La rinnovazione obbligatoria in abbreviato al vaglio della Corte Europea
06 Maggio 2021
Premessa
La Corte europea dei diritti umani ha ritenuto coerente con le garanzie convenzionali la rinuncia volontaria e consapevole al diritto al contraddittorio, che l'imputato effettua con la scelta di essere giudicato con il rito abbreviato. Ma soprattutto ha ritenuto che la rinuncia espressa in primo grado sia valida anche in appello, nulla rilevando che questo possa risolversi in un overturning della sentenza assolutoria. La decisione della Corte europea si fonda sulla massima valorizzazione della volontà delle parti ed è pienamente coerente con il modello accusatorio. Nel nostro ordinamento, invece, la rinuncia al diritto al contraddittorio “vale” solo per il primo grado di giudizio; in appello quando impugna il pubblico ministero per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa è obbligatoria ex lege la rinnovazione delle testimonianze decisive, nulla rilevando che l'imputato abbia rinunciato al contraddittorio sulla formazione della prova ed abbia espresso la volontà di essere giudicato su “prove di carta”. Lo iato tra ordinamento convenzionale e interno genera dubbi ed apre prospettive. Il caso e la ratio decidendi della Corte europea
Il Di Martino e la Molinari venivano assolti dal reato di partecipazione ad associazione mafiosa all'esito del primo grado di giudizio celebrato con il rito abbreviato c.d. “secco”. Il giudice di primo grado, facendo ricorso ai poteri previsti dall'art. 441, comma 5, c.p.p., disponeva l'audizione di un collaboratore di giustizia, le cui dichiarazioni venivano ritenute indispensabili per valutare la posizione di un coimputato del Di Martino e della Molinari. La Corte di appello, decidendo sull'appello del pubblico ministero, riformava integralmente la sentenza di assoluzione, senza disporre alcuna rinnovazione istruttoria. Il difensore proponeva ricorso alla Corte Edu lamentando la violazione dell'art. 6 della Convenzione poiché non era stata disposta in appello la rinnovazione delle testimonianze. La Corte di Strasburgo decidendo sul ricorso ha affermato: - che l'art. 6 della Convenzione, garantisce il diritto al contraddittorio e prevede che l'accusato possa essere “condannato” solo sulla base di prove assunte di fronte al giudice che procede; il che implica che se la “condanna” interviene per la prima volta in appello, occorre procedere alla rinnovazione delle testimonianze; - che il diritto al contraddittorio sulla formazione della prova è un diritto disponibile, ovvero rinunciabile, sempre che la rinuncia sia volontaria e consapevole e non sia in contrasto con l'interesse pubblico: secondo la Corte «né la lettera né lo spirito dell'articolo 6 della Convenzione impediscono a una persona di rinunciare volontariamente o tacitamente alle garanzie di un processo equo», sempre che tale rinuncia sia espressa «in modo inequivocabile» e sia corredata da «un minimo di garanzie corrispondenti alla sua gravità, sempre che la rinuncia non contrasti con un interesse pubblico prevalente» (§ 33); - che la rinuncia, ove volontaria e consapevole – ed il punto è decisivo - si estende a tutti i gradi di giudizio ed esprime la accettazione ex ante di un rito fondato su prove cartolari. Secondo la Corte l'accesso al rito a prova contratta disposto in seguito a rinuncia libera e consapevole del diritto al contraddittorio, è giustificato e bilanciato dai benefici correlati alla scelta del rito ed incardina un processo che si sviluppa in modo radicalmente “diverso” da quello ordinario, in quanto caratterizzato dalla mancata assunzione delle prove in contraddittorio; tale peculiarità si estende a tutti i gradi di giudizio sicché non si rinviene in capo al giudice dell'impugnazione alcun l'obbligo di audizione diretta di testimoni, non uditi in contraddittorio neanche nel corso del primo grado di giudizio (§ 37); - che la violazione dell'art. 6 della Carta di Roma sarebbe rinvenibile solo nei casi in cui lo Stato limitasse le garanzie convenzionali in via unilaterale prevedendo procedure semplificate senza il consenso dell'accusato (§ 38); - che agli Stati è comunque concesso di apprestare garanzie ulteriori rispetto a quelle previste dalla Convenzione (il riferimento è all'ordinamento italiano che prevede l'obbligo di rinnovazione anche nel caso in cui via stata rinuncia al contraddittorio: § 39). Infine si è affermato che quando un testimone è stato sentito nel corso del primo grado di giudizio - anche nel caso in cui tale audizione sia stata disposta facendo ricorso ai poteri integrativi concessi al giudice dell'abbreviato - l'obbligo di rinnovazione in appello sussiste solo se la testimonianza assunta in primo grado è rilevante per la decisione sulla responsabilità (§ 44). Nel caso sottoposto al suo esame la Corte di Strasburgo non rilevava alcuna violazione dell'art. 6 della Convenzione, dato che non vi erano elementi per ritenere che la rinuncia al diritto di assumere le prove in contraddittorio fosse stata compiuta dal De Martino e dalla Molinari in modo inconsapevole o involontario. Né si registrava alcun arbitrio dell'autorità statale, tenuto conto del fatto che la contrazione del rito era frutto della scelta degli imputati, giustificata e bilanciata dal beneficio di una significativa riduzione della pena. La rinuncia al contraddittorio estendeva i suoi effetti a tutti i gradi di giudizio, sicché non gravava sul giudice di appello nessun obbligo di rinnovazione di matrice convenzionale La Corte non rinveniva alcuna violazione dell'art. 6 della Convenzione neanche nella mancata rinnovazione della testimonianza assunta ai sensi dell'art. 441, comma 5, c.p.p., dato che il teste escusso attraverso l'integrazione probatoria non era decisivo per la condanna dei ricorrenti, basata su altre evidenze. La decisione di Strasburgo impone alcune riflessioni sulla compatibilità con il rito accusatorio della rinnovazione obbligatoria del dibattimento in appello quando l'accusato ha consapevolmente rinunciato al diritto al contraddittorio. Innanzitutto, induce a rivalutare l'interesse dell'imputato alla rinuncia: questa esprime una precisa strategia difensiva che punta alla assoluzione quando il compendio probatorio è insufficiente ed allo sconto di un terzo della pena quando è solido. Chi rinuncia, sceglie di essere giudicato sulle prove di carta “note”, ed esprime la volontà di evitare accrescimenti della provvista probatoria disponibile. Chi rinuncia scommette sulla attenuata efficacia dimostrativa della testimonianza di carta e sul tendenziale congelamento del compendio probatorio sulla base del quale dovrà fondarsi l'accertamento di responsabilità. La rinuncia può essere anche selettiva ed escludere le prove ritenute decisive: quando si chiede il rito “condizionato” si punta ad ottenere il massimo vantaggio in termini sanzionatori senza rinunciare alla formazione in contraddittorio delle prove-chiave, ovvero di quelle che, anche ove si fosse intrapreso il percorso processuale ordinario, avrebbero comunque inciso in modo determinante sulla decisione. La richiesta del rito ad “oralità parziale” è sottoposta al vaglio giudiziale, mentre nessun controllo è previsto sulla rinuncia integrale al contradittorio: la scelta di essere giudicati esclusivamente su prove di carta è rimessa solo alla volontà della parte e rappresenta una delle più significative manifestazioni della attuazione del progetto accusatorio che è alla base dell'attuale codice di rito. Progetto che, invero, nel nostro ordinamento non ha mai avuto attuazione piena, dato che - a prescindere dalla riforma dell'art. 603 del codice di rito - il giudice dell'abbreviato poteva (e può) integrare il compendio probatorio con l'assunzione diretta delle prove ritenute assolutamente indispensabili (art. 441, comma 5, c.p.p.). E la Corte di appello conservava (e conserva) il potere di disporre la rinnovazione facoltativa (art. 603 c.p.p.). Insomma, a prescindere dalla recente limitazione del diritto alla rinuncia del contraddittorio attuata con l'imposizione dell'obbligo di rinnovazione ex art. 603, comma 3-bis, c.p.p., comunque l'abbreviato non è mai stato integralmente “a disposizione” delle parti. Nel nostro ordinamento l'art. 603, comma 3-bis, c.p.p. prevede la rinnovazione obbligatoria del dibattimento in appello nei casi in cui il pubblico ministero impugni una sentenza di proscioglimento per motivi attinenti alla prova dichiarativa. Tale obbligo è stato espressamente esteso dalla giurisprudenza delle Sezioni unite anche al caso in cui l'imputato rinunci al contraddittorio (Cass. pen., Sez. Un., n. 27620/2016; Cass. pen., Sez. Un., n. 18620/2017; Cass. pen., Sez. Un., n. 14800/2017). La scelta ermeneutica è stata avallata dalla Corte costituzionale, che ha “validato” l'obbligo di rinnovazione - e legittimato il processo a “statuto probatorio variabile” (Corte cost. n. 124/2019). Nonostante tali autorevoli prese di posizione molti hanno dubitato (e continuano a dubitare) della ragionevolezza dell'obbligo di rinnovazione in caso di rinuncia consapevole al contraddittorio sulla formazione della prova ed anche della sua compatibilità con il progetto accusatorio. La scelta di invalidare ex lege - seppur limitatamente al secondo grado di giudizio - un atto dispositivo personalissimo e, salvo prova contraria, consapevole, come la rinuncia al contraddittorio, seconde le Sezioni unite, trova la sua ragione giustificatrice nella tensione verso la massima tutela delle garanzie dell'imputato quando è in predicato la riforma radicale di una decisione assolutoria: la “presunzione di innocenza” consolidata dalla prima assoluzione, sarebbe superabile solo attraverso l'obbligatorio accrescimento della provvista probatoria di matrice dichiarativa, essendo insufficiente il confronto con gli argomenti della prima decisione (la c.d. “motivazione rafforzata”). È stato così affermato che «presunzione di innocenza e ragionevole dubbio impongono soglie probatorie asimmetriche in relazione alla diversa tipologia dell'epilogo decisorio: la certezza della colpevolezza per la condanna, il dubbio processualmente plausibile per l'assoluzione» (Cass. pen., Sez. Un., n. 14800/2017). Dunque: il rispetto della presunzione di innocenza che informa e sostiene la regola di valutazione dell'al di là di ogni ragionevole dubbio implica non solo (prevedibili) conseguenze sugli oneri di motivazione, ma anche (invero imprevedibili) effetti sulla tessitura probatoria del processo. Questa deve essere infittita solo se si impugna una assoluzione dato che il canone valutativo del ragionevole dubbio «per la sua immediata derivazione dal principio della presunzione di innocenza, esplica i suoi effetti conformativi non solo sull'applicazione delle regole di giudizio e sulle diverse basi argomentative della sentenza di appello che operi un'integrale riforma di quella di primo grado, ma anche, e più in generale, sui metodi di accertamento del fatto, imponendo protocolli logici del tutto diversi in tema di valutazione delle prove e delle contrapposte ipotesi ricostruttive in ordine alla fondatezza del tema d'accusa: la certezza della colpevolezza per la pronuncia di condanna, il dubbio originato dalla mera plausibilità processuale di una ricostruzione alternativa del fatto per l'assoluzione» (Cass. pen., Sez. Un., n. 14800/2017). La diversificazione dello statuto probatorio del giudizio di appello avrebbe dunque una matrice costituzionale nella presunzione di innocenza prevista dall'art. 27 della Carta identificata come presidio di garanzia dell'imputato da condanne ingiuste, ritenute assai probabili nei casi di overturning sommari, eda scongiurare imponendo l'obbligo (non solo) della motivazione rafforzata, (ma anche) dell'integrazione del compendio probatorio attraverso la riassunzione delle testimonianze decisive. Sempre: anche quando l'imputato ha rinunciato al contraddittorio sulla formazione della prova. Il risultato è la creazione di un processo a “statuto probatorio variabile”: che richiede ex lege più prove se si impugna una assoluzione, rispetto a quando si impugna una condanna. Come si vede il percorso culturale e giurisprudenziale che ha preparato il terreno alla riforma normativa è diretto verso la massima valorizzazione della presunzione di innocenza: le Alte corti, nel tracciare le linee ermeneutiche che validano il disallineamento probatorio dei processi di appello a seconda della parte che impugna, hanno invece lasciato sullo sfondo il diritto convenzionale. Eppure, la triade costituita dalle sentenze Dasgupta, Patalano e Troise, che ha promosso l'attuale assetto asimmetrico, è stata generata proprio dai dubbi sulla applicabilità ex officio del diritto convenzionale nei casi di omessa rinnovazione delle prove decisive già assunte. Punto sul quale si registravano interpretazioni contrastanti sia a) sulla identificazione dell'esistenza di una norma di diritto convenzionale consolidato che imponesse la rinnovazione delle prove dichiarative in appello in caso di overturning della sentenza assolutoria, sia b) sulla sua collocazione nel sistema delle fonti e la sua sottoposizione (o meno) all'obbligo di devoluzione (ordinanza di rimessione Cass. pen., sez. II, n. 47015/2016). Nel caso Dasgupta le Sezioni unite, chiamate a risolvere tali questioni hanno (consapevolmente) decentrato la rilevanza del diritto europeo, valorizzando, di contro, la matrice costituzionale dell'obbligo di rinnovazione, ovvero la presunzione di innocenza: il diritto a non essere considerati colpevoli fino alla condanna “informerebbe” la regola di giudizio prevista dall'art. 533 c.p.p. e “conformerebbe” la struttura del processo che si risolve con una condanna “tardiva”, che sopraggiunge solo nel secondo grado di giudizio. Lo stesso decentramento si coglie anche nella struttura argomentativa delle sentenze Patalano e Troise. Se così è la pronuncia De Martino e Molinari v. Italia potrebbe non essere destinata ad avere un grande impatto: il fatto che l'obbligo di rinnovazione della prova dichiarativa in abbreviato non abbia una copertura convenzionale non toglie che la stessa – stando a quanto affermato, all'unisono, dalla Corte di Cassazione a Sezioni Unite e dalla Corte costituzionale – non abbia una copertura costituzionale. A ciò si aggiunge che, nel sistema multilivello di tutela dei diritti fondamentali, vige il principio della maggior tutela, sicché è consentito agli Stati apprestare tutele ulteriori rispetto a quelle garantite dalla Carta di Roma (mai minori, come previsto, tra l'altro, dall'art. 52della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea). Il che non esime dall'effettuare alcune riflessioni. Le criticità - L'attuale assetto asimmetrico del nostro processo evidenzia alcuni nodi critici e, a ben guardare sembra fondato su alcuni (pre)giudizi. 1) La prima criticità del nostro ordinamento si rinviene nella forte valorizzaizone della volontà dell'imputato, che si risolve nell'ennesimo distanziamento dal progetto accusatorio. La scelta della Corte europea dei diritti umani di assegnare massimo rilevo alla volontà dell'accusato si iscrive, invece, in una logica processuale pienamente “accusatoria”, mai integralmente trasfusa nel nostro ordinamento, nonostante i proclami che vogliono il nostro processo fedele al modello anglosassone. Forzare ex lege la volontà della parte attraverso l'imposizione della riapertura del contraddittorio rinunciato è una scelta che non si pone proprio in linea con un modello, come quello accusatorio, proteso verso la massima valorizzazione della volontà delle parti nella gestione delle strategie processuali e, soprattutto, nella allegazione delle prove. 2) Il secondo nodo si rinviene nella riconduzione del rito alla dimensione (parzialmente) orale avviene solo quando il pubblico ministero impugna la sentenza di assoluzione e non quando ricorre l'imputato contro la sentenza di condanna. Qui la critica non è sulla ragionevolezza, o sulla conformità ai modelli, ma sul rispetto della legalità convenzionale. Ci si chiede: è compatibile con la tutela del diritto alla parità delle armi garantito dall'art. 6 della Convenzione la previsione ex lege di statuti probatori differenziati tra il processo che, in ipotesi, volge contro l'interesse dell'imputato (perché impugna la parte pubblica) e quello che, in astratto, si orienta contro l'interesse collettivo rappresentato dal pubblico ministero (perché impugna l'imputato)? Invero, un conto sono le asimmetrie che investono lo statuto valutativo ed altro quelle che investono lo statuto probatorio attraverso la legittimazione di processi ad “alto”, piuttosto che “basso”, approfondimento istruttorio. È incontestabile che le gravi conseguenze correlate ad una condanna debbano discendere da una valutazione delle prove che tenda verso la certezza (processuale), che può essere sfiorata solo se il giudizio sulla responsabilità resiste al confronto con le tesi antagoniste, sì da fugare ogni dubbio sulla responsabilità. Come altrettanto condivisibile ed incontestato è che ogni incrinamento di tale certezza debba condurre alla assoluzione. Tuttavia, tale differente statuto valutativo dovrebbe innestarsi sulla medesima tessitura probatoria: legittimare obblighi di rinnovazione a geometria variabile, che mutano a seconda che sia impugnata una assoluzione, piuttosto che una condanna, produce una differenziazione ex lege dei compendi probatori di difficile giustificazione alla luce del diritto convenzionale, che ritiene equo il processo nel quale sia garantita la “parità delle armi”. 3) Il terzo nodo si rinviene nella critica diseguaglianza (segnalata anche Corte costituzionale nella sentenza n. 124/2019) tra chi rinuncia al contraddittorio sulle prove e chi non lo fa: coimputati nella stessa posizione che scelgono riti diversi rischiano l'inflizione di pene edittali differenti sulla base di uno statuto probatorio di fatto omogeneo quanto ad assunzione delle testimonianze decisive. Queste vengono assunte comunque, sia che si rinunci al contraddittorio, sia che si scelga il percorso processuale ordinario. Si osserva un inquinamento del “patto” tra l'imputato rinunciante e lo Stato: alla rinuncia al contraddittorio, ed alla correlata contrazione dei tempi processuali, consegue lo sconto di un terzo della pena. Ma la fioritura del dibattimento in appello riallinea gli statuti probatori senza incidere sullo sconto di pena: premessa la stessa imputazione chi non rinuncia “rischia” pertanto, un terzo di pena in più all'esito di un processo (di fatto) uguale a quello del rinunciante quanto a modalità di assunzione di prove decisive.
I pregiudizi – È probabile che la scelta di rendere obbligatoria la rinnovazione della testimonianza in appello, quando si procede con il rito abbreviato, sconti almeno un paio di (pre)giudizi: Il primo: che la ripetizione delle dichiarazioni decisive sia un evento che favorisca l'imputato ed accresca le sue garanzie. L'affermazione si trova (anche) nel corpo della pronuncia della Corte costituzionale n. 124/2019 dove si legge che l'art. 111. Cost. «si limita a permettere che la prova possa in casi eccezionali formarsi al di fuori del contraddittorio, in particolare allorché l'imputato vi consenta; ma non prescrive affatto, […] che – una volta che l'imputato abbia prestato il proprio consenso a essere giudicato «allo stato degli atti» – una tale modalità di giudizio debba necessariamente valere per ogni fase del processo, compresa quella di appello». Come si vede il percorso argomentativo dei Giudici della Consulta è perfettamente antitetico a quello tracciato dalla Corte Edu che, invece, ritiene che la rinuncia, consapevole e volontaria al contraddittorio si estenda a tutti i gradi di giudizio. Si afferma ancora che il legislatore costituzionale ha inequivocamente concepito il contraddittorio «come una garanzia per l'imputato (così, ancora, sentenza n. 184/2009; nello stesso senso, Cass. pen., Sez. Un., 3 aprile 2018, n. 14800)» e che la sua eliminazione (anche volontaria e consapevole deve ritenersi) sia «una conseguenza pregiudizievole per l'imputato» dato che si risolve nella eliminazione di una disciplina probatoria concepita «come garanzia in suo favore contro condanne potenzialmente ingiuste» (Corte cost. n. 124/2019, § 4.2.). Invero l'assunzione in contraddittorio di una dichiarazione è un fatto neutro che non ha - ex ante - una direzione a favore dell'interesse privato piuttosto che di quello pubblico. L'unico dato certo è che se l'imputato ha rinunciato al contraddittorio, la rinnovazione non la voleva: si tratta di un evento processuale che, a ben guardare, ostacola ed inquina la strategia processuale di chi ha scelto di essere giudicato su “prove di carta”. E che grazie a tale scelta ha anche lucrato una assoluzione in primo grado. Il secondo (pre)giudizio è quello che si fonda sull'assunto che la rinnovazione della prova in appello garantista la qualità della decisione, in quanto il contraddittorio è il metodo migliore per assumere le testimonianze ed assicura il minor iato tra verità sostanziale e processuale. Dobbiamo intenderci: non è dubbio che la assunzione in contraddittorio della prova di fronte al giudice che procede sia il miglior metodo di assunzione della prova. Quello epistemologicamente più corretto. È dubbio però che favorisca l'avvicinamento dell'accertamento processuale alla verità sostanziale la riedizione della testimonianza a distanza di molti anni dalla prima assunzione e dalla percezione dei fatti oggetto della dichiarazione (come ritenuto dalla stessa Corte costituzionale nella sentenza n. 132/2019, sulla rinnovazione del dibattimento n caso di mutamento del giudice al § 3.1. E i processi di appello – purtroppo – si celebrano a distanza di molto tempo dalla verificazione dei fatti. Ritenere chiarificatrice e funzionale all'acquisizione di un compendio genuino la testimonianza assunta molto tempo dopo la percezione dei fatti sui quali verte contrasta con la linea culturale e scientifica che ha condotto a scegliere per la prova dichiarativa più fragile – quella del vulnerabile - la massima contrazione delle dichiarazioni. L'“autopsia” della testimonianza del vulnerabile effettuata da dottrina e giurisprudenza ha consentito di rilevare che il decorso del tempo rende più complessa sia la raccolta che la valutazione della prova dichiarativa, che si presenta fisiologicamente “inquinata” dalla stratificazione delle audizioni e dal loro distanziamento temporale. Si è pertanto ritenuto di concentrare l'audizione del vulnerabile nella capsula dell'incidente probatorio disposto in prossimità dei fatti sui quali verte la testimonianza, progettata per essere l'“unica” occasione di incontro tra il testimone e le parti (peraltro di fronte ad un giudice che - nella più gran parte dei casi – non è quello che decide). Si è cioè progettato un binario speciale di assunzione della prova dichiarativa del vulnerabile fondato sulla consapevole volontà di contrarre l'audizione e di evitarne le ripetizioni. Si tratta di un approdo raggiunto in relazione alla testimonianza del vulnerabile, che, tuttavia, fa riflettere anche sulle conseguenze della rinnovazione di tutte le testimonianze. In conclusione
In sintesi: la rinnovazione obbligatoria della testimonianza quando l'imputato rinuncia al contraddittorio a) non è coerente con la giurisprudenza convenzionale, che ritiene il diritto al contraddittorio pienamente disponibile, b) è di critica compatibilità il diritto alla parità delle armi tutelato dall'art. 6 della Convenzione, poiché prevede processi con prove variabili in relazione all'identità dell'impugnante, funzionale all'ipotetica creazione di un processo rafforzato nel solo interesse dell'imputato, c) è di critica compatibilità con l'art. 3 Cost., dato che chi rinuncia al contraddittorio è giudicato sulla base delle medesime testimonianze decisive (rinnovate) di chi non lo fa, ma lucra tuttavia lo sconto di un terzo della pena. Su tale ultimo punto vale la pena di osservare che la metamorfosi del processo correlata alla rinnovazione obbligatoria ha posto in luce la categoria della prova dichiarativa “decisiva” ed ha marcato una distinzione netta tra oralità decisiva ed irrinunciabile, e oralità superflua, inutile: si tratta di uno dei (pochi) effetti benefici del percorso giurisprudenziale e normativo che ha condotto alla legittimazione del processo a statuto probatorio variabile Chi intendesse riequilibrare il processo riallineando gli statuti probatori e riconsegnando all'imputato il diritto a rinunciare pienamente al contraddittorio potrebbe tentare di riproporre la questione di costituzionalità, forte del clima culturale innescato dalla bocciatura convenzionale: tuttavia si tratterebbe di indurre i Giudici di Palazzo della Consulta a rivedere una decisione assai recente (sentenza n. 124/2019) e particolarmente esplicita nella legittimazione del processo a statuto probatorio variabile. Probabilmente la strada da seguire, per rimettere in asse il processo, dovrebbe passare da una rimeditazione delle linee interpretative tracciate dalla Cassazione, funzionale alla ricerca di un nuovo equilibrio, che riassegni all'imputato il suo pieno diritto a rinunciare al contraddittorio. Sia chiaro: anche ove si riequilibrasse il giudizio di appello resterebbe uno iato tra il nostro sistema e quello accusatorio puro cui si ispira la Corte europea dei diritti umani. L'architettura del nostro codice prevede infatti numerose ipotesi di intervento del giudice sulla provvista probatoria (artt. 421, 422, 441 comma 5, 507, 603 c.p.p.) che allontanano in modo visibile (e definitivo) il nostro processo dal modello accusatorio. È vero che si tratta di interventi giurisdizionali e “facoltativi”, non paragonabili all'”obbligo” di rinnovazione ma è indubbio che inquinino, e non di poco, il modello accusatorio. Ma questa è un'altra storia. H. Belluta – L. Lupária, La parabola ascendente dell'istruttoria in appello nell'esegesi “formante” delle Sezioni Unite, in Dir. pen. cont. – Riv. Trim., 3/2017, p. 151 ss. Il richiamo riguarda, in particolare, un obiter dictum contenuto in Cass., Sez. Un., 28-4-16, Dasgupta, in questa Rivista, 5 ottobre 2016, con nota di E. Lorenzetto, Reformatio in peius in appello e equo processo (art. 6 Cedu): fisiologia e patologia secondo le Sezioni unite. Cfr. anche V. Aiuti, Poteri d'ufficio della Cassazione e diritto all'equo processo, in Cass. pen., 2016, p. 3214; S. Tesoriero, Luci e ombre della rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale in appello per il presunto innocente, in Giust. pen., 2017, III, p. 79 ss.; ID., La rinnovazione della prova dichiarativa in appello alla luce della Cedu, in Dir. pen. cont. – Riv. trim., 3-4/2014, p. 239 ss.; nonché, più in generale, Cass., Sez. Un., 19- 1-17, Patalano, in Cass. pen., 2017, p. 2672 ss., con nota di R. Aprati, Overturning sfavorevole in appello e mancanza del riesame. Sulla pronuncia, volendo, H. Belluta – L. Lupária, Ragionevole dubbio e prima condanna in appello: solo la rinnovazione ci salverà?, in questa Rivista, 8 maggio 2017. H. Belluta – L. Lupària, La rinnovazione dell'istruzione dibattimentale fra leggi e giurisprudenza: punti fermi…e non, in G. Canzio-R. Bricchetti, Le impugnazioni penali, Giuffrè, 2019; H. Belluta – L. Lupária, La parabola ascendente dell'istruttoria in appello nell'esegesi “formante” delle Sezioni Unite, in Dir. pen. cont., 3/2017; M. Bargis, Le impugnazioni, in G. Conso - V. Grevi - M. Bargis (a cura di), Compendio di procedura penale, Cedam, 2018. Una lettura in senso critico della novella legislativa è offerta da A. Capone, Appello del pubblico ministero e rinnovazione istruttoria, in M. Bargis – H. Belluta (a cura di), La riforma delle impugnazioni tra carenze sistematiche e incertezze applicative, Giappichelli, 2018; V. Aiuti, Obbligo di rinnovazione e prova dichiarativa, in A. Marandola – T. Bene, La riforma della giustizia penale, Giuffrè, 2017, p. 243 ss.; S. Recchione: Il processo a statuto probatorio variabile: la rinnovazione in appello della prova scientifica, in Sistema penale, 23 giugno 2020. |