Procreazione assistita e separazione della coppia

Alberto Figone
14 Aprile 2021

Intervenuta la separazione tra coniugi il consenso del marito all'impianto dell'embrione nell'utero della donna può essere revocato?
Massima

Deve essere ordinato in via d'urgenza al Centro medico, presso cui sono depositati gli embrioni crioconservati di una coppia di coniugi che ha intrapreso un percorso di pma di tipo omologo, di procedere al relativo impianto nell'utero della donna, malgrado l'opposizione del marito per essere nel frattempo intervenuta separazione personale.

Il caso

Una coppia di coniugi ricorre alle tecniche di pma di tipo omologo. Formati gli embrioni, si procede alla loro crioconservazione, non potendosi provvedere subito all'impianto nel corpo della donna, per problemi di salute di costei. Successivamente interviene la separazione tra i coniugi; a fronte della richiesta della moglie di dar corso all'impianto, il marito si oppone. Ricorre al giudice la signora, invocando l'art. 700 c.p.c.. Il tribunale accoglie il ricorso d'urgenza, con ordinanza confermata in sede di reclamo, ed ordina al centro medico di proseguire nel percorso a suo tempo intrapreso.

La questione

In caso di crioconservazione di embrioni, il consenso all'impianto può essere revocato, qualora nel frattempo sia intervenuta separazione tra i coniugi, che avevano fatto ricorso alla pma?

Le soluzioni giuridiche

L'art. 6 della l. 40/2004 prevede che il consenso alla pma può essere revocato fino al momento della fecondazione dell'ovulo. La norma è chiara, escludendo la possibilità di una revoca successiva. Essa peraltro deve inquadrarsi all'interno di una legge che, prima dei plurimi interventi della Consulta, prevedeva come eccezionale la crioconservazione degli embrioni, dovendo gli stessi essere immediatamente impiantati nell'utero della donna, come disponeva l'art. 14. Oggi che questa norma è stata parzialmente dichiarata illegittima, ci si chiede se il consenso di entrambi i componenti della coppia alla fecondazione assistita debba o meno essere reiterato anche al momento dell'impianto, qualora sia intercorso un lasso di tempo dalla fecondazione degli ovociti. Ci si chiede in particolare se un ulteriore consenso da parte del marito sia necessario, qualora nelle more sia intervenuta separazione tra i coniugi; la separazione infatti, comportando la cessazione della convivenza tra gli aspiranti genitori, incide sensibilmente sul progetto familiare inizialmente condiviso. L'aspettativa di vita di un embrione si trova così a confliggere con la posizione del donatore di gameti, cui potrebbe essere imposta una paternità sulla scorta del dato genetico, al di fuori di qualsiasi attuale intenzionalità di volersi assumere le responsabilità che lo status di genitore comporta, salvo ipotizzare l'instaurazione di un rapporto filiale solo ed esclusivamente con la madre, al pari di quanto previsto in materia adozionale dall'art. 25, l. 184/1983.

Osservazioni

Il Tribunale campano ha reso una decisione formalmente ineccepibile nella parte dispositiva, là dove fa obbligo al centro medico di dar corso all'impianto nell'utero della ricorrente dell'embrione, malgrado l'espressa diffida del marito, nella pendenza di un procedimento di separazione.

Le motivazioni, peraltro, mi lasciano perplesso per più di un aspetto. Innanzitutto, sulla scorta dei lavori preparatori della l. 40, l'ordinanza, come quella del giudice monocratico, postula l'esistenza di un diritto alla vita dell'embrione, che l'ordinamento non configura. Si dovrebbe se mai parlare di un'aspettativa di vita, ma non di un diritto (soggettivo); in caso contrario si potrebbero legittimare pericolosi tentativi di rimettere in discussione la legge sull'interruzione volontaria della gravidanza, per lo meno nei casi in cui non sussista un pregiudizio per l'integrità psicofisica della gestante. La stessa legge 40 del resto ben si è guardata dal riconoscere il diritto alla vita dell'embrione, limitandosi, all'art. 1, ad introdurre una previsione ambigua che dice tutto e nel contempo nulla, prevedendo che gli interventi di pma debbano fare salvi i diritti degli aspiranti genitori adottivi e del concepito. Non si parla di diritto alla vita, né lo si riferisce all'embrione, avendo il legislatore preferito richiamare un concetto giuridico (il concepito), ben noto al codice civile, che ad esso dedica già il secondo comma dell'art. 1, oltre che altre previsioni proprie del regime delle successioni e delle donazioni.

Occorre all'uopo evidenziare come la sentenza della Consulta n. 151/2009 (più volte richiamata dalla pronuncia in commento) che ebbe a dichiarare parzialmente illegittimo l'art. 14 della l. 40, mai si è espressa in termini di diritto alla vita dell'embrione; si legge, invece, che: «E dunque, la tutela dell'embrione non è comunque assoluta, ma limitata dalla necessità di individuare un giusto bilanciamento con la tutela delle esigenze di procreazione» (Corte cost. 8 maggio 2009, n. 151).

Altro profilo a mio avviso critico riguarda l'opzione per un'interpretazione strettamente letterale dell'art. 6 comma 3 l. 40/2004, in base al quale la revoca del consenso non potrebbe essere effettuata dopo la fecondazione dell'ovulo, e ciò al di fuori di una riflessione più strutturata sulla dedotta compatibilità tra la norma ed i precetti costituzionali. Il legislatore del 2004 aveva previsto un termine finale per la revoca del consenso alla formazione dell'embrione, nel presupposto della sostanziale contemporaneità tra fecondazione (ovviamente omologa) dell'ovulo e impianto in utero; l'art. 14 prevedeva infatti che, per ogni ciclo di stimolazione ovarica, fosse prodotto un numero di embrioni non inferiori a tre, destinati tutti all'impianto, con conseguente ingresso di gravidanze plurigemellari, anche quando la donna non potesse o non volesse avere più di un figlio, salvo successiva riduzione embrionaria a seguito di intervento abortivo.

Era dunque di regola vietata la crioconservazione degli embrioni così formati, come disposto dall'art. 14 comma 1 legge cit.; la crioconservazione, in base al comma 3, era ammissibile solo se, per cause di forza maggiore, non si fosse dato corso all'impianto immediato degli embrioni, da effettuarsi comunque appena possibile.

Con la citata sentenza del 2009 la Corte costituzionale ha giustamente dichiarato che l'art. 14 della l. 40/2004 è in parte costituzionalmente illegittimo per violazione dell'art. 3 Cost. sotto il duplice profilo del principio di ragionevolezza e di quello di eguaglianza - ove prevede la produzione di non più di tre embrioni per volta, da impiantare contemporaneamente - ed ove non prevede che il trasferimento degli embrioni, da realizzare non appena possibile, debba essere effettuato senza pregiudizio per la salute della donna. Superato il limite minimo dei tre, in oggi il numero degli embrioni producibili per ogni ciclo di trattamento ben può essere superiore, senza comunque nessun obbligo per la donna di dar corso all'impianto di tutti. Si è allora posto il problema della sorte di questi embrioni residui, da conservarsi in teoria senza limiti temporali, non potendo essere destinati, per espresso divieto dell'art. 13 della l. 40/2004 alla ricerca o alla sperimentazione scientifica (divieto, in relazione al quale è stata dichiarata inammissibile una questione di costituzionalità: Corte cost. 13 aprile 2016, n. 84, si veda A. Figone, Sperimentazione sugli embrioni. Un'ulteriore pronuncia della Corte Costituzionale, in IlFamiliarista).

Può quindi accadere, come nel caso di specie, che il momento della fecondazione dell'ovulo e quello del (programmato) successivo impianto siano sfasati nel tempo. È lecito allora domandarsi se, dopo il consenso alla fecondazione, occorra o meno un successivo nuovo consenso per l'impianto in utero, da parte di entrambi i componenti della coppia, che hanno condiviso un progetto di genitorialità. Sul punto era intervenuta la Corte di cassazione che, in una vicenda di fecondazione eterologa effettuata all'estero, prima della liberalizzazione in Italia di detta pratica, dopo l'intervento della Consulta (Corte cost. 10 giugno 2014, n. 162), ha implicitamente ritenuto sufficiente l'iniziale consenso del marito, a nulla rilevando una revoca intervenuta tardivamente (Cass. 18 dicembre 2017, n. 30294). Vero è però che questa pronuncia è stata resa in una fattispecie in cui non vi era alcuna separazione coniugale, o un inizio di separazione.

Ecco allora che il problema si complica, e l'interrogativo che ci si pone è se sia ammissibile da parte dell'uomo la revoca del consenso alle tecniche di pma quando, tra la fecondazione e l'impianto, sia intervenuta la separazione personale (o sia stato instaurato il relativo procedimento). La separazione rappresenta infatti un evento che determina la cessazione della convivenza e, dunque, del progetto di vita comune che la coppia aveva in animo, da allietarsi con la nascita di prole, a seguito di pma, in caso di sterilità o infertilità di uno o di entrambi i componenti della coppia stessa.

L'evento separatizio incide profondamente sulla vita degli sposi, aspiranti genitori, ma anche su quella del futuro ed eventuale figlio che dovesse nascere e che si troverebbe sin da subito in una situazione di mancata convivenza tra i genitori. Di tanto si era già avveduto a suo tempo il legislatore, riformando l'adozione di minorenni. Dispone infatti l'art. 25 della l. 184/1983 che, ove nel corso del periodo annuale di affidamento preadottivo, la coppia abbia a separarsi, il Tribunale minorile può pronunciare l'adozione “piena” a favore di entrambi, solo ove vi sia il comune consenso; altrimenti verrà pronunciata a favore di uno solo di essi (se entrambi denegassero il consenso, dovrebbe all'evidenza procedersi ad un nuovo affidamento preadottivo ad altra e diversa coppia).

Non pare dunque essere stata peregrina la richiesta di sollevare questione di legittimità costituzionale dell'art. 14 l. n. 40/2004 che il marito, nel caso di specie, aveva dedotto in entrambi i gradi del procedimento cautelare (anche se ciò avrebbe comportato un dispendio di tempo poco compatibile con l'età non più giovanile della consorte). Vero è infatti che, nel sempre più raffazzonato tessuto della legge in questione sussiste un ulteriore profilo scoperto e che induce grossi problemi di compatibilità tra il desiderio di uno dei coniugi di avere un figlio proprio, contro la volontà dell'altro, e l'interesse non già alla vita di un possibile nascituro, bensì ad essere inserito in un ambiente accudente, costituito da due figure parentali, in un contesto familiare coeso, quantomeno al momento della nascita. Se il mero ripensamento da parte dell'uomo, che prima vuole un figlio con la pma e poi nega il proprio consenso all'impianto in utero, di regola non è rilevante, la situazione cambia quando già non vi sia più convivenza, ovvero possa non esserci al momento di un'ipotetica nascita del figlio, per essere pendente procedimento di separazione personale. È allora possibile ipotizzare la necessità di un doppio consenso alle tecniche di pma da parte degli aspiranti genitori, sia prima di procedere alla fecondazione dell'ovulo, sia prima di dar corso all'impianto dell'embrione, magari con la specificazione che in questo secondo caso, il consenso potrebbe essere revocato legittimamente solo se pendente (o già definito) un procedimento di separazione personale, ovvero di divorzio (per i casi di divorzio diretto, senza una preventiva separazione personale), ovvero in cessazione della convivenza, per il caso che la tecnica riproduttiva sia richiesta da una coppia di conviventi.

Un ulteriore consenso degli aspiranti genitori al momento dell'innesto dell'embrione nell'utero mi pare, dunque, necessario nella ricorrenza di queste due fattispecie: i) utilizzo di embrioni crioconservati; ii) sopravvenuta separazione (o eventi che denotino lo scioglimento della convivenza fra i componenti ella coppia). Di tanto dovrebbe specificamente dare atto una tanto auspicata riforma della l. 40, dopo le plurime dichiarazioni di illegittimità costituzionale. Ciò per evitare che si proceda ad impianti di embrioni formati in epoca antecedente, di cui magari gli stessi interessati nemmeno abbiamo più specifica contezza. Si valorizzerebbe così quella che può definirsi come genitorialità intenzionale, che trae origine non già dal legame genetico (nella specie sicuramente ricorrente trattandosi di pma di tipo omologo), bensì dalla consapevole volontà di assumere tutti gli obblighi ed i doveri propri dello status di genitore verso un minore (o un nascituro).

Entrambe le ordinanze impongono al centro specialistico di dar corso all'impianto nell'utero della ricorrente degli embrioni fecondati, come da richiesta della moglie, cui il marito si oppone. Ove il lieto evento avesse ad avere luogo, un'altra questione potrebbe porsi, afferente lo status del nato. Se infatti la nascita avvenisse prima dei trecento giorni dalla separazione o dall'autorizzazione presidenziale a vivere separati, opererebbe la presunzione di paternità (in questo caso certamente rispondente al vero) ed il nato acquisirebbe lo status di figlio matrimoniale della coppia, ai sensi dell'art. 232 comma 2 c.c.. Se invece la nascita avvenisse in un momento successivo, l'ufficiale di stato civile non potrebbe che formare un atto di nascita di figlio non matrimoniale, riconosciuto (verosimilmente) dalla sola madre. Per far valere una genitorialità paterna si dovrebbe far ricorso ad un'azione di contestazione dello stato di figlio, ovvero intraprendere un procedimento di impugnazione dell'atto dell'ufficiale di stato civile. A questa seconda conclusione era pervenuta una recente pronuncia del Supremo Collegio, resa a seguito di una complessa vicenda, che vedeva due coniugi italiani essersi rivolti ad un centro in Spagna, per la crioconservazione del seme maschile, essendo l'uomo stato colpito da una fulminea forma tumorale ed avendo manifestato fino all'ultimo la propria volontà che dal proprio seme potesse nascere un figlio. In conformità alla legislazione locale, intervenuto il decesso dell'uomo, si era proceduto all'inseminazione di un ovulo della vedova. Costei aveva poi fatto rientro in Italia dove aveva partorito. La Corte di Cassazione, preso atto della legittimità dell'intervento, afferma che ben possa essere formato un atto di nascita con l'attribuzione delle genitorialità ad entrambi i genitori biologici, con attribuzione al figlio del cognome del padre (Cass. 15 maggio 2019, n. 13000, si veda A. Figone, Fecondazione omologa post mortem: nell'atto di nascita la paternita' in capo al padre defunto, in IlFamiliarista)

Si è in presenza di un'altra vistosa lacuna della legge che, prevedendo che l'impianto vada effettuato se entrambi i titolati dei gameti siano in vita, nulla ha previsto per il caso che, nel tempo della crioconservazione degli embrioni, il padre venga a decedere. Ovviamente, si è sempre fatto riferimento, quanto alla revoca del consenso, ovvero alla mancata prestazione di esso a causa del decesso, alla figura maschile. Se infatti fosse la donna, dopo la fecondazione del proprio ovulo, a rifiutare l'impianto dell'embrione, anche con il consenso del padre del “nascituro”, nessun impianto potrebbe essere lecitamente effettuato.

In conclusione, pare ormai indifferibile un organico intervento legislativo, che ridisciplini la materia della procreazione assistita, in modo da soddisfare il desiderio di filiazione espresso dalle coppie che non possono realizzare in modo fisiologico il desiderio di genitorialità. Ovviamente in questo contesto non si dovrebbe tralasciare di prendere posizione anche nei confronti della surrogazione di maternità, senza atteggiamenti preconcetti o pregiudiziali di tipo non giuridico; certo la strada è lunga, ma il percorso non è certo impossibile.

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