Il decreto ingiuntivo delle banche: la prova del credito tra anatocismo e commissione di massimo scoperto

Pasqualina Farina
24 Marzo 2021

Con l'introduzione dell'art. 50 del Testo unico bancario (d.lgs. 385/1993), gli istituti di credito possono chiedere un decreto ingiuntivo avvalendosi dell'estratto conto, se certificato conforme alle scritture contabili da un dirigente del medesimo istituto, il quale dichiari, inoltre, che si tratta di un credito certo e liquido...

Saldaconto ed estratto conto

Con l'introduzione dell'art. 50 del Testo Unico Bancario (d.lgs. 385/1993), gli istituti di credito possono chiedere un decreto ingiuntivo avvalendosi dell'estratto conto, se certificato conforme alle scritture contabili da un dirigente del medesimo istituto, il quale dichiari, inoltre, che si tratta di un credito certo e liquido. Per consentire un celere recupero dei saldi di conto corrente, la legittimazione a domandare (ed ottenere) un provvedimento monitorio fondato sull'estratto conto è stata, indistintamente, estesa dall'art. 50 surrichiamato a tutti gli istituti di credito. Il legislatore assicura, dunque, alle banche una tutela più intensa rispetto a quella riconosciuta ad altri imprenditori commerciali: non è necessario dimostrare la regolare tenuta delle scritture contabili, né occorre che l'estratto conto venga autenticato da un pubblico ufficiale, essendo sufficiente una certificazione da parte di un funzionario dell'istituto. A differenza del vecchio art. 102 della l. bancaria, l'art. 50 si riferisce specificatamente all'estratto di conto corrente e non più al saldaconto. Da un punto di vista pratico va detto che il saldaconto recava la sola indicazione del saldo; l'estratto conto certificato ex art. 50 contiene le movimentazioni del rapporto (solitamente non tutte, ma solo le più recenti), oltre al saldo e alla data di chiusura.

L'efficacia probatoria e l'approvazione

Le Sezioni Unite hanno precisato che tra i due documenti sussiste una differenza ontologica: l'estratto conto, in forza dell'art. 1832 c.c., ha efficacia probatoria piena anche nel (successivo ed eventuale) giudizio di opposizione; l'estratto dei saldaconti ha invece mero valore indiziario, trattandosi di una scrittura contabile assai più sintetica, dove si riporta il saldo passivo del conto corrente (Cass. civ., sez. un., 18 luglio 1994, n. 6707, in Corriere giur., 1994, 1098. Più di recente, Cass. civ., 19 ottobre 2016, n. 21092; Cass. civ., 19 marzo 2009, n. 6705).

L'estratto conto è trasmesso, ai sensi del comma 2 dell'art. 119 del T.U.B., al correntista perché verifichi l'esattezza delle annotazioni, rendendo definitive le risultanze: se non impugnato nel termine di sessanta giorni dal suo ricevimento, si intende approvato, acquistando così piena efficacia probatoria. Perché si producano tali effetti è comunque necessario che il documento abbia i caratteri della completezza, sì da consentire al debitore una consapevole valutazione della situazione in cui versa il proprio conto. Residua per il correntista, anche nell'ipotesi di esplicita approvazione o di inutile decorso del termine (c.d. approvazione tacita di cui al comma 1 dell'art. 1832 c.c.), il potere d'impugnare il conto per la correzione di vizi formali, a norma del comma 2 della medesima disposizione (errori di scritturazione, di calcolo, omissioni, duplicazioni). L'impugnativa va proposta, a pena di decadenza, entro e non oltre sei mesi dalla ricezione dell'estratto conto.

L'approvazione del documento da parte del cliente rende incontestabile la circostanza che la banca abbia eseguito determinati addebiti e accrediti; di contro rimane impregiudicata la questione se la banca avesse (o meno) il diritto di procedere alle operazioni annotate in base al rapporto di conto corrente. In negativo possiamo dire che la mancata contestazione dell'estratto conto e la connessa implicita approvazione delle operazioni in esso annotate riguardano gli accrediti e gli addebiti considerati nella loro realtà effettuale. A ritenere diversamente risulterebbe illogica sia la previsione di un termine di sei mesi per contestare gli errori materiali, sia a quella di un diverso termine preclusivo di sessanta giorni per le azioni od eccezioni attinenti alla validità sostanziale degli addebiti ovvero degli accrediti. In sintesi, la mancata contestazione del saldo, quale risultato finale delle varie operazioni contabili, consente al cliente di promuovere le azioni e le eccezioni in ordine al rapporto di conto corrente, per contestare eventuali illegittimità del negozio giuridico sottostante.

In un primo momento la Cassazione ha riconosciuto il carattere eccezionale dell'art. 50 del T.U.B., limitando l'efficacia probatoria dell'estratto conto al procedimento sommario (Cass. civ., sez. un., 18 luglio 1994, n. 6707 cit.), con la conseguenza che nel giudizio ordinario l'estratto conto sarebbe un elemento indiziario liberamente apprezzato dal giudice, purché confortato da altri riscontri significativi. Successivamente, la Corte (in tema di prova del credito fornita dagli istituti bancari) ha riconosciuto all'estratto conto, dopo l'inutile decorso del termine dalla sua comunicazione al correntista, carattere di incontestabilità e, conseguentemente, l'idoneità a fungere da prova anche nel successivo ed eventuale giudizio di opposizione instaurato dal cliente. Così, non può ritenersi assolto l'onere probatorio da parte della banca che abbia omesso di produrre gli estratti conto nel giudizio di opposizione; analogamente è insufficiente il mero riferimento, negli atti di causa, all'invio degli estratti conto al correntista, all'avvenuta ricezione ed alla non contestazione degli stessi (Cass. civ., 18 maggio 2006, n. 11749). Sul punto è stato, poi, riconosciuto che gli estratti conto, in difetto di prova contraria e di espressa e specifica deduzione della tempestiva contestazione, sono idonei a provare il credito, anche nei confronti del fideiussore, ove questi non si sia fatto carico di contestarli, stante la decadenza del debitore principale dal diritto di impugnarli, ai sensi dell'art. 1832 c.c. (Cass. civ., 19 dicembre 2007, n. 26754). Con particolare riferimento al certificato di saldaconto, la Suprema Corte ha riaffermato che nel procedimento di opposizione ex art. 645 c.p.c. tale documento è idoneo ad assolvere l'onere della prova dell'ammontare del credito in forza della clausola, contenuta nel contratto di conto corrente, con la quale il cliente riconosca che i libri e le altre scritture contabili della banca facciano piena prova nei suoi confronti (Cass. civ., 2 dicembre 2011, n. 25857).

Il ricorso per decreto ingiuntivo ed il principio della non invocabilità del documento redatto dalla medesima parte

La banca, anche alla luce dell'art. 119 del T.U.B., al ricorso per decreto ingiuntivo deve allegare un documento dal quale risultino tutte le operazioni effettuate tra la data dell'ultima voce contabile indicata nell'estratto conto precedente e la data di redazione del medesimo documento; nonché l'avviso di ricevimento dell'estratto conto. In mancanza della prova della ricezione dell'estratto conto e della non contestazione del cliente, il giudice non può, infatti, emettere il decreto ingiuntivo ex art. 50 del T.U.B.

A differenza di quanto previsto dalla disciplina generale del procedimento monitorio (dove gli artt. 634, comma 2, e 636 c.p.c. predicano il principio della non invocabilità a proprio favore del documento redatto da una delle parti), per l'art. 50 del T.U.B. non occorre, che soggetti terzi (quali notai o pubblici ufficiali) prendano parte alla formazione della prova. Di qui la convinzione che l'art. 50 svolga una funzione propria ed autonoma rispetto alle singole fattispecie di «prova scritta» contemplate dal codice di rito civile: il documento su cui si fonda la domanda giudiziale proviene, infatti, dallo stesso ricorrente, in deroga al principio generale, in materia di prove, per il quale la dichiarazione o il documento redatto da una delle parti è invocabile ai propri danni e non a suo favore. Nel nostro caso è, invece, il dirigente bancario ad attestare l'esistenza del credito nelle scritture contabili e, al contempo, a dichiararne la veridicità e la liquidità.

La certificazione e la dichiarazione del dirigente costituiscono elementi essenziali perché il giudice conceda il decreto ingiuntivo. Ad esse soltanto il dato normativo attribuisce uno specifico valore processuale, in quanto formalità sufficiente per la pronuncia dell'ingiunzione, pur in difetto di una delle prove scritte previste dagli artt. 633 e ss. c.p.c. e, più in particolare, dell'estratto autentico delle scritture di cui agli artt. 2214 e ss. c.c. Così quando dal documento non risulti l'identità del dirigente che ha proceduto alla dichiarazione, il giudice non può concedere il decreto ingiuntivo, trattandosi di una fattispecie assimilabile alla mancanza della dichiarazione di conformità alle scritture contabili e della dichiarazione di verità e liquidità del credito. Il dirigente è, inoltre, responsabile di quanto certificato ed attestato; pertanto, nell'ipotesi di comportamento fraudolento, il decreto emesso in base ad un documento non rispondente al vero può comunque essere revocato. Perché l'istituto possa ricorrere a norma dell'art. 633 c.p.c. è necessario che il credito, oltre ad essere confortato dalle scritture contabili, presenti il carattere della certezza e sia, inoltre, immediatamente esigibile e liquido, vale a dire predeterminato nel suo ammontare, senza necessità di calcoli. Occorre, poi, segnalare che le agevolazioni probatorie di cui all'art. 50 del T.U.B. riguardano i soli crediti derivanti da un rapporto di conto corrente e non anche quelli che hanno origine in diverse fattispecie negoziali: in quest'ultimo caso gli istituti di credito sono tenuti a rispettare le condizioni imposte in linea generale dagli artt. 633 e ss. c.p.c.

La fase dell'opposizione

Il correntista al quale sia stato notificato il provvedimento monitorio può proporre opposizione nel rispetto delle norme stabilite dal codice di rito.

Nella fase di opposizione si recuperano le regole della cognizione piena su quanto è stato richiesto con il decreto ingiuntivo, atteso che la cognizione del giudice dell'opposizione non è limitata al controllo sulla legittimità dell'emissione del provvedimento monitorio che si estende automaticamente alla sussistenza della relativa pretesa creditoria (Cass. civ., 5 gennaio 2010, n. 28). Così, nel corso dell'ordinario giudizio di cognizione instaurato dall'opponente, il creditore (opposto) conserva la qualità di parte attrice in senso sostanziale sulla quale grava il relativo onere probatorio: ciascuna delle parti viene ad assumere la propria naturale posizione sostanziale, posto che la qualità di attore spetta al creditore che ha richiesto l'ingiunzione (convenuto in opposizione) e quella di convenuto al debitore opponente (attore in opposizione); pertanto l'onere della prova del credito incombe al creditore opposto, mentre all'opponente spetta solo di provare, ex art. 2697 c.c., i fatti estintivi, modificativi o impeditivi (ex multis, Cass. civ., 17 novembre 2003, n. 17371).

Premesso che la concessione della provvisoria esecuzione segue le regole stabilite dall'art. 648 c.p.c., ove non sia già stata riconosciuta ex art. 642 c.p.c., va chiarito che l'estratto conto certificato ex art. 50 del T.U.B. non perde comunque interamente l'efficacia probatoria nel giudizio di opposizione; tuttavia, la circostanza che il decreto ingiuntivo sia stato pronunciato in difetto di contraddittorio impone al giudice dell'opposizione di verificare - anche d'ufficio - l'effettivo ammontare del credito rispetto ai conteggi riportati nell'estratto conto sul quale è basato il provvedimento monitorio. Così, la banca è onerata ad integrare la produzione documentale, allegando gli estratti conto integrali di rapporto, al fine di dimostrare gli elementi costitutivi del proprio credito sin dall'origine del medesimo (Cass. civ., 10 gennaio 2018, n. 371). Si tratta di un onere che non può essere eluso adducendo l'insussistenza dell'obbligo di conservare le scritture contabili per un periodo superiore ai dieci anni, posto che l'onere di conservazione della documentazione contabile è affatto diverso da quello di prova del proprio credito (Cass. civ., 20 aprile 2016, n. 7972; Cass. civ., 18 settembre 2014, n. 1969). L'allegazione parziale degli estratti conto, in difetto della produzione del saldo iniziale del conto corrente, conduce al rigetto della domanda per il mancato assolvimento dell'onere della prova incombente sulla banca che ha intrapreso il giudizio (Cass. civ., 2 maggio 2019, n. 11543; rimane così superato il precedente orientamento sull'applicabilità di un saldo iniziale a «zero» sostenuto in precedenza da Cass. civ., 9 marzo 2016, n. 4567).

Analogo onere incombe poi sul correntista che, nel giudizio di opposizione, non si limiti a contestare il credito della banca, ma chieda la ripetizione di somme indebitamente versate alla banca. In tal caso anche il correntista deve dimostrare il proprio credito, con la produzione di tutti gli estratti conto, a partire dal saldo risultante nel primo estratto conto (Cass. civ., 2 maggio 2019, n. 11543). Quanto all'onere della banca in merito alla produzione documentale nel giudizio di opposizione, la Cassazione ha ritenuto che i documenti allegati al ricorso per ingiunzione, ove non siano stati prodotti dalla banca nella fase di opposizione, possano comunque depositarsi nel successivo giudizio di appello, senza alcuna preclusione, non trattandosi di documenti «nuovi» (Cass. civ., 22 agosto 2019, n. 21626; Cass. civ., 4 aprile 2017, n. 8693).

L'evoluzione normativa e giurisprudenziale dell'anatocismo

La fondatezza della pretesa creditoria deve pure valutarsi, in sede di opposizione, tenendo presente eventuali profili di nullità delle clausole inerenti agli interessi, la sussistenza di una convenzione scritta sulla determinazione della misura degli stessi e, più in generale, la legittimità dei conteggi in riferimento al superamento dei cc.dd. tassi soglia ed al computo della capitalizzazione trimestrale. Al riguardo si consideri che la clausola relativa alla corresponsione di interessi in misura superiore a quella legale (come pure la modifica della clausola che comporta il superamento della soglia legale) richiede la forma scritta ad substantiam, il cui difetto determina la nullità della clausola stessa, con automatica sostituzione della misura convenzionale con quella legale. Dal proprio canto, la Suprema Corte ha avuto modo di precisare che il requisito della forma scritta per la determinazione degli interessi extra-legali, a norma dell'ultimo comma dell'art. 1284 c.c., non postula necessariamente una specifica indicazione del tasso stabilito; è, difatti, sufficiente un richiamo scritto a criteri predeterminati e ad elementi estrinseci al documento negoziale, funzionali alla concreta individuazione del saggio di interesse (Cass. civ., 11 novembre 2005, n. 22898). In ossequio al disposto di cui al comma 3 dell'art. 1284 c.c., la convenzione sugli interessi è, dunque, validamente stipulata quando il tasso può essere calcolato mediante criteri oggettivamente indicati.

L'anatocismo è, a ben guardare, istituto che presenta da sempre notevoli criticità, superate in parte dall'art. 1283 c.c., secondo il quale «In mancanza di usi contrari, gli interessi scaduti possono produrre interessi solo dal giorno della domanda giudiziale o per effetto della convenzione posteriore alla loro scadenza, e sempre che si tratti di interessi dovuti almeno per sei mesi». Quanto alla nozione di usi contrari la Suprema Corte (Cass. civ., 17 aprile 1997, n. 3296) riteneva vi rientrassero gli usi negoziali bancari, cioè quelli contenuti nei modelli dell'ABI, solitamente richiamati nei contratti di conto corrente bancario sottoscritti dai clienti, dove si stabiliva che, ogni tre mesi, sulle somme dovute per il saldo negativo si aggiungessero al capitale gli interessi maturati, producendo così altri interessi. Tuttavia, mentre gli interessi con saldo attivo per il cliente continuavano ad essere accreditati e capitalizzati annualmente, i conti debitori venivano chiusi trimestralmente, con conseguente addebito degli interessi dovuti dal correntista, interessi che - a loro volta - ne avrebbero prodotto ulteriori.

In un secondo momento, la Corte (v. Cass. civ., 30 marzo 1999, n. 3036; Cass. civ., 16 marzo 1999, n. 2374) ha mutato orientamento, affermando che in forza dell'art. 1283 c.c. gli usi che rendono irrilevante la normativa anatocistica non sono quelli negoziali, ma quelli normativi ex artt. 18 e 19 delle Preleggi; sicché, mancando qualsiasi riscontro di tali usi bancari nelle raccolte ufficiali presso le camere di commercio, si applicavano i limiti posti dall'art. 1283 c.c., senza che il cliente pagasse gli interessi anatocistici previsti dall'originario contratto (v. Cass. civ., sez. un., 4 novembre 2004, n. 21095).

In seguito al revirement della Cassazione, il d.lgs. 342/1999, del comma 2 dell'art. 120 del T.U.B., ha conferito al CICR il potere di individuare modalità e criteri per la determinazione di interessi nelle operazioni in conto corrente. La delibera del CICR 9 febbraio 2000 ha, innanzitutto, previsto che il conteggio degli interessi creditori e debitori deve presentare la stessa periodicità e che il saldo risultante dalla chiusura di un conto corrente è idoneo a produrre interessi, solo se contrattualmente stabilito e senza capitalizzazione periodica. In secondo luogo, è stato disposto che i contratti di conto corrente specifichino la periodicità di capitalizzazione, e che - se la periodicità è inferiore all'anno - va indicato l'equivalente tasso annuale. Infine, le clausole contenute nei contratti stipulati prima dell'entrata in vigore della delibera possono essere adeguate mediante pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale e debitamente portate a conoscenza del cliente, sempre che non determinino un peggioramento delle condizioni contrattuali a questi riservate.

Va pure chiarito che l'art. 25, comma 3, del d. lgs. 342/1999, ha disposto che «le clausole relative alla produzione di interessi sugli interessi maturati, contenute nei contratti stipulati anteriormente alla data di entrata in vigore della delibera di cui al comma 2, sono valide ed efficaci fino a tale data e, dopo di essa, debbono essere adeguate al disposto della menzionata delibera, che stabilirà altresì le modalità e i tempi dell'adeguamento. In difetto di adeguamento, le clausole divengono inefficaci e l'inefficacia può essere fatta valere solo dal cliente». Poco dopo, il Giudice delle leggi ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 25, comma 3, del d. lgs. 342/1999 per eccesso di delega (Corte cost., 17 ottobre 2000, n. 425). Così, l'incostituzionalità dell'art. 25, comma 3, ha comportato la radicale nullità delle clausole anatocistiche inserite in contratti di conto corrente conclusi prima dell'entrata in vigore della delibera CICR 9 febbraio 2000, con conseguente impraticabilità del giudizio di comparazione previsto dal comma 2 dell'art. 7 della delibera del CICR, teso a verificare se le nuove pattuizioni abbiano o meno comportato un peggioramento delle condizioni precedentemente applicate; sicché in tali contratti perché sia introdotta validamente una nuova clausola di capitalizzazione degli interessi, è necessaria una espressa pattuizione formulata nel rispetto dell'art. 2 della predetta delibera (Cass. civ., 19 maggio 2020, n. 9140).

In sintesi: per effetto della modifica ex d.lgs. 342/1999 intervenuta dopo il mutato orientamento della Suprema Corte dal 1 ottobre 1999 (sino all' aprile 2014 (come si dirà tra poco per effetto della modifica apportata dalla l. 147/2013), il comma 2 dell'art. 120 surrichiamato era nel senso che «Il CICR stabilisce modalità e criteri per la produzione di interessi sugli interessi maturati nelle operazioni poste in essere nell'esercizio dell'attività bancaria, prevedendo in ogni caso che nelle operazioni in conto corrente sia assicurata nei confronti della clientela la stessa periodicità nel conteggio degli interessi sia debitori sia creditori».

Con l'art. 1, comma 629, della l. 147/2013 (cd. legge di stabilità) è stata apportata una modifica all'art. 120, comma 2, del T.U.B. per cui «Il CICR stabilisce modalità e criteri per la produzione di interessi nelle operazioni poste in essere nell'esercizio dell'attività bancaria, prevedendo in ogni caso che: a) nelle operazioni in conto corrente sia assicurata, nei confronti della clientela, la stessa periodicità nel conteggio degli interessi sia debitori sia creditori; b) gli interessi periodicamente capitalizzati non possano produrre interessi ulteriori che, nelle successive operazioni di capitalizzazione, sono calcolati esclusivamente sulla sorte capitale»,con ciò individuando una distinzione fra capitalizzazione e anatocismo. In particolare, la seconda parte della norma (con efficacia dal 1 gennaio 2014) sembrava eliminare l'anatocismo, in chiara discontinuità col meccanismo della delibera CICR del 2000, in forza della quale l'anatocismo era possibile secondo criteri e modalità specifici per la materia bancaria.

Alla luce delle innovazioni apportate dal d.l. 18/2016, convertito in l. 49/2016, l'art. 102 prevede che: «Il CICR stabilisce modalità e criteri per la produzione di interessi nelle operazioni poste in essere nell'esercizio dell'attività bancaria, prevedendo in ogni caso che: a) nei rapporti di conto corrente o di conto di pagamento sia assicurata, nei confronti della clientela, la stessa periodicità nel conteggio degli interessi sia debitori sia creditori, comunque non inferiore ad un anno; gli interessi sono conteggiati il 31 dicembre di ciascun anno e, in ogni caso, al termine del apporto per cui sono dovuti; b) gli interessi debitori maturati, ivi compresi quelli relativi a finanziamenti a valere su carte di credito, non possono produrre interessi ulteriori, salvo quelli di mora, e sono calcolati esclusivamente sulla sorte capitale; per le aperture di credito regolate in conto corrente e in conto di pagamento, per gli sconfinamenti anche in assenza di affidamento ovvero oltre il limite del fido: 1) gli interessi debitori sono conteggiati al 31 dicembre e divengono esigibili il 1 marzo dell'anno successivo a quello in cui sono maturati; nel caso di chiusura definitiva del rapporto, gli interessi sono immediatamente esigibili; 2) il cliente può autorizzare, anche preventivamente, l'addebito degli interessi sul conto al momento in cui questi divengono esigibili; in questo caso la somma addebitata è considerata sorte capitale; l'autorizzazione è revocabile in ogni momento, purché prima che l'addebito abbia avuto luogo».

È stata così reintrodotta la previsione dell'anatocismo bancario con l'aggiunta del meccanismo di autorizzazione preventiva revocabile liberamente. In pratica, l'anatocismo è consentito con la clausola di pari periodicità e in presenza della previa autorizzazione del cliente che può sussistere anche al momento della costituzione del rapporto, derogando alla regola generale posta dall'art. 1283 c.c., purché vi sia la forma scritta ex art. 117 del T.U.B.

Infine, il 3 agosto 2016 il CICR ha emanato la delibera recante, «modalità e criteri per la produzione degli interessi nelle operazioni poste in essere nell'esercizio dell'attività bancaria» in attuazione dell'art. 120, comma 2, del T.U.B. Gli interessi debitori maturati non possono produrre interessi, salvo gli interessi di mora (art. 3, comma 1 della delibera), ai quali «si applicano le disposizioni del codice civile» (art. 3, comma 2, della delibera), riproducendo il novellato art. 120, comma 2, lettera b) del T.U.B.

A differenza della delibera CICR del 2000, in forza della quale gli interessi di mora potevano prodursi anche sulla quota di interessi corrispettivi (se negozialmente previsti) la delibera del 2016 adotta un generale richiamo alle regole del c.c. Così, se si ritiene che tale delibera supporti la tesi della piena vigenza dell'art. 1283 c.c., si finisce per limitare il computo degli interessi di mora anche sugli interessi corrispettivi solo ove questi ultimi siano scaduti da sei mesi e, soprattutto, solo dal giorno della domanda giudiziale (pur risultando improbabile una convenzione posteriore alla scadenza degli interessi in una fase patologica del rapporto). Da tale assetto deriva, inoltre, una disciplina ben più restrittiva per gli interessi di mora rispetto a quella degli interessi corrispettivi (la cui capitalizzazione può essere autorizzata preventivamente), disciplina che, inoltre, appare distonica con il fatto che i primi hanno una funzione diversa da quelli corrispettivi e che attengono alla fase patologica del rapporto obbligatorio. Per concludere: la delibera CICR del 3 agosto 2016, si allinea all'art. 120 del T.U.B. vietando la capitalizzazione degli interessi, tranne nel caso d'interessi di mora. Al risparmiatore è poi garantito un periodo di trenta giorni prima che gli interessi maturati diventino esigibili. Così a far data dal 1 ottobre 2016 le nuove aperture di credito in c/c, comprese le operazioni di anticipo su crediti e documenti, gli sconfinamenti e i contratti già in essere, hanno dovuto conformarsi alla nuova disciplina normativa dell'art. 120 surrichiamato.

La commissione di massimo scoperto

Le contestazioni del cliente possono avere ad oggetto anche le somme pretese dalla banca per la commissione di massimo scoperto, intesa come il corrispettivo dell'obbligazione assunta dalla banca di tenere a disposizione del cliente una determinata somma di denaro per un periodo di tempo (determinato o indeterminato), indipendentemente dal suo effettivo utilizzo.

La giurisprudenza di legittimità ha definito la c.m.s. quale «remunerazione accordata alla banca per la messa a disposizione dei fondi a favore del correntista indipendentemente dall'effettivo prelevamento della somma», riconoscendone, in un obiter dictum, la legittimità (Cass. civ., 18 gennaio 2006, n. 870). In altra occasione, la Cassazione ha affermato che «la natura e la funzione della commissione non si discosta da quella degli interessi anatocistici, essendo entrambi destinati a remunerare la banca dei finanziamenti erogati» (Cass. civ., 26 febbraio 2014, n. 4518). Più di recente è stato detto che la c.m.s. rappresenta «la remunerazione dell'obbligo della banca di tenere a disposizione dell'accreditato una determinata somma per un determinato periodo di tempo, indipendentemente dalla sua utilizzazione, anche luce delle indicazioni emergenti dalle istruzioni della Banca d'Italia» (Cass. civ., 3 novembre 2016, n. 22270).

Nelle «Istruzioni per la rilevazione del tasso effettivo globale medio ai sensi della legge sull'usura» emanate dalla Banca d'Italia il 30 settembre 1996 (e valide fino a dicembre 2009), si legge che tale commissione rappresenta «il corrispettivo pagato dal cliente per compensare l'intermediario dell'onere di dover essere sempre in grado di fronteggiare una rapida espansione nell'utilizzo dello scoperto del conto. Tale compenso - che di norma viene applicato allorché il saldo del cliente risulti a debito per oltre un determinato numero di giorni - viene calcolato in misura percentuale sullo scoperto massimo verificatosi nel periodo di riferimento».

Quanto alla disciplina normativa va detto che il d.l. 185/2008 «Misure urgenti per il sostegno a famiglie, lavoro, occupazione e impresa e per ridisegnare in funzione anti-crisi il quadro strategico nazionale», convertito, con modificazioni, dalla l. 2/2009, che, con l'art. 2-bis (inserito in sede di conversione), ha introdotto nell'ordinamento significative novità in materia di contratti bancari. In sintesi, il legislatore ha riconosciuto la legittimità della commissione di massimo scoperto, anche ove si tratti di commissione di messa a disposizione dei fondi; al contempo ha introdotto diverse limitazioni a tutela della clientela ed ha stabilito la nullità delle clausole contrattuali stipulate in violazione delle suddette limitazioni; e che la c.m.s. è rilevante, dalla data di entrata in vigore della legge di conversione, ai fini dell'applicazione dell'art. 1815 c.c. e dell'art. 644 c.p.

Successivamente, l'art. 6-bis del d.l. 201/2011 «Disposizioni urgenti per la crescita, l'equità e il consolidamento dei conti pubblici», convertito, con modificazioni, dalla l. 214/2011, inserito in sede di conversione, ha introdotto nel T.U.B. l'art. 117-bis rubricato «Remunerazione degli affidamenti e degli sconfinamenti». A breve distanza, l'art. 27, comma 4, del d.l. 24 1/2012 «Disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività», convertito, con modificazioni, dalla l. 27/2012, ha abrogato i commi 1 e 3 dell'art. 2- bis del d.l. 185/2009 e poi l'art. 1, comma 1, del d.l. 29/2012 «Disposizioni urgenti recanti integrazioni al decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, convertito, con modificazioni, dalla l. 24 marzo 2012, n. 27, e al decreto legislativo 1 settembre 1993, n. 385, nonché modifiche alla l. 31 luglio 1997, n. 249», convertito, con modificazioni, in l. 62/2012, ha novellato il citato art. 117-bis del T.U.B.

Infine, in attuazione di quanto disposto dall'art. 117-bis, comma 4, è stato approvato il d.m. 644/2012, «Disciplina della remunerazione degli affidamenti e degli sconfinamenti in attuazione dell'articolo 117-bis del Testo unico bancario», entrato in vigore il 1 luglio 2012. In particolare, il comma 1 tipizza le commissioni di affidamento per l'apertura di credito in conto corrente; il comma 2 regola le commissioni applicabili in caso di sconfinamento; il comma 3 prevede la nullità delle clausole che prevedono oneri diversi da quelli indicati nei commi precedenti. Il comma 4, infine, riconosce al CICR il potere di adottare disposizioni, anche di trasparenza, che ampliano l'operatività della norma per contratti ulteriori rispetto ad aperture di credito e conti correnti per rafforzare la tutela del cliente. Così, i contratti di apertura di credito possono prevedere, quali unici «oneri» per il cliente, da un lato, una commissione «omnicomprensiva» (ma inferiore allo 0,5 per cento per trimestre), calcolata in maniera proporzionale rispetto alla somma a disposizione del cliente e alla durata dell'affidamento, dall'altro, un tasso di interesse debitore sulle somme utilizzate.

In base all'art. 3, comma 2, lett. ii), del d.m. 644/2012, la commissione di affidamento opera «sull'intera somma messa a disposizione del cliente in base al contratto», e per il periodo in cui la stessa somma è messa a disposizione del cliente. Sono consentite le sole commissioni calcolate in maniera proporzionale rispetto alla somma messa a disposizione del cliente e alla durata dell'affidamento e non possono porsi oneri ulteriori rispetto alla nuova commissione di affidamento, né per la messa a disposizione di fondi, né per il loro utilizzo, tra cui la commissione per l'istruttoria, nonché ogni altro corrispettivo per attività che sono ad esclusivo servizio dell'affidamento (art. 3, comma 2, lett. i), d.m. 644/2012). Per quanto riguarda invece gli sconfinamenti, è stabilito che gli unici oneri prevedibili a carico del cliente sono una commissione di istruttoria veloce e il tasso d'interesse debitore (cfr. art. 4, comma 1, lett. a) e lett. b), d.m. 644/2012) - La suddetta commissione opera sia in caso di addebiti che determinano uno sconfinamento, sia in caso di addebiti che accrescono l'ammontare di uno sconfinamento esistente (purché determinino la necessità di una nuova istruttoria), sempre che sussista sconfinamento sul saldo disponibile di fine giornata. La commissione di istruttoria viene determinata nel contratto in misura fissa, tenuto conto dei costi; costi che possono considerarsi il limite intrinseco, ovvero la misura, dell'importo richiesto (art. 4, comma 2, d.m. 644/2012). Infine, devono essere resi noti al cliente dei casi di applicazione della commissione, quali stabiliti dall'intermediario nell'ambito delle procedure appositamente formalizzate.

Ci si limita qui a segnalare, per completezza che le Sezioni unite hanno risolto, con la pronuncia n. 16303/2018, la quaestio della rilevanza della commissione di massimo scoperto ai fini del calcolo del TEG (tasso effettivo globale) per il periodo antecedente al 1 gennaio 2010. In base a tale pronuncia è necessario svolgere una doppia comparazione, la prima tra il TEG e il tasso soglia e la seconda tra la commissione di massimo scoperto concretamente applicata e quella «soglia». Occorre, inoltre, compensare l'importo dell'eventuale eccedenza della commissione di massimo scoperto con il margine degli interessi che sia eventualmente residuato, da calcolarsi sottraendo il TEG alla soglia di legge: sussiste usura qualora a seguito di detta compensazione dovesse sussistere ancora un importo residuale. La scelta delle Sezioni unite nell'avallare il principio di simmetria ed imporre la comparazione separata è, chiaramente, nel senso di tutelare le ragioni del correntista a discapito di quelle dell'istituto di credito.

Riferimenti
  • Alpa, Il linguaggio omissivo del legislatore, in Riv. trim dir. proc. civ., 2017, 415;
  • De Santis F., Oneri di allegazione ed oneri probatori nel contenzioso bancario, con particolare riferimento alle azioni di nullità e di ripetizione per indebito in Banca, borsa, tit. credito,2017, pp. 757 ss.;
  • Farina P., Commento all'art. 50 t.u.l.b., in Commento al Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, a cura di C. Costa, Torino 2013, II, 504 ss.
  • Ferro Luzzi, Una nuova fattispecie giurisprudenziale: l'anatocismo bancario; postulati e conseguenze, in Giur. Comm., 2001, 5;
  • Maimeri, L'art. 120, comma 2, t.u.b. fra ordinanze di tribunale e modifiche normative, inDir. banca e mercato fin., 2016, 351;
  • Morera, Anatocismo bancario: questioni aperte sul nuovo art. 120, comma 2, t.u.b., in Banca, borsa, tit. credito, 2017, 122;
  • Nigro, L'anatocismo nei rapporti bancari tra passato e futuro, in Foro it., 2000, I, 460;
  • Passeretta, Il costo del credito tra clausole di salvaguardia anti-usura e commissioni di massimo scoperto, in Banca, borsa, tit. credito, 2018, 40;
  • Tarzia, La prova dei contratti bancari e dei crediti bancari, in Dir. banca e mercato fin., 1995, 495.

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