Cenni interpretativi e applicativi del nuovo reato di sfruttamento del lavoro di cui all'art. 603-bis c.p.

01 Giugno 2021

È noto che solo di recente il legislatore italiano ha inteso punire direttamente l'imprenditore o, comunque, il datore di lavoro che utilizzi manodopera in condizioni di sfruttamento, approfittando del relativo stato di bisogno dei soggetti impiegati. La legge n. 199/2016, in vigore dal 4 novembre 2016, ha modificato l'art. 603-bisc.p., introducendo la nuova figura del reato di Intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro. Si tratta di un delitto che prevede la pena della reclusione da uno a sei anni e della multa da 500 a 1.000 euro per ciascun lavoratore reclutato...
Il nuovo reato di sfruttamento dei lavoratori

È noto che solo di recente il legislatore italiano ha inteso punire direttamente l'imprenditore o, comunque, il datore di lavoro che utilizzi manodopera in condizioni di sfruttamento, approfittando del relativo stato di bisogno dei soggetti impiegati.

La legge n. 199/2016, in vigore dal 4 novembre 2016, ha modificato l'art. 603-bisc.p., introducendo la nuova figura del reato di Intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro.

Si tratta di un delitto che prevede la pena della reclusione da uno a sei anni e della multa da 500 a 1.000 euro per ciascun lavoratore reclutato, nei confronti di chiunque:

  1. recluta manodopera allo scopo di destinarla al lavoro presso terzi in condizioni di sfruttamento, approfittando dello stato di bisogno dei lavoratori;
  2. utilizza, assume o impiega manodopera, anche mediante l'attività di intermediazione di cui al numero 1), sottoponendo i lavoratori a condizioni di sfruttamento ed approfittando del loro stato di bisogno.

La figura di cui al n. 1) (reclutamento di manodopera da destinare al lavoro presso terzi in condizioni di sfruttamento) costituisce la condotta che si riconduce al tradizionale fenomeno del “caporalato” (i “caporali” sono gli intermediari che si occupano di reperire e reclutare la manodopera “in nero”), storicamente iniziato nel settore agricolo del meridione italiano, laddove è richiesta una attività stagionale, semplice e ripetitiva (tipicamente la raccolta di prodotti agricoli), per la quale non è richiesta una particolare specializzazione. In tale contesto, si approfitta della fungibilità dei lavoratori e delle loro condizioni di povertà e precarietà per sfruttarne il lavoro, mediante corresponsione di bassi salari, solitamente pagati a giornata, una parte dei quali destinata al “caporale” per la relativa organizzazione dell'attività di intermediazione.

La novità di tale disposizione è costituita dalla fattispecie descritta al n. 2), con cui si prevede la punibilità di colui che, indifferentemente, utilizza, assume o impiega manodopera in condizioni di sfruttamento, approfittando del loro stato di bisogno.

Si tratta, quindi, della diretta punibilità del “datore di lavoro” che si avvalga di lavoratori da lui stesso (o tramite intermediari) reclutati, il quale ne sfrutti la forza-lavoro approfittando delle loro precarie condizioni economiche.

Nella nuova fisionomia del reato, per la condotta base non sono più richiesti, come in precedenza, i requisiti della violenza o minaccia, che adesso costituiscono una specifica aggravante del delitto (comma 2).

Sotto questo profilo, il legislatore ha attribuito rilevanza penale a qualsivoglia condotta di sfruttamento della manodopera (in stato di bisogno), punendo direttamente l'utilizzatore-datore di lavoro, indipendentemente dall'intervenuta intermediazione illecita del “caporale”.

Il delitto è stato configurato, quindi, come un reato di evento, caratterizzato, sotto il profilo soggettivo, dal dolo specifico per la condotta di cui al n. 1) (reclutamento dei lavoratori allo scopo di sfruttamento, approfittando dello stato di bisogno) e dal dolo generico per la condotta di cui al n. 2) (reclutamento, impiego o assunzione in condizioni di sfruttamento e approfittando dello stato di bisogno).

La condotta tipica del reato e la funzione degli indici legali di contesto

Tralasciando per un attimo il requisito dello stato di bisogno, pure necessario per la configurazione del reato, nella prassi si pone essenzialmente il problema di stabilire in cosa si concretizzi la condotta tipica di “sfruttamento” dei lavoratori.

La novella ha inteso risolvere il problema mediante l'elencazione di alcuni “indici legali” di sfruttamento, dai quali dovrebbe desumersi, in ragione del concreto contesto fattuale ricavabile dagli stessi, la ricorrenza di una condizione di soggezione del lavoratore rispetto ad un datore di lavoro (o a un intermediario) che approfitti indebitamente della intrinseca debolezza del prestatore di lavoro.

Secondo la norma è sufficiente che ricorra una sola delle seguenti condizioni per poter ravvisare una fattispecie di sfruttamento lavorativo:

  1. la reiterata corresponsione di retribuzioni in modo palesemente difforme dai contratti collettivi nazionali o territoriali stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative a livello nazionale, o comunque sproporzionato rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato;
  2. la reiterata violazione della normativa relativa all'orario di lavoro, ai periodi di riposo, al riposo settimanale, all'aspettativa obbligatoria, alle ferie;
  3. la sussistenza di violazioni delle norme in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro;
  4. la sottoposizione del lavoratore a condizioni di lavoro, a metodi di sorveglianza o a situazioni alloggiative degradanti.

A ben vedere, si tratta di indici tipici di un contesto di “sfruttamento”, termine che anche nel significato comune descrive una situazione di approfittamento senza scrupoli da parte di un soggetto nei confronti di altri e, con particolare riguardo all'ambito lavorativo, l'instaurazione di un rapporto per mezzo del quale una parte (quella datoriale) si giova della prestazione d'opera di altre persone senza ricompensarle adeguatamente, approfittando del loro stato di bisogno.

Tuttavia, è bene chiarire che gli indici menzionati dalla norma non descrivono la condotta tipica del reato, che rimane quella di sfruttamento dei lavoratori (approfittando del loro stato di bisogno). In tale prospettiva, appare preferibile considerare gli indici come elementi fattuali di contesto, menzionati dal legislatore per orientare l'interprete (in ultima analisi il giudice) al fine di riscontrare la sussistenza di rapporti lavorativi sussumibili nell'ipotesi di reato in disamina. In altri termini, gli indici di contesto, pur essendo fuori dalla tipicità, servono a definirla medianti indicatori sintomatici della sua ricorrenza.

Per altro verso, va sottolineato come anche la configurabilità in concreto di indicatori nella vicenda oggetto di giudizio debba essere sottoposta ad attenta analisi da parte del giudicante al fine di verificare la sussistenza dello sfruttamento penalmente rilevante. In altri termini, considerato che l'attività di sfruttamento lavorativo costituisce un fenomeno complesso, l'approccio del giudice - rispetto a situazioni lavorative apparentemente riconducibili ad uno degli indici citati dalla norma - deve rifuggire da automatismi interpretativi che si limitino a constatare la sussistenza dei detti indicatori per affermare tout court la configurabilità del reato, qualora dagli stessi non sia possibile desumere effettive condizioni di sfruttamento. In questa prospettiva, gli indici di contesto sono stati accolti favorevolmente da quella dottrina che ne ha sottolineato la funzione di “linee guida” a fini di orientamento probatorio, idonei a delimitare entro parametri predeterminati l'attività dell'interprete, in maniera tale da ricondurre alla fattispecie criminosa in esame solo vicende lavorative che, per mezzo dei detti indicatori, facciano emergere contesti di sfruttamento del lavoro meritevoli di tutela penale, in ragione della evidente sproporzione esistente fra le parti nell'ambito del sinallagma contrattuale del rapporto di lavoro, caratterizzato da situazioni di vero e proprio abuso nei confronti del lavoratore subordinato.

La tecnica normativa di elencazione di specifici indici di contesto ai fini della concreta ravvisabilità degli estremi del reato consente, in definitiva, di evitare il rischio di un intervento eccessivamente discrezionale del giudice nell'interpretazione della fattispecie, a fronte di una condotta tipica che si richiama ad un concetto (lo sfruttamento) di per sé sfuggente e indefinito. La mancata enumerazione di indici legali di sfruttamento avrebbe potuto dare adito ad una casistica giurisprudenziale eccessivamente creativa e variegata dei fenomeni di sfruttamento lavorativo, in violazione dei principi di determinatezza e tipicità del precetto penale.

Piuttosto, occorre che l'interprete prenda le mosse dall'analisi degli indicatori ravvisabili nel caso concreto, al fine di stabilire se gli stessi siano rivelatori di una fattispecie di sfruttamento lavorativo, intesa come quella particolare condizione di vulnerabilità in cui versi il lavoratore che, proprio in funzione del suo stato di bisogno, si trovi costretto, suo malgrado, ad accettare condizioni di lavoro lato sensu precarie, onerose o degradanti.

Nell'applicazione della norma non va dimenticato che si tratta pur sempre di punire forme intollerabili (o comunque odiose) di compressione della dignità del lavoratore, rispetto a posizioni datoriali e/o di intermediari che intenzionalmente approfittino della mancanza di alternative del soggetto “debole”, vale a dire del lavoratore bisognoso. Non a caso, del resto, il nuovo reato è stato inserito nella prima sezione del capo III del titolo XII della parte speciale del codice penale, dedicata ai reati contro la libertà individuale, ad indicare che il bene tutelato è la stessa dignità umana, offesa da una situazione di costrizione della libertà e dalla mercificazione dell'essere umano, come tale lesiva di diritti fondamentali dell'uomo.

Breve analisi degli indici di sfruttamento

In questa prospettiva, gli indici sintomatici dello sfruttamento lavorativo, come già detto, sono stati suddivisi in quattro diverse tipologie - a) remunerazione non adeguata; b) tempo di lavoro eccessivo; c) violazioni di obblighi in tema di igiene e sicurezza sul lavoro; d) modalità̀ generali della prestazione lavorativa: condizioni, metodi di sorveglianza, situazioni alloggiative degradanti -, ciascuna delle quali caratterizzata da uno o più indicatori la cui concreta sussistenza dovrebbe consentire di rivelare una condizione di sfruttamento lavorativo.

Prendendo le mosse dal primo indice, di intuitiva importanza trattandosi della retribuzione, si deve osservare come la corresponsione di salari non corrispondenti ai contratti collettivi, di per sé non necessariamente indice di sfruttamento, lo può diventare se si riscontra una condotta che si concretizzi nel pagamento “reiterato” di retribuzioni “palesemente difformi” (per difetto) dai contratti collettivi nazionali o territoriali, ovvero per importi significativamente più bassi rispetto a quanto ordinariamente stabilito per quantità e qualità del lavoro prestato. L'indagine, in questo caso, si dovrà incentrare sull'accertamento di un comportamento (non sistematico ma quantomeno) ripetuto dell'imprenditore, finalizzato all'abituale corresponsione di retribuzioni largamente inferiori rispetto a quanto normalmente previsto nel settore lavorativo di riferimento.

Quanto all'orario di lavoro, si dovrà trattare, anche qui, di reiterate violazioni di regole relative agli orari di lavoro, ai periodi di riposo e alle ferie, indicative di una situazione di costrizione dei lavoratori i quali, in ragione del loro stato di bisogno, si trovino nella condizione di dover accettare imposizioni di tal fatta, indicative del loro sfruttamento. Di contro, è evidente che isolate e sporadiche violazioni delle regole in materia di orario di lavoro o di ferie non possano reggere la figura criminosa in disamina.

Rispetto al terzo indice, concernente gli obblighi in tema di igiene e sicurezza sul lavoro, il legislatore ha significativamente utilizzato il termine violazioni al plurale, volendo chiaramente indicare che si deve trattare di plurime violazioni sostanziali della normativa in tema di igiene e sicurezza sul lavoro. Anche in questo caso, si deve trattare di violazioni rivelatrici di una situazione di sfruttamento e di approfittamento nei confronti del lavoratore, suo malgrado costretto ad accettare condizioni di lavoro non igieniche o pericolose in ragione delle sue precarie condizioni economiche, che non gli consentono di trovare valide alternative alla sua condizione lavorativa. Di contro, una isolata violazione formale della normativa in questione da parte del datore di lavoro non potrebbe mai costituire, di per sé, indice di sfruttamento.

Infine, quanto al quarto indice, si deve trattare della sottoposizione del lavoratore a condizioni di lavoro, a metodi di sorveglianza o a situazioni alloggiative degradanti, vale a dire indecorose o umilianti per il prestatore d'opera, in quanto tali lesive della sua dignità umana.

Lo stato di bisogno

Solitamente presenta meno problemi applicativi la verifica della ricorrenza dello stato di bisogno dei lavoratori vittime del reato, atteso che condizioni di sfruttamento quali quelle descritte dalla norma si accompagnano normalmente a prestatori d'opera in stato di indigenza materiale, quindi a lavoratori “poveri”, come tali disposti ad accettare lavori degradanti, pericolosi, poco remunerativi, con orari massacranti o in condizioni igieniche precarie, a fini di sopravvivenza e di sostentamento economico.

Nella sostanza si tratta di un'endiadi: sfruttamento e stato di bisogno sono condizioni che devono sempre rinvenirsi ai fini della concreta configurabilità del reato, posto che lo sfruttamento dei lavoratori da parte di datore di lavoro o intermediario costituisce la conseguenza dell'approfittamento dello stato di bisogno in cui versano le persone offese.

In assenza dello stato di bisogno, non può aversi sfruttamento lavorativo ai sensi del reato di cui all'art. 603-bis c.p.

Si può fare l'esempio del giovane stagista disposto a svolgere una prestazione lavorativa sottopagata, rispetto a quantità e qualità del lavoro a lui demandato, al fine di acquisire esperienza professionale utile per futuri incarichi; o quello del neo-laureato disposto a svolgere pratica professionale senza alcun compenso, necessaria per intraprendere la professione; o ancora si può pensare alla cassiera del supermercato sottoposta ad orari lavorativi massacranti, senza possibilità di brevi pause per bere o assolvere alle necessità fisiologiche. Si tratta di situazioni che potrebbero in astratto ricondursi a condizioni di sfruttamento lavorativo, in cui tuttavia manca il requisito dello stato di bisogno del lavoratore.

A tale proposito, è nota la polemica derivante da asserite condizioni di sfruttamento dei c.d. rider (o ciclofattorini), vale a dire delle persone addette alla consegna a domicilio di cibo cotto e bevande, spesso sottoposti a dure condizioni di lavoro da parte di società che operano nel settore e che svolgono la funzione di intermediari rispetto ad esercizi di ristorazione, anche a livello nazionale. La recente inchiesta della Procura di Milano - all'esito dell'esame delle posizioni di oltre 60mila rider operanti nel periodo 2017-2020 - ha consentito di accertare che tali lavoratori, formalmente regolarizzati con contratti di lavoro autonomo di tipo occasionale (ex art. 2222 c.c.), sarebbero in realtà inseriti a pieno titolo nell'organizzazione d'impresa, operando all'interno del ciclo produttivo del committente che coordina la sua attività lavorativa a distanza, attraverso un'applicazione digitale preinstallata su smartphone o tablet. Ciò ha condotto all'emissione di verbali amministrativi nei confronti delle società interessate, tramite i quali il rapporto lavorativo dei rider è stato riqualificato in una prestazione di tipo coordinato e continuativo (ex art. 2, comma 1, d.lgs. n. 81/2015), inquadramento che determina, fra l'altro, anche il divieto di retribuzione a cottimo.

Ebbene, l'inchiesta della Procura di Milano si è limitata a riscontrare violazioni della normativa in materia di sicurezza del lavoro, e non ha riscontrato nella vicenda dei rider gli estremi penali dello sfruttamento lavorativo, nonostante la sussistenza di alcuni degli indici sintomatici indicati dalla legge (nel comunicato della Procura si accenna a plurime violazioni dei datori di lavoro in tema di salute e sicurezza dei lavoratori, con particolare riguardo alla omessa valutazione dei rischi, all'assenza di visita medica, alla mancanza di specifica formazione dei rider impiegati ecc.), verosimilmente in ragione della mancanza del requisito dell'approfittamento dello stato di bisogno dei lavoratori. Per quanto il rapporto di lavoro sia stato riqualificato dall'organo inquirente (e allo stato non è possibile escludere che i datori di lavoro non facciano ricorso avverso tale provvedimento), i rider sono stati considerati come lavoratori che avevano liberamente accettato un rapporto lavorativo autonomo previsto dalla legge, senza per questo esservi stati costretti da particolari condizioni di indigenza economica di cui i datori di lavoro si sarebbero approfittati.

In tal senso, l'elemento dello stato di bisogno e del relativo approfittamento assume un ruolo chiave nella corretta analisi dei dati fattuali a disposizione dell'interprete onde stabilire la concreta ricorrenza di tutti gli estremi oggettivi e soggettivi del delitto ex art. 603-bis c.p.

La posizione della giurisprudenza di legittimità

La giurisprudenza della Corte di legittimità, nei suoi primi interventi sulla nuova disposizione, ha dimostrato di aver ben compreso la funzione degli indici di contesto rispetto alla condotta tipica del delitto di sfruttamento lavorativo. Essi non sono elementi oggettivi del reato, ma servono a orientare il giudice nella concreta verifica di condizioni di sfruttamento nell'ambito di un determinato contesto lavorativo. In altri termini, gli indici legislativi servono a delineare e delimitare gli elementi fattuali sintomatici delle condizioni di sfruttamento, nell'ambito delle quattro tipologie di situazioni attinenti al rapporto di lavoro, dalle quali non si può prescindere ai fini della ravvisabilità in concreto della condizione di minorata difesa del lavoratore bisognoso.

Per tale motivo, la Corte di cassazione ha avuto modo di precisare come la mera condizione di irregolarità amministrativa del cittadino extracomunitario nel territorio nazionale, accompagnata da situazione di disagio e di bisogno di accedere alla prestazione lavorativa, non può di per sé costituire elemento valevole da solo ad integrare il reato di cui all'art. 603-bisc.p. caratterizzato, al contrario, dallo sfruttamento del lavoratore, i cui indici di rilevazione attengono ad una condizione di eclatante pregiudizio e di rilevante soggezione del lavoratore, resa manifesta da profili contrattuali retributivi o da profili normativi del rapporto di lavoro, o da violazione delle norme in materia di sicurezza e di igiene sul lavoro, o da sottoposizione a umilianti o degradanti condizioni di lavoro e di alloggio (Cass. pen., Sez. IV, n. 49781/2019).

Nel caso all'attenzione della Corte il contesto fattuale era quello di immigrate irregolari che svolgevano, per il tramite dell'intermediario, attività di “badante” di persone anziane senza un regolare contratto. Il Tribunale aveva tratto da tale situazione la gravità indiziaria del reato di cui all'art. 603-bis, ma i giudici di legittimità riscontravano nella valutazione di merito solo un formale richiamo ai profili sintomatici di sfruttamento delineati dalla legge, desunti dalla mera irregolarità del rapporto di lavoro e dalla asserita non corrispondenza di esso alle regole stabilite dai contratti nazionali di settore, alla sicurezza e all'igiene sui luoghi di lavoro, nonché́ alla sorveglianza e alle condizioni abitative degradanti; il tutto desunto dal contenuto di una sola intercettazione in cui si accennava alla questione, sollevata da una lavoratrice, della necessità che venisse regolarizzata la sua posizione lavorativa.

La Corte aveva modo di precisare come le conclusioni assunte dal Tribunale in punto di indici sintomatici della condizione di sfruttamento delle lavoratrici fossero meramente assertive e si limitassero a riprodurre il contenuto della norma che, peraltro, non enuncia tra gli indici di sfruttamento la mera condizione di irregolarità dei lavoratori stranieri.

Si tratta di un corretto richiamo alla necessità che le condizioni di sfruttamento siano chiaramente evocate nel percorso motivazionale dei giudici di merito, sulla scorta della concreta emersione di almeno uno degli indicatori menzionati dalla norma, e non da generiche condizioni di irregolarità amministrativa dei lavoratori, o da isolate situazioni non indicative di una reiterata attività di approfittamento di lavoratori bisognosi.

Si deve trattare, in definitiva, di comportamenti reiterati di sfruttamento della manodopera, che si manifestino sul piano delle retribuzioni corrisposte, del tempo di lavoro, delle condizioni igieniche o di sicurezza e delle modalità di svolgimento del rapporto di lavoro, in maniera tale da rendere evidente la condizione umiliante e degradante del lavoratore, derivante dalla sua posizione di soggetto “debole” perché in stato di bisogno, e come tale costretto ad accettare una condizione lesiva della sua dignità umana.

Clausola di riserva e rapporti con il reato di servitù

In conclusione, va rammentato che la disposizione penale in rassegna si apre con una clausola di riserva (Salvo che il fatto costituisca più grave reato), ad indicare che sono possibili contesti fattuali legati a rapporti lavorativi che vanno al di là dei limiti di una (già grave) condizione di sfruttamento del lavoro altrui.

Il pensiero va, evidentemente, a situazioni di totale asservimento e di assoluta costrizione del lavoratore, tipici del reato di mantenimento in servitù di cui all'art. 600 c.p., fattispecie che punisce (anche) situazioni di sfruttamento lavorativo commesse nei confronti di persone sottoposte ad uno stato di “soggezione continuativa” e di totale “costrizione” nei confronti del loro “aguzzino” (trattandosi di soggetto che commette il reato mediante violenza, minaccia, inganno, abuso o approfittamento di varie condizioni di “debolezza” della vittima).

Nella prassi applicativa potranno aversi situazioni in cui sarà problematico distinguere tra l'una e l'altra condizione, solo in astratto (ma spesso non in concreto) facilmente distinguibili, potendosi ravvisare contesti fattuali posti “ai confini” delle due fattispecie.

Basti considerare le ipotesi aggravate del reato di cui all'art. 603-bisc.p., vale a dire i fatti di sfruttamento lavorativo commessi mediante violenza o minaccia, in cui potrebbero anche ricorrere condizioni di persistente e pesante soggezione del lavoratore, in ipotesi riconducibili al più grave reato di cui all'art. 600 c.p. È chiaro che il discrimen, in questi casi, sarà quello di stabilire, in definitiva, se ci si trovi di fronte ad una effettiva condizione di servitù, quindi di privazione della libertà di agire da parte della persona offesa, causata da una significativa compromissione della sua capacità di autodeterminazione (cfr. Cass. pen., Sez. V, n. 15662/2020), che la veda costretta a lavorare in favore del suo dominus in condizioni di completo assoggettamento, senza alcuna possibilità di sottrarsi a tale condizione.

Diversamente, nel reato di sfruttamento lavorativo ex art. 603-bis, il lavoratore bisognoso, per quanto vessato e minacciato, avrà sempre la possibilità di sottrarsi alla prestazione lavorativa, nonostante l'evidente difficoltà per il medesimo di prendere una simile decisione, avuto riguardo alla sua condizione di vulnerabilità derivante dalla mancanza di mezzi.

Guida all'approfondimento

Comunicato Stampa 24.2.2021 della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Milano

Alberto Di Martino, Tipicità di contesto – a proposito dei c.d. indici di sfruttamento nell'art. 603-bis c.p., in Archivio Penale 2018 n. 3, p. 1

David Mancini, Il contrasto penale allo sfruttamento lavorativo: dalle origini al nuovo art. 603 bis c.p., 26 maggio 2017, www.altalex.com

Sergio Seminara, Nuove schiavitù e società “civile”: il reato di sfruttamento del lavoro, in Diritto Penale e Processo 2/2021, p. 137

Chiara Stoppioni, Intermediazione illecita e sfruttamento lavorativo: prime applicazioni dell'art. 603-bis c.p., in Diritto, Immigrazione e Cittadinanza, fasc. n. 2/2019, p. 70

Valeria Torre, Lo sfruttamento del lavoro. La tipicità dell'art. 603-bis c.p. tra diritto sostanziale e prassi giurisprudenziale, in Questione Giustizia

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