Il requisito della convivenza ai fini della prova del danno non patrimoniale da perdita del rapporto parentale
Ilaria Oberto Tarena
11 Maggio 2021
Il presente contributo ha lo scopo di analizzare gli orientamenti della Suprema Corte in merito alla rilevanza del requisito della convivenza ai fini della prova del danno non patrimoniale da perdita del rapporto parentale. Negli ultimi anni, la Suprema Corte si è, infatti, pronunciata in diverse occasioni sulla necessità o meno per i congiunti di dover provare di aver convissuto con il defunto per ottenere il risarcimento del danno da perdita del rapporto parentale.
Il danno da perdita del rapporto parentale
Nel nostro ordinamento, il Legislatore non ha ancora fornito una definizione ufficiale del danno da perdita del rapporto parentale, che pertanto, al momento, resta frutto di un'elaborazione giurisprudenziale e dottrinale.
Tale voce di danno consegue alla definitiva perdita del rapporto parentale a causa della morte di un proprio congiunto (Cass. civ., sez. III, 31 maggio 2003, n.8827 e n. 8828).
Secondo la giurisprudenza, esso consiste nella condizione di vuoto esistenziale che i familiari subiscono a seguito della morte del proprio congiunto, derivante dal fatto di non poter più godere della sua presenza, dalla distruzione di un sistema di vita basato sulla affettività, condivisione, solidarietà rassicurante quotidianità dei rapporti tra moglie e marito, tra genitori e figlio, tra fratello e fratello, e dal non poter più fare ciò che per anni si è fatto, nonché dall'alterazione che una scomparsa del genere inevitabilmente produce anche nelle relazioni tra i superstiti (cfr. ex multisCass. civ., sez. III, 20 ottobre 2016, n.21230; Cass. civ., sez. III, 13 aprile 2018, n.9196).
La prova del danno da perdita del rapporto parentale
Secondo la giurisprudenza, non si tratta di un'ipotesi di danno in re ipsa e pertanto il danneggiato deve allegare e provare il danno (Cass. civ., sez. III, 28 febbraio 2019, n.5807; Cass. civ., sez. III, 23 giugno 2016, n.12985).
In particolare, per ottenere il risarcimento, il danneggiato deve provare la sussistenza di un legame famigliare con il defunto.
Tuttavia, parte della giurisprudenza ritiene che per alcuni soggetti sia sufficiente provare il legale famigliare, mentre altra parte della giurisprudenza richiede che sia necessario provare anche l'effettività e la consistenza del rapporto.
Primo orientamento: il danno patito dai soggetti appartenenti alla “famiglia nucleare” è presunto
Un orientamento della Suprema Corte sostiene, infatti, che in caso di uccisione di uno stretto congiunto appartenente al ristretto nucleo familiare (genitore, coniuge, fratello) il danno sia presunto, “dovendosi ordinariamente ritenere sussistente tra detti stretti congiunti un intenso vincolo affettivo ed un progetto di vita”. (Cass. civ.,sez. III, 11 dicembre 2018, n. 31950; Cass. civ., sez. III, 14 giugno 2016, n. 12146; Cass. civ. sez. III, 16 marzo 2012, n.4253).
In altre parole, se il danneggiato prova di essere uno stretto parente del defunto, il danno da perdita del rapporto parentale sarà automaticamente presunto perché secondo l'id plerumque accidit si può presumere che tra congiunti appartenenti al nucleo familiare più ristretto sussistesse un vincolo affettivo e un progetto di vita comune.
Tale orientamento troverebbe il suo fondamento negli artt. 29 e 30 Cost. che menzionano il coniuge, i genitori e i figli quali componenti della cosiddetta “famiglia nucleare” e pertanto ritiene che soltanto tali soggetti possano ottenere il risarcimento del danno da perdita del rapporto parentale.
La Suprema Corte precisa che si tratta di una presunzione semplice che può tuttavia essere superata da elementi di segno contrario. Ad esempio, nel caso esaminato dalla Cass. civ. n. 31950 dell'11 dicembre 2018, era stata provata l'esistenza di una relazione extraconiugale con conseguente nascita di un figlio tre mesi prima della morte del coniuge e la Corte d'Appello aveva pertanto negato il risarcimento.
Con la citata pronuncia, la Cassazione ha precisato che la prova della infedeltà fa cadere la presunzione della sussistenza del danno ma “Detti elementi non comportano, di per sè, l'insussistenza del danno non patrimoniale in capo al coniuge superstite, ma impongono a quest'ultimo, in base agli ordinari criteri di ripartizione dell'onere della prova di cui all'art. 2697 c.c. (essendo stata, come detto, superata la presunzione), di provare di avere effettivamente subito, per la persistenza del vincolo affettivo, il domandato danno non patrimoniale.” (Cass. civ., sez. III, 11 dicembre 2018, n.31950).
Secondo orientamento: il danno può essere riconosciuto anche a soggetti estranei alla “famiglia nucleare” purché sia provata la effettività e consistenza del legame famigliare
Un diverso orientamento ritiene invece che la "società naturale", cui fa riferimento l'art. 29 Cost., non sia limitata alla sola "famiglia nucleare".
Per l'effetto, tale orientamento non limita il risarcimento ai soli componenti della “famiglia nucleare” ma lo riconosce anche ad altri soggetti (quali i nipoti, i nonni, gli zii, la nuora, la suocera..) purché provino appunto l'ampiezza e la profondità del legame avuto col defunto (Cass. civ., sez. III, 26 maggio 2020, n.9696; Cass. civ., sez. III, 8 aprile 2020, n.7743).
Secondo questo secondo orientamento, il danno da perdita del rapporto parentale non può quindi essere mai presunto. Pertanto, oltre a dover provare la sussistenza di un legame famigliare con il defunto, il danneggiato debba provare anche la effettività e consistenza del vincolo.
Il requisito della convivenza
Il secondo orientamento è stato più volte confermato dalla Suprema Corte con diverse pronunce depositate nel 2020 e, recentemente, anche con la ordinanza n. 5258 del 25 febbraio 2021 e pertanto, ad oggi, può definirsi quello maggioritario.
Se da una parte, tale prospettiva ha il pregio di valorizzare i rapporti di parentela al di fuori della “famiglia nucleare”, sussiste tuttavia il pericolo di ampliare eccessivamente il novero dei soggetti che possono ottenere il risarcimento del danno da perdita del rapporto parentale.
Il requisito della convivenza potrebbe allora essere valorizzato per contemperare la salvaguardia del diritto del superstite alla tutela del rapporto parentale con l'esigenza di non allargare la platea dei soggetti legittimati a richiedere il risarcimento?
In altre parole, la convivenza col defunto potrebbe essere il discrimine per riconoscere o negare il risarcimento del danno da perdita del rapporto parentale?
Nel 2020, la Cassazione ha risposto al quesito negativamente in più occasioni sostenendo che: “Il danno non patrimoniale da lesione o perdita del rapporto parentale non è rigorosamente circoscritto ai familiari conviventi, poiché il rapporto di convivenza, pur costituendo elemento probatorio utile a dimostrarne l'ampiezza e la profondità, non assurge a connotato minimo di esistenza di rapporti costanti di reciproco affetto e solidarietà, escludendoli automaticamente in caso di sua mancanza. In particolare, nessun rilievo può essere attribuito, al fine di negare il riconoscimento di tale danno, all'unilateralità del rapporto di fratellanza ed all'assenza di vincolo di sangue, non incidendo essi negativamente sull'intimità della relazione, sul reciproco legame affettivo e sulla pratica della solidarietà.” (Cass. civ., sez. III, 5 novembre 2020, n. 24689, Cass. civ., sez. III, 26 maggio 2020, n.9696; Cass. civ., sez. III, 8 aprile 2020, n.7743).
Il principio è stato ribadito anche con la recentissima ordinanza del 25 febbraio 2021, con cui la Suprema Corte ha confermato che: “In tema di domanda di risarcimento del danno non patrimoniale "da uccisione", proposta "iure proprio" dai congiunti dell'ucciso, questi ultimi devono provare l'effettività e la consistenza della relazione parentale, rispetto alla quale il rapporto di convivenza non assurge a connotato minimo di esistenza, ma può costituire elemento probatorio utile a dimostrarne l'ampiezza e la profondità, e ciò anche ove l'azione sia proposta dal nipote per la perdita del nonno; infatti, poiché la "società naturale", cui fa riferimento l'art. 29 Cost., non è limitata alla cd. "famiglia nucleare", il rapporto tra nonni e nipoti, per essere ritenuto giuridicamente qualificato e rilevante, non può essere ancorato alla convivenza, escludendo automaticamente, in caso di insussistenza della stessa, la possibilità per tali congiunti di provare l'esistenza di rapporti costanti di reciproco affetto e solidarietà con il familiare defunto (Cass. n. 7743 del 2020, n. 29332 del 2017 e n. 21230 del 2016).”
Secondo l'orientamento maggioritario della Suprema Corte, la convivenza non può quindi assurgere a criterio per negare il risarcimento del danno da perdita del rapporto parentale.
La convivenza è infatti soltanto un elemento che, insieme ad altri, può contribuire alla prova della consistenza ed effettività del rapporto famigliare.
Una posizione singolare è stata invece espressa dalla sezione sesta della Suprema Corte con la sentenza n. 5452 del 28 febbraio 2020 ponendosi al confine tra il primo orientamento, che presume il danno da perdita del rapporto parentale in favore dei componenti della “famiglia nucleare” e il secondo orientamento, che richiede sempre la prova della consistenza ed effettività del rapporto.
Con la sentenza n. 5452 del 28 febbraio 2020, la Cassazione ha infatti affermato: “Il fatto illecito costituito dalla uccisione del congiunto dà luogo a un danno non patrimoniale presunto, consistente nella perdita del rapporto parentale, allorché colpisce soggetti legati da uno stretto vincolo di parentela, la cui estinzione lede il diritto all'intangibilità della sfera degli affetti reciproci e della scambievole solidarietà che caratterizza la vita familiare nucleare. Perché, invece, possa ritenersi risarcibile la lesione del rapporto parentale subita da soggetti estranei a tale ristretto nucleo familiare (quali i nonni, i nipoti, il genero o la nuora), è necessario che sussista una situazione di convivenza, in quanto connotato minimo attraverso cui si esteriorizza l'intimità delle relazioni di parentela, anche allargate, contraddistinte da reciproci legami affettivi, pratica della solidarietà e sostegno economico, solo in tal modo assumendo rilevanza giuridica il collegamento tra danneggiato primario e secondario, nonché la famiglia intesa come luogo in cui si esplica la personalità di ciascuno”.
La citata sentenza si pone proprio in una posizione intermedia rispetto ai due orientamenti esposti poc'anzi.
Da un lato, rispetto ai soggetti legati da uno stretto vincolo di parentela, facenti parte della “famiglia nucleare”, il danno da perdita del rapporto parentale è infatti presunto.
Dall'altro lato, la sentenza non esclude però che il risarcimento possa essere riconosciuto anche a soggetti che non fanno parte del ristretto nucleo familiare ma rispetto a quest'ultimi il è necessaria la prova della convivenza.
Con la pronuncia n. 5452 del 28 febbraio 2020, la sesta sezione civile rivaluta quindi proprio il requisito della convivenza e lo identifica quale “connotato minimo” per poter riconoscere il risarcimento del danno ai soggetti che non fanno parte della “famigliare nucleare”.
In conclusione
Da quanto esposto, si evince che, in assenza di un intervento del Legislatore, la Suprema Corte è, ancora oggi, alla ricerca di un difficile bilanciamento tra due contrapposte esigenze.
Tutti gli orientamenti citati cercano infatti di contemperare, a loro modo, l'esigenza di risarcire i famigliari del defunto con la necessità di non allargare eccessivamente la platea dei soggetti che possono ottenere il risarcimento.
Il primo orientamento, che limita il risarcimento ai soli componenti della “famiglia nucleare”, è quello più restrittivo rispetto al novero dei soggetti e assicura una maggiore certezza in merito a chi potrà ottenere il risarcimento del danno, limitando l'esposizione risarcitoria del danneggiante. Tuttavia, tale prospettiva comporta inevitabilmente l'esclusione di tutti quegli altri soggetti che non fanno parte della “famiglia nucleare” e ciò seppure gli stessi possano avere un avuto un rapporto consistente ed effettivo col defunto alla pari o superiore rispetto ai membri della “famiglia nucleare” (si pensi, ad esempio, alla relazione tra nonno e nipote). Inoltre, poiché tale orientamento si fonda su una presunzione, seppure semplice, rende particolarmente gravoso l'onere probatorio in capo al danneggiante, che si vede costretto a provare la sussistenza di circostanze che escludano il forte legame famigliare (in contrasto al principio della vicinanza della prova).
Il secondo orientamento, che non presume mai la sussistenza del danno richiedendo la prova dell'effettività e consistenza, è quello che può dare maggior rilievo ai reali rapporti esistenti tra defunto e parenti. Richiede però al giudice di merito un'attenta valutazione dei requisiti di consistenza ed effettività del vincolo, che devono essere provati dal danneggiato, per evitare che si ampli eccessivamente la platea dei parenti che possono ottenere il risarcimento. In questo senso, il rapporto di convivenza può costituire uno degli elementi probatori utili a dimostrarne l'ampiezza e la profondità del legame.
Da ultimo, il terzo orientamento espresso dalla sentenza n. 5452 del 28 febbraio 2020 rischia di presentare gli stessi inconvenienti del primo orientamento. Apparentemente sembra infatti allargare il novero dei soggetti che possono ottenere il risarcimento, richiedendo la sola prova della convivenza per chi non faccia parte della “famiglia nucleare”. Tuttavia, presume automaticamente dal rapporto di convivenza che il rapporto famigliare sia intenso come quello dei membri della “famiglia nucleare”, non richiedendo alcuna prova della effettività e consistenza. Restano quindi nuovamente esclusi gli altri soggetti che, seppure non conviventi, potrebbe aver comunque avuto un forte e duraturo legame col defunto.
Riferimenti
“Danno da perdita del rapporto parentale”, Marco Ridoldi, Bussola, Ridare;
“Responsabilità sanitaria: risarcimento dimezzato per il figlio nato morto
”, Michol Fiorendi, Ridare;
“Risarcimento del danno da lesione del rapporto parentale: quanto rileva il vincolo di sangue?” Antonio Serpetti di Querciara, Ridare.
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Sommario
Primo orientamento: il danno patito dai soggetti appartenenti alla “famiglia nucleare” è presunto
Secondo orientamento: il danno può essere riconosciuto anche a soggetti estranei alla “famiglia nucleare” purché sia provata la effettività e consistenza del legame famigliare