Giurisdizione, etica, dignità. Il ruolo del giudice nell'era del biodiritto
17 Marzo 2021
Il termine compare per la prima volta, sul finire del secolo scorso (C. M. MAZZONI (a cura di), Una norma giuridica per la bioetica, Bologna, 1998), ed indica la disciplina che si occupa di tracciare in maniera critica le dimensioni giuridiche relative alle scienze della vita, della cura della salute e dell'essere umano. Nel tempo, il ricorso all'espressione “biodiritto” si moltiplica, soprattutto nella letteratura scientifica. Nel 2010 inizia la pubblicazione del Trattato di biodiritto diretto da Stefano Rodotà e Paolo Zatti; nel 2014 cominciano le pubblicazioni della Rivista di Biodiritto (BioLaw Journal), diretta da Carlo Casonato. Si tratta di una branca del diritto, o forse di un campo di problemi, che nasce in risposta all'emergere di nuove istanze di tutela dalla società, e che lo studioso del diritto affronta alla luce del quadro concettuale della propria disciplina di riferimento: costituzionale, civilistico, penale, filosofico. Nell'era del biodiritto, siamo di fronte ad un nuovo capitolo del discorso fra etica, diritto e giurisprudenza, specie in una stagione giuridica che si è caratterizzata e continua a caratterizzarsi come la sede dell'istituzionalizzazione dei diritti umani e di solidarietà. Mai come in questi casi il giudice non può limitarsi ad essere bouche de la loi, ma è “eticamente”, prima ancora che giuridicamente, tenuto a “creare” la soluzione più adeguata al caso di specie. Ed infatti, il ruolo della giurisprudenza si interseca in maniera diretta con problemi di teoria e filosofia politica, sintomo di una complessità socio-culturale, che merita oggi attenzione primaria. Ecco che ci troviamo di fronte ad un mutamento del ruolo del giudice che, passando dallo ius–dicere allo ius–facere, sconfina in un territorio che non gli è proprio e che, nonostante ciò, è necessario che abiti. Le radici del problema
Il problema nasce dalla mancanza di un assetto normativo definito in tema di biodiritto; esistono, piuttosto, una serie di interventi legislativi, nazionali e sovranazionali, su singole materie. Per tener testa a tale confronto, al giudice finisce per spettare quel ruolo di supplenza di un legislatore assente, diventando così le aule giudiziarie il fisiologico luogo di creazione di diritti, e non di mera affermazione degli stessi.
L'ormai vero e proprio formante giudiziario, in altre parole, viene ad essere preferito a quello legislativo che, proprio a causa della sua rigidità, non è in grado di mantenersi al passo col continuo incedere del reale. Sarebbe un inseguimento affannoso e privo di efficacia, quando invece, nelle aule giudiziarie, il giudice riesce a cogliere e a seguire il prodursi di sempre nuove manifestazioni di vita e, dunque, di diritto. Ed ecco che alla legge rimane il compito di fissare i principi di base, che l'intervento del giudice è tenuto ad adattare ai casi concreti.
Ha ragione Rodotà quando scrive che “il legislatore di oggi deve avere la consapevolezza di maneggiare sempre più spesso una materia mobile, fluida, incandescente che varia nel tempo e nei contesti, e per ciò stesso difficile da affidare a norme che pretendano di chiudere definitivamente una questione. La parola “fine” appartiene sempre meno al linguaggio di chi fa le leggi” (S. RODOTA', Il diritto di avere diritti, Roma-Bari, Laterza, 2012). Teorizzazioni sul ruolo del giudice e della decisione giudiziale
Per comprendere appieno il vero e proprio fenomeno giuridico e sociale del mutamento della funzione del giudice nel contesto attuale, è necessario risalire alle prime profetiche teorizzazioni del medesimo. Ed infatti, la dimensione giurisdizionale del diritto rappresenta oggi la quotidianità dell'esperienza giuridica, ma chi negli anni Sessanta per primo impostò in termini di sistema, nell'ambito del diritto civile, il discorso sul ruolo attivo del giudice fu Rodotà, che in una delle sue opere più magistrali (S. RODOTA', Il diritto di avere diritti, Roma-Bari, op. cit.) ebbe a sostenere che in assenza di un potere politico sovranazionale democratico e legittimo solo il giudice può far valere il diritto di avere diritti. Ecco perchè, secondo Rodotà, “non dobbiamo prestare orecchio a chi denuncia l'«invadenza» del diritto ai danni della politica, ma, al contrario, prendere atto che oggi la buona politica si configura sempre più come politica dei diritti, soprattutto «dopo il tramonto dei grandi soggetti storici”. Ed infatti, in un tempo in cui la realtà, per dirla con Bin, è “indocile e recalcitrante ad ogni irretimento, tanto più a una gabbia legislativa, che è per sua natura tarda e lenta a formarsi”, la figura del giudice e quella del custode dei diritti umani vengono a coincidere (R. BIN, A discrezione del giudice. Ordine e disordine: una prospettiva “quantistica” Franco Angeli Edizioni, Milano, 2014), in un'ottica prospettica che valorizza al massimo la dimensione concreta del diritto e, dunque, il lavoro del giudice.
Rodotà, che della funzione giurisdizionale ebbe per primo una visione neocostituzionalista, operò il passaggio dalla scientia iuris alla juris prudentia, ovvero dalla ratio speculativa a quella pratica, dal costituzionalismo dei diritti al costituzionalismo dei bisogni (S. RODOTA', Il diritto di avere diritti, op. cit.).
Al contrario, la decisione giudiziale si inserisce per Rodotà nel solco della scienza giuridica, in un'ottica di utilizzo della medesima come grimaldello per la trasformazione della società (V. ACCATATIS – L. FERRAJOLI – S. SENESE, Per una Magistratura democratica, in Problemi del socialismo, XV, 1973, n. 12-13, pp. 149 ss.). Si tratta dunque, per il giudice, di inquadrare nei principi sui quali l'intero ordinamento si fonda fenomeni che richiedono di essere regolati con tempestività ed efficacia e che invece continuano a non figurare nelle agende della politica. È un'impresa erculea, per dirla con R. Dworkin; non solo per la mole dei materiali normativi e giurisprudenziali (di origine esterna ed interna all'ordinamento), dei quali va fatto attento e scrupoloso esame, quanto per la natura stessa dei beni della vita evocati in campo dal caso, bisognosi di essere fatti oggetto di delicate operazioni di ponderazione (R. DWORKING, Impero di legge, Cambridge, Massachusetts: Harvard University Press, 1986). Ma allo stesso tempo è un'impresa necessaria, che spesso incontra problemi di legittimazione, ma che permette la tutela dei nuovi diritti della persona ed assicura al giudizio quel grado di eticità che, in qualche misura, garantisce al giudice il diritto di esercitare un'attività sempre più orientata alla produzione giuridica. Ed è proprio l'eticità del giudizio, e della funzione giudiziale, una delle chiavi di lettura del fenomeno, in un'ottica prospettica che non vede l'attività giurisdizionale come mero risultato dell'interpretazione giuridica, ma come criterio per la realizzazione di una politica del diritto orientata alla realizzazione di determinati fini (GRONDONA M., L'auspicabile via libera ai danni punitivi, il dubbio limite dell'ordine pubblico e la politica del diritto di matrice giurisprudenziale (a proposito del dialogo tra ordinamenti e giurisdizioni), in Dir. civ. cont., 31 luglio 2016).
Tali considerazioni sono in effetti il prodotto di un certo modo di concepire la decisione giudiziale; emblematico, in tal senso, è anche il pensiero di Delueze, che intende il sistema giurisdizionale come un organo della vita sociale, e non del potere. Per l'autore (G. BRINDISI, “Il tenore etico o morale del giudizio. Note su diritto e filosofia nella riflessione di Deleuze sulla giurisprudenza”, in Etica & Politica / Ethics & Politics, XVIII, 2016, 3, pp. 163-182), la giurisprudenza non è mai qualcosa di deducibile logicamente ed in modo aprioristico; al contrario, è qualcosa che viene prodotto continuamente nella sfera della prassi. Delueze parla, in particolare, dei luoghi in cui si esercita il potere giurisdizionale come di “luoghi pratici e teorici a un tempo, in cui si gioca la continua negoziazione dei valori in relazione ai conflitti che ridefiniscono di volta in volta l'esistenza collettiva” (A. AMENDOLA, Deleuze e il diritto: la critica della Legge, verso una clinica delle istituzioni, in Rivista critica del diritto privato, anno XXXI, n. 3, settembre 2013). È questo il fulcro della questione, stante che pacifica è ormai la rinegoziazione dei valori di cui Delueze discute. Ed infatti, da un sistema tendenzialmente preordinato alla tutela della proprietà, si è giunti ad affermare, al contrario, un sistema volto alla protezione della persona, ed è a tale mutamento che deve adeguarsi, oggi, la decisione giudiziale, in un contesto in cui il primato della giurisprudenza corrisponde al primato della normatività vivente su quella formale. In altre parole, non è più sostenibile, in termini giuridici, un'idea di diritto dogmatico, il cui il giurista ha il compito di colmare le lacune esistenti tra una norma codicistica e l'altra. Oggi, in un sistema multilivello ed aperto, improntato al pluralismo, il giurista è chiamato ad un compito ben più complesso: quello di partire dalle norme, per poi adattare il diritto alle necessità concrete del fruitore del medesimo, muovendosi nell'ambito della prassi e non del dogma. Oggi che la dimensione giurisdizionale del diritto è ormai fatto di comune evidenza, la questione inizia a recare seco delle zone d'ombra. Da un lato, infatti, la necessità che si percepisce è quella di assicurare al giudice gli strumenti per svolgere bene il suo ruolo di “creatore” del diritto. Dall'altro, è forse opportuno cercare una maniera di riconoscere al giudice una base di legittimazione che lo salvi dall'accusa di usurpatore della funzione legislativa, e che consenta allo stesso di agire a tutela e per la piena affermazione dei diritti fondamentali dell'individuo e, in ultima analisi, della sua dignità.
Proprio la dignità, in questo senso, potrebbe fungere da “categoria ordinante” (G. CALABRESI, The Future of Law and Economics. Essays in Reform and Recollection, New Haven, 2016.); in altre parole, la tutela che il giudice assicura alla dignità umana e ai diritti che vengono quotidianamente in rilievo nell'ambito del biodiritto (primo tra tutti, il diritto alla salute), potrebbe costituire lo scudo del giudice, il suo terreno, appunto, di legittimazione. L'elemento della dignità, in particolare, è spesso presente nella letteratura sui diritti umani, soprattutto a livello sovranazionale: i più importanti documenti internazionali adottati in ambiti istituzionali quali l'Unesco, il Consiglio d'Europa o l'Unione Europea annoverano la dignità umana tra i principi fondamentali cui orientare le attività di tutela della persona umana. Nel tempo, la frequenza dei richiami al concetto di dignità è andata aumentando in maniera esponenziale: dalla Convenione di Oviedo alla dichiarazione Unesco sulla Bioetica, dalla Carta dei Diritti Fondamentali dell'Unione Europea alla Convenzione Europea sui Diritti dell'Uomo e del cittadino, tanto da portare gli studiosi a ritenere che “la dignità dell'uomo costituisca l'unico valore assoluto in un contesto informato al relativismo dei valori” (G. RESTA, “La dignità umana e la funzione di tutela dalla commercializzazione”, in A. Abignente et alii, Dignità della persona. Riconoscimento dei diritti nelle società multiculturali, ES, Napoli, 2013).
La domanda, tuttavia, è se l'astrattezza e la duttilità di un concetto come quello della dignità umana possa, da solo, fungere allo scopo di legittimare il giudice nella sua attività di motore propulsivo del diritto, fuori e dentro la bioetica. Altra questione problematica riguarda la necessità che il giudice operi non solo a tutela dei diritti fondamentali, ma di alcuni più di altri. In altre parole, se creatrice è l'opera del giudice, il bilanciamento dei diritti, anche di quelli fondamentali, si sposta dalla sfera normativa a quella giurisdizionale, mettendo il giudice ancora una volta nella inevitabile condizione di vestire dei panni non suoi. È in questo contesto che soccorre, a parere della scrivente, il cd. “dialogo” tra le Corti, secondo il modello del Court facing Court. La comparazione, infatti, tra gli altri vantaggi, presenta quello di consentire la costruzione di un ponte lungo il quale le tradizioni costituzionali nazionali abbiano modo di divenire comuni. In conclusione
In conclusione, se incerto è l'evolvere di un fenomeno giuridico che vede sempre più il giudice intento nell'opera di ius facere, certa è invece la necessità che questo accada e continui ad accadere, stante il fondamentale ruolo di arbitro morale che il giudice svolge in campo bioetico, specie in un contesto, quale quello odierno, di progressivo imbarbarimento del sistema politico, che si ripercuote inevitabilmente sulla qualità della legislazione. Riferimenti
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