforme in quanto compatibile. Il giudizio si conclude con un provvedimento che non ha carattere decisorio e definitivo e, come tale, non è suscettibile di ricorso per cassazione ai sensi dell'art. 111 Cost.

Cass. civ., Sez. Un., 7 marzo 2008, n. 6172, in Foro it., 2008, I, 2168, nt. Scarselli; Cass. civ., Sez.Un., 15 febbraio 2011, n. 3670, in Foro it., 2011, I, 1101; Cass. civ., Sez.Un., 30 marzo 2011, n. 7186.

Per parte della dottrina, l'art. 44 d.lgs. n. 286/1998 dà luogo a un procedimento monofasico a cognizione sommaria finalizzato all'adozione di un provvedimento con prevalente funzione esecutiva.

Pacilli, 1409 ss., in part. 1427.

Per altri autori, invece, il procedimento di cui all'art. 44 d.lgs. n. 286/1998 ha natura bifasica: esso si introduce con un ricorso, il quale contiene sia una domanda di tutela urgente sommaria (destinata ad essere decisa con ordinanza), sia la domanda di tutela in via ordinaria (che si conclude con una sentenza idonea al giudicato) sulla falsariga dei procedimenti possessori.

Santagada, 341 ss., in part. 361.

Come è evidente, poiché l'art. 54, comma 1, l. n. 69/2009 di delega per la semplificazione e riduzione dei riti limita l'intervento del legislatore delegato alla riorganizzazione dei soli «procedimenti civili di cognizione che rientrano nell'ambito della giurisdizione ordinaria e che sono regolati dalla legislazione speciale», i procedimenti cautelari restano fuori dalla delega. Ora, se venisse riconosciuta natura cautelare al procedimento in questione, sulla scia delle indicazioni offerte dalla Corte di cassazione, si dovrebbe concludere per la palese incostituzionalità dell'art. 28 per eccesso di delega, nella parte in cui prevede l'applicazione del rito sommario di cognizione alle azioni civili contro le discriminazioni regolata dall'art. 44d.lgs. n. 286/1998.

Pare tuttavia che lo stesso legislatore delegato abbia aderito alla tesi che esclude la natuta cautelare dei provvedimenti in questione; risulta infatti dalla Relazione Illustrativa al d.l.gs. 150/2011 che «– come già evidenziato da una parte della dottrina – quello disciplinato dall'art. 44 del d.lgs. n. 286/1998 è un procedimento speciale (semplificato) di cognizione dei diritti, suscettibile di concludersi con un provvedimento idoneo alla formazione del giudicato, come si evince dal fatto che: a) l'art. 44, comma 10, parla di sentenza che accerta la discriminazione» (sul punto, v. amplius, Pellegrini, 365 ss.; si mostra invece dubitativa sul punto Di Salvo, 847).

Le forme del giudizio

Al riguardo, occorre – come già anticipato – tenere distinte alcune delle azioni disciplinate dal Codice delle pari opportunità da quelle attualmente regolate dal decreto legislativo sulla semplificazione dei riti.

Nel Codice delle pari opportunità, l'azione individuale in materia di discriminazioni di genere in occasione del rapporto di lavoro può essere esercitata nelle forme ordinarie, oppure nelle forme sommarie previste dall'art. 38, che, come già fatto in precedenza dall'art. 15, l. 9 dicembre 1977, n. 903, si ispira al modello processuale contemplato dall'art. 28 dello Statuto dei lavoratori per il giudizio di repressione della condotta antisindacale. Ad una prima fase sommaria in contraddittorio che si chiude con decreto motivato immediatamente esecutivo fa seguito una seconda fase di opposizione che conduce il procedimento in questione alla cognizione piena disciplinata con le forme del rito del lavoro. «Il procedimento va, dunque, pianamente ascritto alla categoria dei procedimenti decisori sommari» (Donzelli, Tutela contro le discriminazioni (dir. proc. civ.), in Treccani.it, § 3).

Per quanto attiene al giudizio collettivo in materia di discriminazioni di genere nel rapporto di lavoro di cui all'art. 37, detta norma, dopo aver disciplinato una speciale procedura di conciliazione davanti al consigliere di parità, prevede l'esperimento dell'azione sia in via ordinaria sia in «in via d'urgenza» ed in tal caso le forme del giudizio saranno quelle poc'anzi descritte in riferimento all'azione sommaria individuale: prima fase sommaria in contraddittorio e successiva opposizione introduttiva del giudizio a cognizione piena.

Per quanto riguarda il rito delle altre azioni civili contro le discriminazioni, il d.lgs. n. 150/2011, con l'art. 38 ha abrogato la disciplina precedentemente prevista dai diversi provvedimenti legislativi prima citati (sulla natura del giudizio ivi previsto prima della riforma, v. Cass. civ., Sez.Un., 7 marzo 2008, n. 6172, in Foro it., 2008, I, 2168, cit.), mentre con il citato art. 28 ha previsto l'applicazione alle controversie in questione del rito sommario di cognizione.

Più in particolare la lettera del comma 1 dell'art. 28, nell'indicare puntualmente le diverse controversie soggette al nuovo rito, elenca solo gli articoli di legge – precedentemente ricordati – che contemplano le azioni individuali; sennonché, le diverse norme attributive del potere di azione collettiva agli enti esponenziali rinviano anch'esse a tali articoli, per cui si sostiene in dottrina che il procedimento sommario di cognizione si applichi non solo alle azioni individuali, ma anche a quelle azioni collettive (Donzelli, Tutela, cit., §1; nello stesso senso anche Cass. civ., 29 ottobre 2013, n. 24419).

Il procedimento antidiscriminatorio. Caratteri generali

Come si desume dalla chiara lettera dell'art. 28 del d.lgs. n. 150/2011, se è vero che alle controversie in materie di discriminazione si applica il rito sommario di cognizione, è del pari indiscutibile che l'art. 3 del medesimo decreto legislativo stabilisce che a tutte le controversie disciplinate dal capo III del decreto sulla semplificazione – e dunque anche a quelle discriminatorie indicate all'art. 28non si applicano i commi secondo e terzo dell'art. 702-ter c.p.c..

La scelta del legislatore di applicare a tali procedimenti il rito sommario di cognizione appare più che condivisibile, in quanto detti procedimenti presentano prevalenti caratteri di semplificazioni della trattazione e dell'istruzione della causa e si concludono con un provvedimento idoneo a realizzare l'esigenza di tutela della parte lesa tramite l'accertamento del comportamento discriminatorio e il conseguente ordine di cessazione del comportamento pregiudizievole, nonché l'adozione di eventuali provvedimenti idonei sia a rimuovere gli effetti della discriminazione sia a risarcire il danno, anche non patrimoniale, subito dal soggetto discriminato. Non pare perciò dubbio che si sia in presenza di un accertamento a cognizione piena suscettibile di concludersi con un provvedimento idoneo al giudicato sostanziale (v. anche Trib. Torino, 14 aprile 2014, in Foro it., 2014, I, 2989, secondo cui l'azione finalizzata alla cessazione del comportamento, della condotta o dell'atto discriminatorio pregiudizievole è di condanna e, in quanto tale, presuppone sempre l'accertamento del diritto).

Parte della dottrina, tuttavia, si mostra critica sulla scelta di escludere l'applicazione dei commi 2 e 3 dell'art. 702-ter c.p.c.: è stato osservato che «la scelta di optare per processo rigido, in cui la sommarietà è necessaria ed imposta da una scelta in astratto e a priori del legislatore desta perplessità in generale ed anche in specifico riferimento alle controversie in questione; soprattutto rispetto a quelle collettive, in cui il grado di complessità processuale può effettivamente essere elevato tanto dal punto di vista soggettivo che oggettivo» (Donzelli, Tutela contro le discriminazioni (dir. proc. civ.), in Treccani.it, §3).

Tuttavia, maggiormente persuasiva appare a chi scrive la tesi secondo cui la struttura semplificata e deformalizzata del procedimento sommario di cognizione consente alla parte lesa dal comportamento discriminatorio di ottenere una tutela efficace e tempestiva del proprio diritto e al tempo stesso di attuare pienamente i principi del giusto processo. In altre parole, l'applicazione delle regole di cui agli artt. 702-bis e seguenti non comporta il sacrificio del principio di effettività della tutela giurisdizionale, a maggior ragione quando si consideri che la nuova disciplina delle controversie in materia di antidiscriminazione di cui all'art. 28 del d.lgs. 150/2011 permette l'esercizio della tutela cautelare. In merito, possono ripetersi le considerazioni fatte in generale in ordine al rapporto tra il procedimento sommario di cognizione, idoneo ad assicurare la cognizione piena ed esauriente dei diritti, e la tutela cautelare: «se su tanto si conviene nessuna incompatibilità può riscontrarsi tra tutela cautelare e rito sommario di cognizione attesa l'idoneità al giudicato sostanziale dell'ordinanza che lo conclude, la piena alternatività di esso al rito ordinario e la circostanza che la cognizione semplificata, e perciò più celere, non dipende da ragioni d'urgenza ma dalla valutazione delle caratteristiche della controversia» (Izzo, Sulla compatibilità tra tutela cautelare in corso di causa e procedimento sommario di cognizione, in www.judicium.it, 7; Metafora, L'ambito di applicazione del rito sommario di cognizione, in GPC, 2015, 835; con riferimento specifico al procedimento di cui in oggetto, v. Delle Donne, Commento all'art. 28, in Sassani-Tiscini, La semplificazione dei riti civili, Roma, 2011, 261; in giurisprudenza, v. Trib. Roma, 13 febbraio 2014, in Corr. giur., 2015, 546, con nota di Corea).

Inoltre, l'art. 28 presenta anche l'ulteriore merito di aver razionalizzato la disciplina procedimentale delle azioni in materia di discriminazione, prevedendo un unico rito. L'art. 28, comma 1, infatti, rinvia per l'individuazione delle controversie da esso disciplinate alle singole norme che regolano le varie fattispecie di discriminazione; lo stesso articolo, poi, mantiene in vigore alcune disposizioni speciali – introdotte con le singole leggi speciali – che permettono di produrre effetti che non potrebbero essere realizzati con l'applicazione delle sole norme previste negli artt. 702-bis e seguenti (Pellegrini, op. cit., 368).

Giurisdizione e competenza

Stando ad un consolidato indirizzo giurisprudenziale, poiché le norme in materia di antidiscriminazione sono volte ad assicurare la tutela di diritti individuali di rango costituzionale, rientrano nella giurisdizione del giudice ordinario le relative controversie e ciò anche quando gli atti e comportamenti discriminatori sono stati realizzati dalla Pubblica Amministrazione nell'ambito dei procedimenti per il riconoscimento di utilità rispetto a cui privato vanta una posizione di interesse legittimo (Cass. civ., Sez.Un., 15 febbraio 2011, n. 3670, cit.).

Uniche eccezioni alla giurisdizione del g.o. sono quelle previste dagli artt. 4, comma 7, del d.lgs. n. 215/2003 e 4, comma 8, del d.lgs. n. 216/2003 che stabiliscono la giurisdizione del giudice amministrativo per le controversie in materia di discriminazione relative al personale alle dipendenze della P.A. in regime di diritto pubblico di cui all'art. 3 del d.lgs. 30 marzo 2011, n. 165.

Ai sensi del 2° comma dell'art. 28 del d.lgs. n. 150/2011 competente è il Tribunale (in composizione monocratica) del luogo in cui il ricorrente ha il domicilio.

Il foro appena riportato presenta carattere speciale; vi è da chiedersi pertanto se esso sia destinato a prevalere – qualora la controversia riguardi comportamenti discriminatori nell'ambito di un rapporto di lavoro – su quelli delineati dall'art. 413 c.p.c. (sul punto, v. infra).

La legittimazione ad agire

La legittimazione di agire per l'accertamento degli atti e dei comportamenti discriminatori è regolata dalle varie fonti legislative che disciplinano le diverse azioni. In generale, può notarsi come sia previsto che l'esercizio dell'azione possa delegato a soggetti adeguatamente rappresentativi di volta in volta individuati, in deroga all'art. 77 c.p.c., che – come è noto – richiede che il conferimento del potere rappresentativo possa essere rilasciato solo a favore di soggetti che già lo possiedono sul piano sostanziale.

Più in particolare:

  • l'art. 5, comma 1, d.lgs. n. 215/2003 attribuisce la legittimazione ad agire alle associazioni e agli enti inseriti in un apposito elenco approvato con decreto del Ministero del lavoro e delle politiche sociali e del Ministro per le pari opportunità ed individuati sulla base delle finalità programmatiche e della continuità dell'azione;
  • l'art. 4, comma 1, d.lgs. n. 216/2003 ammette la delega alle organizzazioni sindacali o alle altre organizzazioni rappresentative del diritto o dell'interesse leso;
  • gli artt. 36, comma 2, e 38, comma 1, d.lgs. n. 198/2006 ammettono la delega alle consigliere o ai consiglieri di parità provinciali o regionali competenti per territorio, nonché alle organizzazioni sindacali o alle altre organizzazioni rappresentative del diritto o dell'interesse leso;
  • l'art. 55-septies, comma 1, d.lgs. n. 198/2006, attribuisce tale legittimazione alle associazioni e agli enti inseriti in apposito elenco approvato con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, o per sua delega del Ministro per i diritti e le pari opportunità, di concerto con il Ministro per lo Sviluppo economico ed individuati sulla base delle finalità programmatiche e della continuità dell'azione;
  • l'art. 4, comma 1, l. n. 67/2006, conferisce la delega alle associazioni e agli enti individuati con decreto del Ministero per le pari opportunità di concerto con il Ministro del lavoro e delle politiche sociali, sulla base della finalità statutaria e della stabilità dell'organizzazione.

Le norme appena indicate prevedono anche la possibilità che gli enti esponenziali poc'anzi citati possano intervenire in giudizio. La natura di tale intervento è controversa, ma si ritiene che debba qualificarsi come intervento adesivo dipendente, in analogia con la posizione del P.M. ex art. 70, comma 2, c.p.c. (Donzelli, op. cit., § 2.1).

L'atto introduttivo del giudizio

Il richiamo svolto dall'art. 28 al procedimento sommario di cognizione, con le salvezze accennate supra, fa sì che le azioni contro i comportamenti discriminatori rivestano la forma del ricorso e che il contenuto-forma della stessa sia individuato dall'art. 702-bis.

Precisa la norma che nel giudizio di primo grado le parti possono stare in giudizio personalmente. Invero, l'art. 44 d.lgs. n. 286/1998 e l'art. 55-quinquies d.lgs. n. 198/2006 attribuivano tale facoltà solo al soggetto leso dal comportamento antidiscriminatorio, ma con la generalizzazione del rito sommario a tutte le controversie in materia di discriminazione è stata prevista l'estensione di tale possibilità anche alla parte resistente, allo scopo di «attuare il principio di parità tra le parti del processo» (così la Relazione sub art. 28, d.lgs. n. 150/2011).

La compatibilità del rito sommario di cognizione con le azioni antidiscriminatorie ex art. 44, d.lgs. n. 286/1998

Quando il comportamento discriminatorio viene posto in essere in essere in danno di un lavoratore, si pone il problema dell'applicabilità o meno del rito del lavoro a tali controversie.

Stando alla previgente disciplina (art. 44 d.lgs. n. 286/1998), la fase di merito dei giudizi in materia di discriminazione era regolata dal rito ordinario di cognizione, fatte salve le controversie aventi ad oggetto una discriminazione compiuta nell'ambito di un rapporto di lavoro, le quali erano regolate dal rito speciale del lavoro (Cicchitti, L'azione civile contro la discriminazione ex art. 44 t.u. 286/98, LG, 2000, 739; App. Firenze, 28 novembre 2008).

Come accennato, invece, l'art. 28 prevede la generale applicazione del rito sommario di cognizione a tutte le controversie in materia di discriminazione senza operare alcun distinguo, affidando la competenza al tribunale del luogo in cui il ricorrente ha il domicilio e stabilendo che le parti possano stare in giudizio in primo grado personalmente.

Ci si è perciò chiesto quale fosse la sorte di talune disposizioni processuali particolarmente qualificanti il rito disciplinato dagli artt. 409 ss. c.p.c., prima fra tutte quelle riguardanti i poteri istruttori del giudice del lavoro.

IL RITO DELLE AZIONI ANTIDISCRIMINATORIE IN AMBITO DI LAVORO

Secondo alcuni il coordinato disposto degli artt. 3 e 28, d.lgs. n. 150/2011, nonché 702-bis ss. c.p.c., non esclude «l'applicazione delle regole del processo del lavoro: a) strettamente legate alla natura della controversia; b) compatibili con l'adozione delle forme semplificate del rito; c) non espressamente derogate da specifiche disposizioni di legge (come per l'appunto i commi 2 e 3 dell'art. 28, d.lgs. n. 150/2011). Così, ad esempio, al giudice spetta senz'altro una posizione attiva sul piano istruttorio: nelle forme semplificate e atipiche in primo grado; ai sensi e nei limiti dell'art. 421 c.p.c. in grado di appello».

Donzelli, op. cit., § 3.

Altri distinguono a seconda dell'oggetto della causa: se essa ha ad oggetto solo una domanda volta a reprimenere il comportamento antidiscriminatorio, il rito applicabile sarà sempre e solo il rito sommario di cognizione; se invece abbia ad oggetto anche domande inerenti al rapporto di lavoro, allora il rito applicabile sarà quello del lavoro, in virtù dell'art. 40, comma 3, c.p.c.

Pellegrini, op. cit., 370

Per la giurisprudenza, invece, l'azione per ottenere l'accertamento e la repressione di una condotta discriminatoria sul lavoro, ed il conseguente risarcimento del danno, vede la piena applicazione dell'art. 28 d.lgs. n. 150/2011, risultando irrilevante, stante il rinvio all'art. 15 st.lav. operato dall'art. 4 d.lgs. n. 216/2003, – a sua volta richiamato dall'art. 34, comma 34, lett. a), d.lgs. n. 150/2011 – la natura privata o pubblica del rapporto di lavoro e risultando preminenti le finalità sottese alla tutela antidiscriminatoria, in quanto volta alla piena realizzazione del fondamentale principio di uguaglianza.

Cass. civ., 14 febbraio 2017, n. 3936.

L'onere della prova

Stando al 4° comma dell'art. 28 d.lgs. n. 150/2011, «quando il ricorrente fornisce elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico, dai quali si può presumere l'esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori, spetta al convenuto l'onere di provare l'insussistenza della discriminazione. I dati di carattere statistico possono essere relativi anche alle assunzioni, ai regimi contributivi, all'assegnazione delle mansioni e qualifiche, ai trasferimenti, alla progressione in carriera e ai licenziamenti dell'azienda interessata».

La norma, dunque, come è evidente, prevede un regime di facilitazione dell'assolvimento dell'onere della prova a favore della vittima della discriminazione. Per provare il comportamento discriminatorio, infatti, basta allegare in giudizio elementi di fatto desunti anche da dati statistici in base quali si possa presumere che ci sia stata discriminazione. In tal caso, l'onere della prova si ribalta sul presunto autore della discriminazione il quale dovrà dimostrare che il suo comportamento non integra l'illecito; con la conseguenza che in mancanza di assovimento della prova negativa, la discriminazione si darà per provata.

L'art. 28 d.lgs. n. 150/2011 evoca il regime della prova delle presunzioni semplici: dovendosi tuttavia escludere che tale disposizione costituisca un inutile doppione della regola generale prevista dall'art. 2729, comma 2, c.c., sembra che debba farsi leva sul dato letterale dell'art. 28 che non richiama il requisito della «gravità». In sostanza, riguardo alla sussistenza del comportamento discriminatorio l'onere probatorio è asimmetrico: rimane fermo per l'attore l'onere della prova, «ma l'assolvimento di tale onere richiede il conseguimento di un grado di certezza inferiore rispetto a quello consueto» (Donzelli, op. cit., § 4; Di Salvo, op. cit., 862. In giurisprudenza, nel medesimo senso, App. Trento, 7 marzo 2017; Trib. Firenze, 14 marzo 2017; Trib. Milano, 18 settembre 2017).

Il contenuto dell'ordinanza che definisce il giudizio

Ai sensi dell'art. 702-ter, c.p.c., i provvedimenti in materia di discriminazione hanno la forma di ordinanza, con la quale il giudice, quando accoglie la domanda, presenta un contenuto variegato e composito.

In particolare il giudice può: a) ordinare la cessazione del comportamento, della condotta o dell'atto che ha dato luogo alla discriminazione vietata dalla legge; b) adottare ogni altro provvedimento idoneo alla rimozione degli effetti della discriminazione; c) ordinare l'adozione di un piano di rimozione delle discriminazioni accertate; d) condannare il convenuto risarcimento del danno, anche non patrimoniale; e) ordinare la pubblicazione del provvedimento a spese del convenuto su un quotidiano a tiratura nazionale; f) comunicare l'ordinanza alle amministrazioni pubbliche che abbiano concesso benefici al soggetto che ha posto in essere il comportamento discriminatorio.

L'esecuzione del provvedimento di condanna

Per le sole decisioni concernenti le discriminazioni regolate dal d.lgs. n. 286/1998 e dal d.lgs. n. 198/1996, il legislatore delegato ha mantenuto la possibilità di avvalersi dello strumento di coercizione indiretta di cui all'art. 388, comma 2, c.p. che punisce chi elude l'esecuzione di un provvedimento del giudice civile concernente l'affidamento di minori o di incapaci ovvero l'esecuzione di un provvedimento cautelare a difesa della proprietà, del possesso o del credito.

Il legislatore delegato invero non ha ritenuto opportuno prevedere una misura pecuniaria avente carattere generale per il caso di inadempimento degli obblighi disposti entro il termine previsto dal giudice, operando in via generale il meccanismo delle misure coercitive di cui all'art. 614-bis c.p.c..

L'applicazione della norma appena citata invero incontra il limite dei rapporti di lavoro, per cui si pone il problema della sua applicabilità ove la discriminazione si sia realizzata nell'ambito di un rapporto di lavoro subordinato o di collaborazione coordinata e continuativa.

Se per taluni la lettera della norma non permette in tale ipotesi di fare ricorso allo strumento delle misure coercitive (Di Salvo, op. cit., 873), altri, invece, per superare detto ostacolo, fanno leva sulla circostanza che nel caso che ci occupa la controversia ha ad oggetto la sola discriminazione e non anche il rapporto di lavoro, con la conseguenza che l'art. 614-bis deve ritenersi applicabile a tutte le controversie previste dall'art. 28, d.lgs. n. 150/2011; pertanto, va «escluso ogni profilo di illegittimità costituzionale dell'art. 28 nella parte in cui non prevede strumenti penali di coercizione indiretta per l'attuazione delle decisioni di condanna rese nelle controversie in materia di discriminazione» (Pellegrini, op. cit., 373).

Riferimenti
  • Cecchini, Discriminazione contrattuale e tutela della persona, Torino, 2016, 116 ss.;
  • Di Salvo, Discriminazione, in AA. VV., Riordino e semplificazione dei procedimenti civili. Commentario al decreto legislativo 1° settembre 2011, n. 150, a cura di Santangeli, Milano, 2012, 844 ss.;
  • Pacilli, Riflessioni sull'azione civile contro la discriminazione, in RTDPC, 2010, 1409 ss., in part. 1427;
  • Pellegrini, Commento all'art. 28, in AA. VV., La semplificazione dei riti e le altre riforme processuali 2010-2011, a cura di Consolo, Milano, 2012, 365 ss.;
  • Santagada, La tutela giurisdizionale dei diritti dello straniero nel testo unico sull'immigrazione, in Lanfranchi (a cura di) Giusto processo civile e procedimenti decisori sommari, Torino, 2001, 341 ss., in part. 361.

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