Il vaccino anti-COVID come “bene comune”: una logica solidale per tutelare il diritto alla salute
13 Aprile 2021
Sul tema dei beni comuni si è riaperto il dibattito in ambito politico, giuridico, economico e filosofico, che si era un po' affievolito negli ultimi anni dopo il successo del referendum sull'acqua nel 2011. Considerata la polisemia del concetto di «beni comuni» è opportuno muovere da una premessa semantica, considerando l'accezione adottata dai giuristi. Dal punto di vista teleologico possono definirsi «beni comuni» – secondo la nozione elaborata dalla Commissione presieduta da Stefano Rodotà, istituita presso il Ministero della giustizia il 21 giugno 2007, al fine di elaborare uno schema di legge delega per la modifica delle norme del codice civile in materia di beni pubblici – quei beni, materiali e immateriali, «che esprimono utilità funzionali all'esercizio dei diritti fondamentali nonché al libero sviluppo della persona» e che, come tali, devono essere oggetto di tutela da parte dell'ordinamento anche a beneficio delle generazioni future («principio della salvaguardia intergenerazionale», cfr. «Delega al Governo per la modifica del codice civile in materia di beni pubblici», pagg. 2 e 9, reperibile sul sito https://www.senato.it/). L'eterogenea categoria dei beni comuni è, dunque, individuabile in relazione alla loro funzione. E poiché ciò che connota tali beni è proprio la realizzazione di interessi condivisi e di peculiare rilevanza sociale, vi deve essere la garanzia della loro fruizione collettiva e la non assoggettabilità a un prezzo quale corrispettivo del loro utilizzo e, dunque, la loro sottrazione alle pure logiche del mercato, ovvero al massiccio ricorso alla privatizzazione o forme di gestione privata. Più recentemente, il Comitato di Difesa dei Beni Pubblici e Comuni «Stefano Rodotà» ha riportato al centro del dibattito la questione, attraverso una proposta di legge di iniziativa popolare («Disegno legge delega Commissione Rodotà beni comuni, sociali e sovrani»), presentata alla Camera dei Deputati nel novembre 2019. Anche se non ancora a livello legislativo, la categoria dei beni comuni ha avuto comunque riconoscimento nel nostro ordinamento. Di esempi se ne potrebbero fare molti.
Nel 2011 le Sezioni Unite della Corte di cassazione, in relazione alle cosiddette valli da pesca della laguna di Venezia, hanno affermato: «dalla applicazione diretta degli art. 2, 9 e 42 cost. si ricava il principio della tutela della personalità umana e del suo corretto svolgimento, nell'ambito dello Stato sociale, anche in relazione al "paesaggio", con specifico riferimento non solo ai beni costituenti, per classificazione legislativa-codicistica, il demanio e il patrimonio oggetto della "proprietà" dello Stato, ma anche riguardo a quei beni che, indipendentemente da una preventiva individuazione da parte del legislatore, per loro intrinseca natura o finalizzazione, risultino, sulla base di una compiuta interpretazione dell'intero sistema normativo, funzionali al perseguimento e al soddisfacimento degli interessi della collettività e che - per tale loro destinazione alla realizzazione dello Stato sociale - devono ritenersi "comuni", prescindendo dal titolo di proprietà, risultando così recessivo l'aspetto demaniale a fronte di quello della funzionalità del bene rispetto ad interessi della collettività» (Cass. civ., sez. un., 14 febbraio 2011, n. 3665, in Giust. civ. Mass. 2011, 2, 245; Giust. civ. 2011, 12, I, 2843, nota di CIAFARDINI). La disciplina dei beni comuni è stata oggetto di approfondimenti dottrinali con riferimento, tra gli altri, alle risorse naturali e paesaggistiche, ai beni culturali, ambientali, archeologici, con particolare riguardo alla loro protezione, alla limitazione della loro concessione a privati e alla garanzia di accesso a tutti i consociati, «compatibilmente con l'esigenza prioritaria» – come si è detto – «della loro preservazione a vantaggio delle generazioni future» (cfr. «Delega al Governo per la modifica del codice civile in materia di beni pubblici», cit., pag. 6). Vengono ricompresi nella categoria dei beni comuni gli assetti fondiari collettivi («usi civici»), che garantiscono l'accesso e l'uso di territori agricoli e silvo-pastorali da parte della collettività (MARINELLI).
In ambito amministrativo può citarsi, tra i tanti, un contenzioso generatosi a seguito di un'iniziativa di sfruttamento privato di acque minerali collegate a una sorgente. Nella sentenza del Consiglio di Stato, ove sono richiamate le considerazioni introduttive del TAR, ritenute condivisibili, si legge: «[...] Non può negarsi che, di regola, prelevare un acqua minerale impoverisce l'ambiente della zona interessata. Si tratta quindi di stabilire, da un lato, se detta sottrazione sia compatibile con le esigenze di tutela ambientale e con il mantenimento degli usi della risorsa idrica che rivestono carattere prioritario rispetto allo sfruttamento commerciale (a cominciare da quello idropotabile diretto). Dall'altro se, accertata detta compatibilità (che equivale alla possibilità di estrazione dell'acqua minerale), vi sia anche un'adeguata convenienza, per la collettività locale e per quella regionale, a consentire quella che, comunque (anche se compatibile) rimane una sottrazione di risorse». Per il giudice amministrativo, quindi, lo sfruttamento privato di una risorsa (bene) comune, nel caso di specie le acque minerali della sorgente, determina per la comunità di riferimento un impoverimento proprio per la cessione dell'utilizzo di detta risorsa, e tale concessione è giustificabile solo a fronte di un'adeguata convenienza per la collettività stessa (i.e. un'apprezzabile ricaduta sull'economia locale), che compensi l'impoverimento subìto (Cons. di Stato, sez. V, sent. 4 agosto 2011, n. 4679). «La categoria dei beni comuni» – osserva RODOTÀ –«ha uno spiccato carattere relazionale, produce legami sociali, attribuisce rilevanza primaria al principio di solidarietà. Anzi, i beni comuni si presentano sempre più nettamente come una vera e propria istituzione della solidarietà. L'accesso, costruito come diritto fondamentale della persona rispetto ad una categoria di beni, perde l'ambiguità legata ad una sua presunta attitudine a far divenire superflua la presenza di una proprietà che, invece, rimane presente attraverso i poteri che possono essere esercitati dal fornitore di beni o servizi. Il trasferimento della funzione sociale dalla proprietà ai beni istituisce un diretto collegamento tra uso del bene e sua attitudine a rendere effettivi i diritti fondamentali» (I beni comuni L'inaspettata rinascita degli usi collettivi, Napoli, 2018, pag. 82). Sempre per RODOTÀ rientrano nella categoria dei «beni comuni» anche alcuni beni immateriali, eterogenei e di centrale rilevanza, tra i quali – in rapporto al fondamentale diritto alla salute – le formule di determinati farmaci essenziali per curare gravi patologie, questione che investe la rivendicazione del diritto di produrre a basso costo farmaci necessari per curare l'intera popolazione, in modo tale che la salute venga tutelata non in modo selettivo, in altre parole solo a chi ha le risorse per acquistare tali farmaci. In proposito, va ricordata la decisione della Corte Suprema indiana che nel 2013 ha respinto il ricorso di una società farmaceutica per il riconoscimento del brevetto di una forma modificata di un farmaco per curare una patologia onco-ematologica e, dunque, contro la produzione locale di tale farmaco. Il governo indiano aveva concesso la possibilità di produrre localmente e vendere questo farmaco salva-vita, ritenendo inapplicabile nella fattispecie la legge sui brevetti, adottata nel 2005 dall'India come parte del processo di adesione alla World Trade Organization (WTO, Organizzazione mondiale del commercio). La sentenza, rigettando la domanda della società farmaceutica (non dimostrando la nuova versione del farmaco una maggiore efficacia terapeutica rispetto a quella precedente), ha consentito la produzione del medicinale come equivalente generico low cost, così tutelando il diritto di accesso al farmaco e, con esso, il diritto alla salute della popolazione. Nello stesso anno in India è stato respinto il ricorso di altra società farmaceutica, che si era rivolta all'Intellectual Property Appellate Board (IPAB) per ottenere l'annullamento della decisione di cessione a una società indiana di un brevetto per produrre a basso costo un farmaco antitumorale.
Fatta questa doverosa premessa sulla definizione di «beni comuni» e sul riconoscimento di tale categoria nel nostro ordinamento grazie al diritto vivente, si esamina ora la possibilità di ricomprendere in essa il vaccino anti Covid-19. Secondo la World Health Organization (WHO, Organizzazione mondiale della sanità), così come per la comunità medico-scientifica, i vaccini attualmente disponibili e prodotti in tempi molto più celeri rispetto al passato (risultato reso possibile anche grazie a finanziamenti pubblici per le attività di ricerca e di sviluppo), costituiscono – congiuntamente a terapie più efficaci (sebbene, purtroppo, non ancora risolutive) e diagnosi più precoce – lo strumento più incisivo per fermare o, quantomeno, arginare significativamente la trasmissione di SARS-CoV-2.
In questa prospettiva, il vaccino costituisce un «bene comune», in quanto non solo tutela la salute individuale ma, al contempo, apporta un contestuale beneficio per la collettività, contrastando la propagazione dell'infezione. Del resto, la salute è definita dalla Carta costituzionale come «fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività» (art. 32), sicché il raggiungimento di questo obiettivo è di interesse generale e prioritario, e le attività strumentali alla sua realizzazione devono essere sottratte alle regole del mercato e gestite in modo tale da garantire il pieno ed effettivo accesso a tutti. Detto altrimenti, l'accessibilità universale al vaccino anti Covid-19 deve essere un obiettivo centrale, tenuto conto peraltro che il fattore tempo, nel contrasto alla diffusione dell'epidemia a livello globale è cruciale, nel senso che quanto più a lungo viene mantenuta la circolazione del virus tanto più probabili sono le sue pericolose varianti (MAGATTI). Ciononostante, si riscontra ad oggi un'insufficiente disponibilità (e, dunque, somministrazione) di dosi di vaccino. Ulteriore criticità è rappresentata dai costi dei vaccini. Ma se il vaccino deve essere inteso come «bene comune», allora esso va condiviso ed equamente distribuito tra tutti i Paesi, senza che prevalgano gli interessi nazionali e quelli dell'industria farmaceutica. Il Direttore generale della WHO, Tedros Adhanom Ghebreyesus ha evidenziato come il «me-first approach» ai vaccini da parte di alcuni Paesi e produttori sta mettendo a rischio un accesso equo e diffuso a questi trattamenti salva-vita. La maggior parte dei Paesi a medio e basso reddito sono, infatti, rimasti sostanzialmente esclusi dalla prima fase della campagna vaccinale, tanto che Tedros si è espresso in termini di un «catastrophic moral failure», affermando tra l'altro: «Vaccine equity is not just a moral imperative, it is a strategic and economic imperative» (WHO Director-General's opening remarks at 148th session of the Executive Board, 18 gennaio 2021, reperibile sul sito https://www.who.int/). Un'iniqua distribuzione e somministrazione dei vaccini non farà altro che prolungare la pandemia, le misure restrittive adottate dai vari Paesi per tentare di contenerla e i conseguenti elevati costi dal punto di vista umano, sociale ed economico. Di fronte a una pandemia ancora in espansione e per consentire la produzione dei vaccini su larga scala si è ipotizzato il ricorso alla «licenza obbligatoria», quale strumento di gestione di emergenze di sanità pubblica prevista dagli accordi internazionali, qual è l'Agreement on Trade-Related Aspects of Intellectual Property Rights (TRIPs, Accordo relativo agli aspetti dei diritti di proprietà intellettuale attinenti al commercio). Una deroga ai brevetti e ad altri diritti di proprietà intellettuale su farmaci, vaccini, strumenti diagnostici e dispositivi di protezione individuale, per tutta la durata della pandemia, è stata richiesta il 2 ottobre 2020 alla WTO da India e Sudafrica.
La deroga ai diritti di proprietà intellettuale applicabili a vaccini, test e trattamenti relativi a Covid-19, fin tanto che non si raggiungerà la protezione di tutti i Paesi, e dunque per garantirne un equo accesso, è stata invocata anche dalla World Federation of Public Health Associations (WFPHA, Federazione mondiale delle associazioni di sanità pubblica). Anche il Comitato Nazionale per la Bioetica si è espresso sul tema con parere del novembre 2020: «I vaccini e Covid-19: aspetti etici per la ricerca, il costo e la distribuzione» (sul sito http://bioetica.governo.it/). Il Comitato raccomanda «che il vaccino venga considerato un ‘bene comune'», con il monito che detta raccomandazione non rimanga «un mero auspicio, ma piuttosto un obbligo a cui deve far fronte la politica internazionale degli Stati».
In questa prospettiva, è richiesto che «le regole di produzione consentano che il risultato della ricerca sia messo a disposizione di tutti i Paesi del mondo» e che «la politica si assuma il compito di attuare interventi di controllo della produzione e della distribuzione del vaccino, in base ai principi etici e costituzionali di uguaglianza, equità, giustizia, responsabilità e solidarietà». Viene sottolineato come togliere i brevetti sul vaccino sia «la strada che l'Organizzazione Mondiale della Sanità ha più volte caldeggiato, anche se l'eliminazione del brevetto rischia di rallentare significativamente la ricerca e di diminuire il numero dei competitori», ritenendo che, comunque, «almeno nelle prime fasi più drammatiche della pandemia se ne dovrebbe prevedere la sospensione e al contempo si dovrebbe prevedere la concessione di licenze obbligatorie, regolate tramite accordi internazionali». Sono in proposito citati il programma globale Covax per la distribuzione dei vaccini futuri con criteri di equità, guidato dalla WHO, dalla Coalition for Epidemic Preparedness Innovations (CEPI) e dalla GAVI, the Vaccine Alliance, con l'obiettivo di garantire a tutti i Paesi l'accesso alle dosi di vaccino. Il Comitato formula, quindi, l'auspicio «che l'attenzione per un'equa distribuzione del vaccino anti-Covid-19 non resti un caso isolato, ma diventi l'occasione per costruire una solidarietà internazionale che ponga fine alle gravi limitazioni nella tutela della salute che ancora permangono in molti Paesi». Le linee guida del piano strategico per la vaccinazione anti-SARS-CoV-2/Covid-19 della popolazione italiana sono state presentate al Parlamento dal Ministro della Salute il 2 dicembre 2020 (reperibili sul sito http://www.salute.gov.it/). Tale piano è stato elaborato da Ministero della Salute, Commissario Straordinario per l'Emergenza, Istituto Superiore di Sanità, Agenas e Aifa. Riferendosi alla centralizzazione dell'acquisto del vaccino e alla gratuità della sua somministrazione il Ministro ha affermato che esso «è un bene comune, un diritto che va assicurato a tutte le persone, alle donne e agli uomini, indipendentemente dal reddito e dal territorio nel quale ciascuno vive o lavora. Nessuna diseguaglianza sarà ammissibile nella campagna di vaccinazione». Il 13 marzo scorso è stato diffuso il piano del Commissario straordinario l'esecuzione della campagna vaccinale nazionale, elaborato in armonia con il menzionato piano strategico nazionale del Ministero della Salute, il quale fissa le linee operative per completare al più presto la campagna vaccinale. La vaccinazione è somministrata secondo un ordine di priorità che tiene conto del rischio di contrarre il virus e delle sue possibili conseguenze sulle categorie più fragili.
L'avvio «simbolico» della campagna di vaccinazione a livello nazionale ed europeo, dopo l'approvazione da parte della European Medicines Agency (EMA) e dall'Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) del primo vaccino anti Covid-19 (Pfizer-BioNTech), è avvenuto il 27 dicembre 2020 con il c.d. vaccine day. Dal 31 dicembre è attiva sul sito del governo una dashboard che raccoglie i dati e le statistiche relativi alla somministrazione dei vaccini sul territorio nazionale (https://www.governo.it/it/cscovid19/report-vaccini/). L'obiettivo del piano del Ministero della salute è raggiungere al più presto la cosiddetta immunità di gregge (espressione con cui si intende il fenomeno per cui, una volta raggiunto un livello di copertura vaccinale considerato sufficiente all'interno della popolazione, è ostacolata la circolazione del virus con protezione indiretta anche di coloro che non è stato possibile vaccinare), ma una campagna vaccinale di massa è condizionata da diversi fattori, in primis, dall'adeguata fornitura delle dosi di vaccino da parte delle aziende farmaceutiche e dalla velocità della loro somministrazione. In conclusione
Muovendo dal presupposto che il diritto alla salute deve prevalere sopra ogni altro interesse, economico-finanziario o politico, il vaccino anti Covid-19 deve essere considerato un «bene comune» e, come tale, deve essere prodotto nella quantità necessaria e distribuito equamente tra tutti i Paesi, tenuto conto che trattasi di una pandemia, ovvero di epidemia non confinata ad alcune aree geografiche, ma diffusasi sull'intero pianeta. Nel drammatico contesto pandemico emerge ancora più chiara la centralità dell'intervento pubblico, da coordinare anche a livello internazionale, per garantire la tutela della salute come «fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività» (art. 32), e dunque assicurando l'accesso universale ai vaccini. Deve essere favorita la condivisione dei saperi e consentito che il risultato della ricerca sia messo a disposizione di tutti, mentre i governi devono assumersi il compito (e la conseguente responsabilità) di attuare interventi efficaci di controllo nella produzione e distribuzione dei vaccini. In definitiva, la pandemia richiede una risposta globale e giustifica il ricorso a soluzioni atte a far sì che i diritti di proprietà intellettuale, compresi i brevetti, non ostacolino l'accessibilità o la disponibilità dei vaccini, dando piena ed effettiva attuazione a tutti gli strumenti previsti anche dall'accordo TRIPs, stipulato tra i Paesi aderenti alla WTO,cui è possibile ricorrere in situazioni di emergenza sanitaria (i.e. licenza obbligatoria), combinando know-how e capacità organizzativa e produttiva, allo scopo di agevolare e accelerare il processo di produzione di vaccini su ampia scala, anche nella prospettiva di futura necessità di ulteriori cicli di vaccinazione. Riferimenti
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