La disciplina dei permessi premio per i condannati ostativi non collaboranti a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 253/2019

Lorenzo Cattelan
26 Aprile 2021

Il Magistrato di Sorveglianza di Padova, con una ordinanza di rimessione alla Corte Costituzionale riguardante l'art. 4-bis, comma 1-bis, ord. pen., torna a stimolare il dibattito giuridico in relazione alla possibilità per i condannati per uno dei delitti compresi nell'art. 4-bis ord. pen. di ottenere il beneficio del permesso premio...
Premessa

Il Magistrato di Sorveglianza di Padova, con una ordinanza di rimessione alla Corte Costituzionale riguardante l'art. 4-bis, comma 1-bis, l. n. 354/1975 (di seguito “ord. pen.”), torna a stimolare il dibattito giuridico in relazione alla possibilità per i condannati per uno dei delitti compresi nell'art. 4-bis ord. pen. di ottenere il beneficio del permesso premio. Più precisamente, la questione di legittimità che ha dato origine al presente contributo attiene all'interesse dei condannati ostativi, impossibilitati a collaborare utilmente con la giustizia, ad ottenere – ai fini della concessione dell'istituto premiale di cui all'art. 30-ter ord. pen. – la previa dichiarazione di impossibilità o inesigibilità della collaborazione dal competente Tribunale di Sorveglianza.

A seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 253/2019, infatti, il diritto vivente oramai consolidato anche nella giurisprudenza di legittimità ha introdotto un regime probatorio differenziato (più favorevole per i non collaboranti “impossibili” e più rigoroso per i non collaboranti in senso stretto), che ha generato perplessità in un indirizzo minoritario della dottrina sposato anche dal Magistrato di Sorveglianza padovano con l'ordinanza n. 69/2021.

Gli approdi della sentenza n. 253/2019

Com'è noto, all'indomani della pronuncia della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo resa sul caso Viola c. Italia (13 giugno 2019), la Corte Costituzionale si è pronunciata a più riprese sulla disciplina dell'ergastolo ostativo giungendo, da ultimo, a rilevare l'illegittimità della vigente disciplina in quanto “preclude in modo assoluto, a chi non abbia utilmente collaborato con la giustizia, la possibilità di accedere al procedimentoper chiedere la liberazione condizionale, anche quando il suo ravvedimento risulti sicuro” (Corte Cost., comunicato 15 aprile 2021).

In precedenza, con la pronuncia n. 253/2019, i Giudici di piazza del Quirinale hanno dichiarato l'illegittimità dell'art. 4-bis, comma 1, ord. pen., nella parte in cui non prevede che, ai detenuti per i delitti di cui all'art. 416-bis c.p. e per quelli commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo ovvero al fine di agevolare l'attività delle associazioni in esso previste, possano essere concessi permessi premio anche in assenza di collaborazione con la giustizia a norma dell'art. 58-ter ord. pen., allorché siano stati acquisiti elementi tali da escludere, sia l'attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti (Corte Cost., 23 ottobre 2019, n.253).

Per quel che interessa in questa sede, uno dei passaggi centrali dell'iter argomentativo sviluppato dalla Consulta è la valorizzazione del diritto al silenzio nella fase di esecuzione della pena, quale corollario dell'inviolabile diritto di difesa di cui all'art. 24 Cost. (cfr. Corte Cost., 7 maggio 2008, n. 165). Occorre evidenziare, infatti, che il silenzio – lungi dal costituire un elemento astratto sintomatico di una sicura ed attuale caratura criminale del condannato – costituisce un dato neutro che necessita di essere contestualizzato ed accompagnato da ulteriori elementi empirici. È anche per questo motivo che, al di là degli specifici oneri probatori di cui si dirà di qui a breve, la specifica valutazione della condotta silente del detenuto viene rimessa alla ponderata valutazione del Magistrato di Sorveglianza. Ecco, dunque, che la decisione n. 253/2019 si pone in continuità con la tendenza giurisprudenziale volta ad arginare gli automatismi e le preclusioni assolute in fase di esecuzione della condanna privativa della libertà e ribadisce – quantomeno per il beneficio del permesso premio – la necessità di una valutazione individualizzata (cfr. Corte Cost., 21 giugno 2018, n. 149) al fine di recuperare la funzione “pedagogico-propulsiva” della pena detentiva (ex plurimis Corte Cost., 18 ottobre 1995, n. 504).

In questi termini, la presunzione assoluta di pericolosità dei condannati ostativi di prima fascia diviene semplicemente relativa. Il fatto che una presunzione legale non risponda al dato esperienziale (riassunto nella formula dell'id quod plerumque accidit) ma, anzi, sia possibile enucleare ragionevoli casi contraddicenti la generalizzazione posta a base della presunzione stessa, implica che essa sia, nella sua assolutezza, irragionevole e perciò illegittima sul piano giuridico.

È da queste premesse che la Corte Costituzionale illustra il regime probatorio rafforzato (per il cui approfondimento si rinvia alla lettura del punto di diritto n. 9 delle relative motivazioni) che il Giudice di Sorveglianza ha l'onere di acquisire ai fini di valutare – “con criteri di particolare rigore, proporzionati alla forza del vincolo imposto dal sodalizio criminale del quale si esige l'abbandono definitivo – il merito della richiesta del detenuto ostativo che non presti un'attiva collaborazione con la giustizia di poter fruire del permesso premio.

Le problematiche applicative in tema di collaborazione impossibile

A seguito della decisione della Corte Costituzionale n. 253/2019, i pratici del diritto si sono interrogati, sempre con riferimento specifico al permesso premio, in ordine all'eventuale effetto sostitutivo del meccanismo di cui al comma 1-bis dell'art. 4-bis ord. pen.. Avversando questa soluzione interpretativa, taluni autorevoli commentatori, preso atto dell'immutato regime della collaborazione inesigibile o irrilevante, hanno invece ritenuto che la non collaborazione vada ad integrare un vero e proprio tertium genus. Secondo quest'ultima prospettiva, la pronuncia avrebbe imposto un onere di allegazione in capo al condannato, avente ad oggetto non solo il profilo dell'assenza dei collegamenti ma anche quello del pericolo di un loro ripristino, che diviene vero e proprio onere di prova ove i pareri acquisiti dalla Magistratura siano negativi, con ciò creando effettivamente un tertium genus.

L'accoglimento dell'una o dell'altra posizione non può fare a meno di muovere le proprie argomentazioni dalle origini storiche della collaborazione irrilevante.

In questo senso, si rammenta che la collaborazione utile con la giustizia, quale presupposto per l'ammissione (anche) ai permessi premio, è stata inserita dall'art. 15 del dl. n. 306/1992 nel primo periodo del comma 1 dell'art. 4-bis, in precedenza introdotto nel medesimo ordinamento penitenziario dall'art. 1 dl. n. 152/1991. La relazione di accompagnamento al dl. n. 306/1992 (atto n. 328), manifesta che la ratio dell'istituto disciplinato dall'art. 58-ter ord. pen. è quello di offrire, a chi si è posto nel circuito della criminalità organizzata, “di dimostrare per facta concludentia di esserne uscito". In questo senso, “è solo la scelta collaborativa ad esprimere con certezza quella volontà di emenda che l'intero ordinamento penale deve tendere a realizzare".

Al fine di mitigare la citata preclusione assoluta, peraltro, la Corte Costituzionale ha ampliato le originarie ipotesi di collaborazione “oggettivamente irrilevante”, che inizialmente erano previste solo nei casi in cui, nella sentenza irrevocabile, il condannato fosse risultato meritevole delle attenuanti previste dagli artt. 62 n. 6, 114, 116 n. 2 c.p. In particolare, con la sentenza n. 357/1994, la Corte Costituzionale ha esteso la disciplina della collaborazione irrilevante ai casi di collaborazione inesigibile per la limitata partecipazione del condannato al fatto criminoso e, con la sentenza n. 68/1995, ai casi di collaborazione impossibile per l'integrale accertamento dei fatti e delle responsabilità, operato con la sentenza irrevocabile. Nel 2002, il legislatore ha recepito le indicazioni del Giudice delle leggi, descrivendo – nell'attuale comma 1 bis dell'art. 4-bisord. pen. – i casi in cui la rottura dei collegamenti con la criminalità organizzata può essere accertata anche prescindendo dal requisito della collaborazione rilevante, pur sempre però subordinando la concessione dei benefici all'acquisizione di elementi tali da escludere l'attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva. Se dunque la collaborazione ex art. 58-ter ord. pen. può far presumere un avvenuto distacco dal consesso mafioso, una collaborazione "infruttuosa" contempla la necessità di una prova rafforzata rispetto all'assenza dei collegamenti. È questo un dato fondamentale di cui la stessa Consulta dimostra di tenere conto allorquando si tratta di definire lo standard probatorio richiesto per la nuova ipotesi di non collaborazione.

Gli orientamenti della Corte di Cassazione

In ordine alla persistenza dell'interesse alla decisione rispetto ad istanze aventi ad oggetto l'accertamento incidentale delle condizioni di cui all'art. 4-bis ord. pen., funzionale alla concessione di un permesso premio, la giurisprudenza di legittimità ha espresso, in sede di prima attuazione, un indirizzo che ha negato la sussistenza di detto interesse. Con sentenza n. 3309/2020 (ric. Spampinato) si è statuito che “poiché il presupposto della collaborazione impossibile o inesigibile era stato introdotto nell'ordinamento quale sorta di contraltare alla collaborazione effettiva con la giustizia, una volta venuta meno l'assoluta necessità della sussistenza di quest'ultima per poter accedere al permesso premio viene a perdere giustificazione anche la prima” (nello stesso senso: Cass. pen, sez. I, 13 dicembre 2019, n. 1636; Cass. pen., sez. I, 10 dicembre 2019, n. 7931).

Diversamente, secondo il più recente ed oramai consolidato indirizzo esplicitamente contrario, le disposizioni in materia di collaborazione impossibile continuano ad applicarsi “sia in ragione della diversità parziale delle regole dimostrative della assenza di pericolosità, sia in ragione di una percepibile differenza ontologica tra le ipotesi dei collaboranti che scelgono di non collaborare (comma 1) e coloro che invece non possono farlo (comma 1-bis)” (Cass. pen., sez. I, 28 gennaio 2020, n. 5553; cfr., nello stesso senso, Cass. pen., sez. I, 24 settembre 2020, n. 31025; Cass. pen., sez. I, 14 settembre 2020, n. 31017; Cass. pen., sez. I, 14 settembre 2020, n. 29151). Su questo fronte si è assestata anche la dottrina dominante, secondo cui volendo dunque condividere la tesi del regime probatorio "rafforzato", l'interesse a percorrere la strada della collaborazione impossibile appare evidente. Detto interesse permarrebbe comunque, anche a voler diversamente opinare, in considerazione delle possibili positive ricadute che detto accertamento potrebbe rifrangere sul giudizio di merito relativo alla concessione del beneficio in punto di apprezzamento delle ragioni alla base della collaborazione "infruttuosa"(ex multis, MENGHINI, RUOTOLO).

Prendendo a prestito le parole del Magistrato di Sorveglianza di Padova, il diritto vivente ritiene che “nel caso di accertamento dell'inesigibilità/impossibilità della collaborazione, il condannato può beneficiare di un'attenuazione del rigore previsto sia per l'oggetto della prova (assenza di collegamenti attuali senza necessità di vagliare il pericolo di ripristino), sia per il regime probatorio (rafforzato nel caso dell'art. 4-bis, comma 1, ord. pen. in quanto esteso all'onere di fornire veri e propri elementi di prova a sostegno dell'assenza di collegamenti e pericolo di ripristino, se le informazioni pervenute dal comitato provinciale per l'ordine e la sicurezza pubblica depongano in senso negativo). Il tutto a fronte di una percepibile differenza ontologica, posto che l'accertamento in positivo della impossibilità o inesigibilità della collaborazione consente di qualificare in termini univoci la scelta del detenuto di non fornire informazioni all'autorità giudiziaria (Cass. pen., n. 10551/2020). Si dice: un conto è la posizione di chi può collaborare ma soggettivamente non vuole (silente per sua scelta), un conto è la posizione di chi vuole collaborare ma oggettivamente non può (silente suo malgrado)”.

L'ordinanza del magistrato di sorveglianza di Padova

L'ordinanza del 12 aprile 2021 proposta offre all'interprete una approfondita lettura del doppio binario probatorio imposto dal diritto vivente ed interroga il Giudice delle Leggi sulla legittimità di un simile trattamento differenziato, atteso che l'impossibilità (o l'irrilevanza) della collaborazione rappresenta un elemento estrinseco ed ingovernabile dal condannato ostativo. Giova sin da subito premettere che la lettura costituzionalmente conforme suggerita dal Magistrato di Sorveglianza propone un unico regime probatorio, tenuto conto peraltro della necessità di perimetrare l'evanescente requisito della prova dell'assenza del pericolo di ripristino di collegamenti con la criminalità organizzata, così come interpretato dal diritto vivente, richiesto ai condannati di cui al primo comma dell'art. 4-bisord. pen. In questi termini, come si dirà in punto di osservazioni, è da ritenere che la pronuncia auspicata dal Giudice remittente non sia in malam partem e, al contrario, sia volta a valorizzare il percorso personale e detentivo di ciascun condannato non collaborante, rifiutando ogni rigido automatismo (nello specifico caso in esame contrastante, oltre che con gli artt. 3 e 27, comma 3, Cost., pure con la ragionevole durata del processo ex art. 6 CEDU).

Prima di addentrarci sul contenuto motivo della pronuncia in commento, pare il caso di premettere qualche cenno sul caso posto all'attenzione del giudicante.

M.C., condannato a 14 anni e 20 giorni di reclusione per delitti rientranti nel comma 1 dell'art. 4-bis ord. pen. (associazione di stampo mafioso, sequestro di persona a scopo di estorsione, usura ed estorsione; tutti delitti aggravati dall'allora vigente art. 7 l. n. 203/1991), dovendo espiare la propria condanna sino al dicembre 2022, ha chiesto – con ripetute istanze – al competente Magistrato di Sorveglianza di poter fruire del beneficio del permesso premio.

Vagliato positivamente il profilo dell'ammissibilità, dal punto di vista della pericolosità il Giudice a quo dipana alcune considerazioni che si rivelano fondamentali per cogliere la rilevanza della prospettata questione di legittimità costituzionale. Infatti, se con una prima ordinanza del 2017 il competente Tribunale di Sorveglianza ha rigettato l'istanza di collaborazione impossibile proposta da M.C. in relazione al reato associativo, con la successiva decisione del febbraio 2020 il medesimo Collegio, preso atto dell'espiazione della porzione di pena riferibile al reato di associazione di stampo mafioso, ha riconosciuto la collaborazione impossibile con riferimento al reato di sequestro di persona a scopo di estorsione (la cui porzione di pena risulta ancora in esecuzione). Quest'ultima pronuncia è divenuta definitiva a seguito di declaratoria di inammissibilità del ricorso per cassazione presentato dalla Procura Generale presso la Corte d'Appello di Venezia che sosteneva non esservi interesse alla decisione in seguito alla sentenza n. 253/2020 della Corte Costituzionale. Più precisamente, la Corte di Cassazione, dando continuità alle più recenti pronunce di legittimità, ha evidenziato che la sentenza n. 253/2019 della Corte Costituzionale “non riguarda le disposizioni in tema di collaborazione impossibile che restano vigenti nella loro distinta portata precettiva, sia in ragione della diversità parziale delle regole dimostrative della assenza di pericolosità, sia in ragione della differenza ontologica che riveste l'accertamento in positivo della impossibilità della collaborazione”.

Date le esposte premesse fattuali, il Magistrato di Sorveglianza – dovendosi ritenere vincolato all'orientamento espresso (ancora una volta) dalla Suprema Corte di Cassazione – avrebbe dovuto limitarsi a valutare, ai sensi dell'art. 4-bis, comma 1-bis, ord. pen., la sola sussistenza di rapporti attuali tra il detenuto e il contesto malavitoso, senza estendere la verifica all'aspetto prognostico tipico della valutazione di pericolosità, ossia alla verifica del pericolo di ripristino di collegamenti con la criminalità organizzata come invece previsto dall'art. 4 bis, comma 1, ord. pen. per tutti gli altri condannati che non abbiano collaborato con la giustizia.

In questo senso, il Giudice rimettente “ritiene che la differenziazione del regime di valutazione della pericolosità nei casi di collaborazione impossibile o inesigibile, rispetto alle ipotesi riguardanti condannati non collaboranti, nei termini sopra esposti, sia irragionevole per entrambe le categorie e si risolva in lettura non costituzionalmente orientata del disposto introdotto dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 253/2019”. Il regime differenziato si risolverebbe, in sostanza, in una disparità di trattamento irragionevole ed irrazionale. In questo senso, ed in maniera efficace, l'ordinanza n. 69/2021 evidenzia che il diritto vivente propone un diverso regime per:

- i detenuti per cui sussista un margine di utile collaborazione con la giustizia, in relazione ai quali si richiedono rafforzati oneri di allegazione e di prova correlati all'“assenza di un pericolo di ripristino di collegamenti” che viene interpretato come requisito autonomo e aggiuntivo rispetto a quello dell'”assenza di collegamenti attuali con la criminalità organizzata” di cui all'art. 4-bis, comma 1-bis,ord. pen.;

- i detenuti che, pur silenti, abbiano visto accertata la impossibilità o inesigibilità della collaborazione in relazione ai quali si ritiene sufficiente la prova dell'“assenza di collegamenti attuali con la criminalità organizzata (senza necessità di valutare il pericolo di ripristino dei collegamenti e senza tener conto dell'effettivo spessore criminale rivestito dal condannato nonché dell'atteggiamento soggettivo manifestato).

In relazione al paventato contrasto con l'art. 27, comma 3, Cost., si sostiene invece “che è necessario che le valutazioni esprimibili dalla Magistratura di Sorveglianza siano in grado di valorizzare le specificità di ogni singolo detenuto, senza aprioristici ed astratti automatismi normativi. Invero, già il primo comma dell'art. 13 ord. pen. stabilisce che «Il trattamento penitenziario deve rispondere ai particolari bisogni della personalità di ciascun soggetto», con ciò esprimendo la necessità di valorizzare ogni elemento della struttura personologica del condannato e consentendo (anche) ai Magistrati di Sorveglianza di adeguare gli istituti predisposti dall'ordinamento penitenziario alle specifiche esigenze trattamentali dei singoli condannati”.

Ciò posto, una lettura poco attenta dell'ordinanza del Magistrato di Sorveglianza padovano potrebbe indurre a ritenere che l'intervento richiesto alla Consulta sia volto ad imporre un regime probatorio più rigoroso per quei soggetti che, prima della sentenza n. 253/2019 avevano un trattamento più favorevole (quello del comma 1-bis ord. pen.). Al contrario, pare che l'impianto complessivo del provvedimento del Giudice di Sorveglianza – coerentemente con l'atteggiamento della Corte Costituzionale – sia rivolto ad ampliare la tutela dei diritti dei detenuti.

In questo senso, il Giudice a quo ritiene che il regime probatorio introdotto dalla pronuncia n. 253/2019 non sia più rigoroso di quello previsto dal comma 1-bis dell'art. 4-bisord. pen., potendosi ricondurre l'esclusione del pericolo di ripristino dei collegamenti alla dimostrazione dell'assenza di pericolosità sociale (che comunque il Giudice è tenuto ad accertare anche nei casi del comma 1-bis). Detto altrimenti, non si tratta di parametri probatori differenziati. È su queste – a mio avviso condivisibili – premesse che una certa parte della dottrina ha già efficacemente notato che un regime unitario consentirebbe di estendere le regole del co. 1 bis a tutti i non collaboranti (DELLA BELLA).

Insistendo sul punto, “la Corte Costituzionale evidenzia che l'accostamento del requisito dell'esclusione dell'attualità dei rapporti (già previsto nel comma 1-bis) all'ulteriore prova dell'esclusione del pericolo di ripristino dei collegamenti medesimi – ‘tenuto conto delle concrete circostanze personali e ambientali' – costituisce un ‘aspetto logicamente collegato al precedente, del quale condivide il carattere necessario alla luce della Costituzione, al fine di evitare che il già richiamato interesse alla prevenzione della commissione di nuovi reati, tutelato dallo stesso art. 4-bis ord. pen., finisca per essere vanificato'. […] L'assenza del pericolo del ripristino era requisito già valutabile dal Magistrato di Sorveglianza che si trovava a valutare la concedibilità del permesso ai sensi del comma 1-bis dell'art. 4-bis ord. pen., anche per la considerazione logica per cui, rispetto a un condannato per reati di criminalità organizzata di stampo mafioso che abbia trascorso un significativo periodo di detenzione carceraria, il problema principale che si pone, più che quello relativo alla sussistenza attuale di collegamenti con la criminalità organizzata spesso da escludere soprattutto nei casi di condannati non sottoposti a regime ex art. 41-bis ord. pen., è proprio quello del pericolo di ripristino dei collegamenti”.

Le argomentazioni della pronuncia in commento, pertanto, riconoscono come la vera conquista della sentenza n. 253/2019 sia stata quella di consentire al Magistrato di Sorveglianza di effettuare una valutazione individualizzata delle ragioni del silenzio del condannato non collaborante in qualsiasi situazione si trovi (voglia ma non possa collaborare, non voglia e non possa collaborare, non voglia ma possa collaborare) con un metro di giudizio unitario, peraltro non diversamente rigoroso rispetto a quello richiesto in precedenza.

In conclusione

Il dibattito che ha preceduto l'ordinanza di rimessione alla Corte Costituzionale è stato caratterizzato da una serie di pronunce non adeguatamente scrupolose dal punto di vista motivazionale, motivo per cui nessuna delle due posizioni offerte dalla Suprema Corte di Cassazione è riuscita a risolvere con sufficiente compiutezza le problematiche applicative evidenziate dal Magistrato di Sorveglianza di Padova.

È per questa ragione che si ritiene apprezzabile lo sforzo argomentativo del Giudice a quo, che consentirà alla Corte Costituzionale di prendere – questa volta – una chiara posizione sul tema della persistenza (o meno) dell'interesse per i condannati non collaboranti a richiedere l'accertamento della collaborazione oggettivamente inesigibile ai sensi dell'art. 4-bis, comma 1-bis, ord. pen.

Il dubbio di illegittimità costituzionale espresso dall'ordinanza, come si è visto, ruota attorno alla probatio diabolica” richiesta dal diritto vivente ai condannati non collaboranti (art. 4-bis, comma 1,ord. pen.) ai fini della dimostrazione dell'assenza del pericolo di ripristino dei collegamenti con la criminalità organizzata. L'evanescenza del requisito, peraltro, è già stata rilevata dalla stessa giurisprudenza di legittimità, che non ha tardato a definirlo “di problematica aderenza a canoni epistemologici basati sulla materialità dell'oggetto della prova”(Cass. pen., sez. I, 28 gennaio 2020, n. 5553). Lo stesso diritto vivente che teorizza il doppio binario probatorio non riesce quindi a definire concretamente la portata effettiva degli oneri di allegazione aggiuntiva richiesti.

Ecco dunque che si rivela più razionale argomentare come la verifica del pericolo di ripristino di cui alla sentenza n. 253/2019 corrisponda alla valutazione di pericolosità in concreto già esercitata nell'ipotesi di collaborazione impossibile allorquando le note informative della DDA (e delle ulteriori autorità compulsate) contengano dei pareri negativi. Seguendo questa linea interpretativa, a parere di chi scrive, il regime differenziato si pone in contrasto anche con il principio della ragionevole durata del processo di cui agli artt. 111, comma 2 e 117, comma 1, Cost. quest'ultimo da leggere in combinato disposto con l'art. 6 CEDU. Ritenere che i condannati che si trovino in una delle situazioni contemplate dall'art. 4-bis, comma 1-bis, ord. pen. prima di essere valutati dal Magistrato di Sorveglianza debbano ottenere l'accertamento della collaborazione irrilevante dal Tribunale di Sorveglianza si risolve in un aggravamento della loro posizione rispetto a quella – analoga – in cui versano i non collaboranti “per scelta”. Le valutazioni richieste dalla Corte Costituzionale ai fini della concessione del beneficio del permesso premio ai condannati ostativi che non collaborino con la giustizia ex art. 58-ter ord. pen. non operano alcuna differenziazione rispetto alle diverse ipotesi di silenzio del detenuto. Il silenzio è un elemento neutro e non può legittimare, per ciò solo, un diverso (favorevole o deteriore che sia) regime processuale. Questo è tanto più vero in quanto le valutazioni afferenti al giudizio di impossibilità (o inesigibilità) della collaborazione non attengono a profili soggettivi del reo, quanto al solo dato oggettivo della mancanza di ignoti o di non utilità delle eventuali dichiarazioni dell'interessato. Anche per quanto riguarda la collaborazione attiva la Corte Costituzionale, con sentenza n. 273/2001, ha già evidenziato che la stessa assume valenza di criterio di accertamento della rottura dei collegamenti con la criminalità organizzata, che però, a sua volta, è condizione necessaria sia pure non sufficiente, per valutare il venir meno della pericolosità sociale, volendosi con ciò intendere che tale rottura non basta, di per sé, ai fini della ammissione ai benefici (in questo senso Cass. pen., sez. I, 23 gennaio 2017, n. 3263).

Ne deriva che, come sostenuto dal Giudice a quo, la sentenza n. 253/2019 della Corte Costituzionale dovrebbe essere intesa nel senso di rendere applicabili le regole dimostrative della assenza di pericolosità di cui al comma 1-bis a tutti i condannati non collaboranti, senza distinzione tra condannati che scelgono di non collaborare e condannati che non possono collaborare, con conseguente effetto abrogativo del disposto dell'art. 4-bis, comma 1-bis, ord. pen. nella parte relativa ai permessi premio.

Per queste ragioni, si ritiene corretta l'asserzione secondo cui “l'interpretazione del dato normativo offerta dalla Suprema Corte di Cassazione nell'odierno procedimento difetta, in definitiva, di eccessiva astrattezza e finisce per creare automatismi e presunzioni processuali che, in materia di permessi premio ex art. 30-ter ord. pen., sono stati abbandonati dalla Corte Costituzionale proprio con la citata sentenza n. 253/2019”.

Dalle esposte osservazioni, non paiono esserci dubbi sul fatto che la creazione di un unico regime probatorio rappresenti una soluzione in bonam partem, dal momento che consentirebbe di perimetrare i confini della probatio diabolica (tale, infatti, è il risultato cui conduce il diritto vivente) relativa all'assenza di pericolo di ripristino dei collegamenti con la criminalità organizzata.

Un'ultima annotazione. L'introduzione del regime probatorio differenziato nel caso che ha dato origine all'ordinanza di rimessione n. 69/21 è accompagnato – ai fini della dichiarazione di cui al comma 1-bis dell'art. 4-bis ord. pen. – dallo scioglimento parziale del cumulo omogeneo oggetto del titolo in espiazione. Nel caso di specie infatti il competente Tribunale di Sorveglianza ha riconosciuto al detenuto M.C. la collaborazione impossibile con riferimento al solo reato di sequestro di persona a scopo di estorsione, a seguito dell'espiazione della porzione di pena riferibile al reato di associazione di stampo mafioso, delitto per cui il medesimo Tribunale aveva rigettato analogo accertamento.

A tal proposito, si ritiene, contrariamente all'indirizzo maggioritario, che l'operazione di scioglimento del cumulo non debba essere consentita nelle ipotesi in cui essa abbia riguardo a reati ostativi (cfr. Cass. pen., sez. I, 7 marzo 2019, n. 21421; Cass. pen., sez. I,27 giugno 2019, n. 36057). Lo scioglimento omogeneo del cumulo, infatti, non consente di individuare alcun ragionevole e, soprattutto, obiettivo criterio di imputazione, all'uno o all'altro titolo della pena già espiata. Come rilevato dalla giurisprudenza di legittimità, non “potrebbe venire utile il criterio meramente utilitaristico, dell'opzione più conveniente per il condannato, a fronte di spazi ancora aperti di utile collaborazione che questi, dimostrando slealtà verso l'Istituzione, arbitrariamente non intendesse percorrere” (Cass. pen., sez. I, 21febbraio 2020, n. 12554).

In definitiva, non resta che attendere l'esito della pronuncia della Corte Costituzionale, chiamata a far chiarezza ancora una volta su un tema spinoso e particolarmente attenzionato anche dall'opinione pubblica, nella consapevolezza che gli spunti offerti dall'elaborazione dottrinale e giurisprudenziale consentiranno di cogliere a pieno la significativa portata applicativa della contestata disciplina della “non collaborazione” con riguardo all'istituto premiale previsto dall'art. 30-ter ord. pen.

Guida all'approfondimento

A. DELLA BELLA, La Cassazione dopo la sentenza 253 della Corte costituzionale: il destino della collaborazione impossibile e lo standard probatorio richiesto per il superamento della presunzione assoluta di pericolosità, in Sistema Penale, 16 aprile 2020;

G. DODARO, L'onere di collaborazione con la giustizia di fronte alla Costituzione, in Riv. it. dir. proc. pen., 1/2020;

S. ROMICE, La collaborazione impossibile. Note sui margini di superamento dei divieti di cui all'art. 4 bis ord. pen., in Giur. pen., 6/2018.

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