Solo in presenza di un interesse esclusivo dei soci la società non risponde del delitto dei suoi vertici
29 Giugno 2021
Massima
Sussiste la responsabilità da reato dell'ente qualora la persona giuridica abbia avuto un interesse anche solo concorrente con quello dell'agente alla commissione del reato presupposto, posto che l'interesse dell'autore del reato può anche solo coincidere con quello della persona giuridica, alla quale sarà imputabile l'illecito anche quando l'agente, perseguendo il proprio autonomo interesse, finisca per realizzare obiettivamente quello dell'ente. Il caso
In sede di merito una società era condottata in relazione al delitto di riciclaggio commessa dai suoi amministratori, avendo detta società beneficiato dell'indebito profitto derivante dal delitto di truffa commesso dagli amministratori in danno dello Stato e per i quali era stata dichiarata la prescrizione. In sede di ricorso per cassazione la società lamentava la contraddittorietà della motivazione in ordine alla responsabilità dell'ente non sussistente in caso di fatto-reato commesso nell'interesse esclusivo degli imputati del reato presupposto; a tal proposito, si deduceva che l'impugnata sentenza non aveva fornito alcuna prova dell'interesse dell'ente alla realizzazione dei delitti; inoltre, non erano state evidenziate circostanze tali da far ritenere che le incongruenze nella rappresentazione delle situazioni patrimoniali dei soci e la falsità della lettera di referenze della Banca Popolare di Bari fossero state predisposte al fine di soddisfare un interesse dell'ente. In ogni caso, tali informazioni non costituivano un presupposto necessario del finanziamento; doveva pertanto ritenersi contraddittoria la motivazione nella parte relativa all'ipotizzato collegamento tra il reato di truffa e gli interessi dell'ente imputato, e nessun danno per le casse erariali poteva ricollegarsi alle condotte asseritamente truffaldine poste in essere dai soci della società condannata, mentre, ove dovesse ritenersi che i soci non avevano effettuato alcun esborso mancherebbe l'interesse della società alla realizzazione della truffa e così la sua responsabilità amministrativa. La questione
Come è noto, ai sensi dell'art. 5 d.lgs. n. 231/2001 l'ente risponde solo dei reati commessi nel suo "interesse o vantaggio". La scelta di richiedere – ai fini dell'affermazione della responsabilità per il fatto di reato – che la persona giuridica abbia comunque ricevuto benefici economici dall'altrui condotta criminosa è funzionale all'esigenza di dare piena attuazione, anche in tale ambito sanzionatorio, al principio di colpevolezza di cui all'art. 27 Cost. In base al citato art. 5 d.lgs. 231/2001, infatti, la sussistenza della responsabilità da reato dell'ente collettivo si fonda su un duplice presupposto, ovvero da un lato la circostanza che l'illecito sia stato commesso nell'interesse o a vantaggio della persona giuridica e dall'altro che il reato sia stato posto in essere da un determinato novero di soggetti. Tuttavia, laddove il legislatore avesse ritenuto sufficiente, ai fini dell'affermazione della responsabilità della società, la sola sussistenza di un rapporto di immedesimazione organica fra soggetto agente ed ente collettivo, si sarebbe attestato su una interpretazione del canone di personalità della responsabilità penale assolutamente minimale, ritenendo di poter esaurire la lettura di tale principio costituzionale nella necessaria ricorrenza di una relazione fra l'agente singolo e la società di appartenenza, senza “dare alcun rilievo a momenti interni all'ente medesimo …[e senza considerare] fatti riconducibili al potere generale di organizzazione come la lacuna organizzativa oppure la politica d'impresa” (SELVAGGI, L'interesse dell'ente collettivo quale criterio di iscrizione della responsabilità da reato, Napoli 2006). Rispetto a tale impostazione, i redattori del d.lgs. n. 231/2001 hanno invece ritenuto che per una corretta attuazione del disposto di cui all'art. 27 Cost. nella materia de qua fosse necessario richiedere anche che la persona fisica avesse agito delittuosamente nell'interesse dell'ente ovvero che questi avesse comunque tratto un vantaggio dall'illecito. Non si è quindi reputata sufficiente – ai fini della dichiarazione di responsabilità della societas – la circostanza che il singolo avesse agito “per conto” dell'organizzazione, perché la responsabilità di quest'ultima non può fondarsi sulla mera esistenza di un rapporto di compenetrazione organica fra singolo e persona giuridica, senza alcuna considerazione delle conseguenze che l'ente può ottenere dalla altrui condotta delittuosa, mentre è proprio la considerazione di tali esiti che permette di comprendere se l'azione del singolo vada riferita alla posizione apicale che egli riveste all'interno della società o se si sia invece in presenza di una condotta tenuta in assoluta autonomia ed anche in spregio agli obblighi di gestione societaria. Quanto al significato dell'espressione “interesse”, la stessa richiama una valutazione di carattere soggettivo, inequivocabilmente riferita alla sfera volitiva del soggetto persona fisica che agisce, per cui la presenza o meno di tale requisito è suscettibile di valutazione ex ante, potendosene sostenere la sussistenza nella misura in cui la persona fisica non abbia agito in contrasto con gli interessi della società (ASTROLOGO, Brevi note sull'interesse ed il vantaggio nel d.lgs. 231/2001, in Ind. Pen., 2003, 657; CIALDELLA, Il requisito dell'interesse alla commissione del reato presupposto ai fini della responsabilità dell'ente, in Cass. Pen., 2014, 1361; BARTOLI, Le Sezioni Unite prendono coscienza del nuovo paradigma punitivo del "sistema 231", in Soc., 2015, 215; BERNARDO, Requisiti oggettivi della responsabilità degli enti dipendente da reato, in Dir. Prat. Soc., 2006, 60. Cass., sez. II, 20 dicembre 2005, n. 3615). In più occasioni, la giurisprudenza ha chiarito “in tema di responsabilità da reato degli enti collettivi, la responsabilità della persona giuridica sussiste anche quando, perseguendo il proprio autonomo interesse, l'agente obiettivamente realizzi (rectius: la sua condotta illecita appaia ex ante in grado di realizzare, giacché rimane irrilevante che lo stesso effettivamente venga conseguito) anche quello dell'ente. In definitiva, perché possa ascriversi all'ente la responsabilità per il reato, è sufficiente che la condotta dell'autore di quest'ultimo tenda oggettivamente e concretamente a realizzare, nella prospettiva del soggetto collettivo, anche l'interesse del medesimo (Cass. pen., sez. II, 5 ottobre 2017, n. 295). Le soluzioni giuridiche
Il ricorso è stato dichiarato manifestatamente infondato. In primo luogo, secondo la Cassazione, già i giudici di merito avevano adeguatamente spiegato per quali ragioni ritenere il diretto interesse dell'ente alla realizzazione della truffa; proprio utilizzando il profitto illecito della truffa era stato costruito l'impianto industriale in cui ha operato la società, la quale dunque aveva potuto intraprendere la sua attività esclusivamente grazie all'ottenimento di quel finanziamento frutto di artifizi, come dimostrato dalla circostanza che la società imputata pagava le somme necessarie per tali investimenti attraverso il denaro erogato dal Ministero che attraverso il sistema circolare tornava sul conto corrente della stessa società, trattandosi di operazioni fittizie, e veniva poi nuovamente utilizzato. Ciò posto, la decisione ricorda che l'art. 5, comma 1, d.lgs. n. 231/2001, prevede che il reato, in grado di consentire il trasferimento di responsabilità dalla persona fisica all'ente, sia commesso nell'interesse o a vantaggio dell'ente, precisando al comma 2 che la responsabilità cessa ove “il fatto sia commesso nell'esclusivo interesse proprio o di terzi" e cioè per un fine che non avvantaggia in alcun modo l'ente stesso. L'assenza dell'interesse rappresenta, dunque, un limite negativo della fattispecie. In proposito, possono richiamarsi diverse decisioni della cassazione, come quella (Cass. pen., n. 40380/2012) secondo cui in tema di responsabilità degli enti per il delitto di false comunicazioni sociali, qualora l'appostazione nel bilancio di una società di dati infedeli sia finalizzata a far conseguire alla medesima illeciti risparmi fiscali, il reato deve ritenersi commesso nell'interesse della persona giuridica. Analoga conclusione è stata assunta con riferimento al delitto di truffa ai danni dello Stato finalizzata ad ottenere un cospicuo finanziamento in conto capitale in assenza dei presupposti, delitto che deve ritenersi commesso proprio nell'interesse della persona giuridica che detti capitali ottiene ed utilizza per la propria attività mentre diversamente sarebbe ove fosse stato dimostrato che il finanziamento illecito era stato immediatamente distratto a vantaggio esclusivo dei soci. Questa circostanza, ovvero che la condotta illecita sia stata assunta ad esclusivo interesse dei soci, non è però stata dedotta nel ricorso né mai provata ed emersa in sede di merito. In suo luogo, la difesa avanza la tesi secondo cui nella vicenda era riscontrabile un concorrente (rispetto a quello della società) interesse personale dei soci. Tale considerazione, tuttavia, secondo la decisione in esame, è però irrilevante in quanto sussiste la responsabilità da reato dell'ente qualora la persona giuridica abbia avuto un interesse anche solo concorrente con quello dell'agente alla commissione del reato presupposto (Cass. pen., sez. VI, 22 maggio 2013, n. 24559), principio, questo, ribadito anche in altre pronunce secondo cui ai fini della configurabilità della responsabilità da reato dell'ente, l'interesse dell'autore del reato può anche solo coincidere con quello della persona giuridica, alla quale sarà imputabile l'illecito anche quando l'agente, perseguendo il proprio autonomo interesse, finisca per realizzare obiettivamente quello dell'ente (Cass. pen., sez. V, 28 novembre 2013, n. 10265). Ne consegue che, con riferimento al delitto di truffa ai danni dello stato, non è decisivo il rilievo dell'interesse realizzato anche dai soci della società quando si sia accertato che il finanziamento illecito sia stato comunque ricevuto dalla società ed utilizzato per la realizzazione delle proprie ulteriori strutture ed attività. Osservazioni
Nella decisione in commento, la Cassazione ha ribadito concetti più volte espressi, ma sul punto possono formularsi alcune considerazioni. Il presupposto delle conclusioni presenti nella pronuncia è la distinzione fra i due concetti, richiamati dal d.lgs. n. 231/2001, di interesse e vantaggio. Se l'interesse presenta, come detto, una connotazione di carattere soggettivo, il vantaggio invece è definito come la "potenziale o effettiva utilità, ancorché non necessariamente di carattere patrimoniale, derivante dalla commissione del reato presupposto", valutabile ex post, sulla base degli effetti concretamente derivati dalla realizzazione dell'illecito (Cass. pen., sez. II, 5 ottobre 2017, n. 295). Alla luce di quest'ultima definizione, parrebbe potersi sostenere che nella vicenda presa in esame, anziché doversi prendere in considerazione il profilo dell'interesse della società, si era in presenza di una ipotesi in cui era indiscusso il vantaggio della società coinvolta giacché il reato commesso dagli imputati, amministratori dell'impresa, era stato realizzato senz'altro a beneficio di quest'ultima, avendo la persona giuridica ottenuto ingenti ed indebiti finanziamenti agevolati, incrementando di conseguenza illecitamente le proprie disponibilità finanziarie (non a caso, in analoga vicenda, avente ad oggetto sempre il reato di truffa ai danni dello stato e di indebita percezione di contributi pubblici, la Suprema Corte ha concluso nel senso che il soggetto, ricoprente all'interno della società posizioni apicali, aveva commesso il reato presupposto a vantaggio dell'ente: Cass. pen., sez. II, 5 ottobre 2017, n. 295). Nella decisione, tuttavia, il profilo del vantaggio conseguito dall'ente collettivo – agevolmente riscontrabile, come si è detto - non viene affatto valorizzato per soffermarsi invece sull'interesse in ragione del quale le persone fisiche imputate avevano agito delittuosamente. Per comprendere la ragione di questo (senz'altro più complesso) iter motivazionale occorre considerare che diverse sono le conclusioni che, in punto di responsabilità dell'azienda, vanno tratte nel caso in cui il delitto sia stato commesso, sia pur in parte, nell'interesse di quest'ultima senza che la stessa ne abbia tratto un vantaggio dalla circostanza in cui invece l'ente sia estraneo alla condotta criminosa, assunta per finalità non connesse a sue utilità, avendone ottenuto solo un vantaggio: mentre quando l'ente ha ottenuto un vantaggio dal reato che però è stato commesso nell'interesse esclusivo di terzi, la società non può essere giudicata responsabile, potendosi al più, come prevede l'art. 6, comma 5, d.lgs. n. 231/2001, disporsi la confisca del profitto che l'ente ha tratto dal delitto, nel caso in cui il reato risulti commesso nel prevalente interesse di terzi e quindi solo parzialmente nell'interesse dell'ente, questo è comunque responsabile (pur essendo prevista la possibile applicazione di una sanzione meno severa come dispone l'art. 12, comma 1, lett. A) d.lgs. n. 231 del 2001). Questa disciplina normativa, dunque, induce la giurisprudenza ad andare comunque alla ricerca, anche nelle vicende in cui il vantaggio ottenuto dall'ente è indiscusso, di profili che dimostrino che il reato (non solo ha avvantaggiato, ma) è stato anche commesso nell'interesse dell'ente, valorizzando – come accade nella decisione in esame – la possibilità, pacificamente riconosciuta dal legislatore, di una concomitanza fra interesse dell'ente ed interesse di altri soggetti. Il problema di tale impostazione, tuttavia, è che rischia di avvalorare l'accoglimento di una concezione oggettiva non solo del vantaggio ma anche dell'interesse, come dimostrato dalla circostanza che già in altre pronunce si è affermato che "ai fini della configurabilità della responsabilità dell'ente, è sufficiente che venga provato che lo stesso abbia ricavato dal reato un vantaggio, anche quando non è stato possibile determinare l'effettivo interesse vantato ex ante alla consumazione dell'illecito e purché non sia, contestualmente, stato accertato che quest'ultimo sia stato commesso nell'esclusivo interesse del suo autore persona fisica o di terzi. Appare, dunque, corretto attribuire alla nozione di interesse accolta nel primo comma dell'art. 5 una dimensione non propriamente od esclusivamente soggettiva, che determinerebbe una deriva psicologica nell'accertamento della fattispecie, che invero non trova effettiva giustificazione nel dato normativo. È infatti evidente come la legge non richieda necessariamente che l'autore del reato abbia voluto perseguire l'interesse dell'ente perché sia configurabile la responsabilità di quest'ultimo, né è richiesto che lo stesso sia stato anche solo consapevole di realizzare tale interesse attraverso la propria condotta. Per converso, la stessa previsione contenuta nell'art. 8, lett. a), d.lgs. n. 231/20021 - per cui la responsabilità dell'ente sussiste anche quando l'autore del reato non è identificato o non è imputabile - e l'introduzione negli ultimi anni di ipotesi di responsabilità dell'ente per reati di natura colposa, sembrano negare una prospettiva di tal genere". In quest'ottica, secondo la Suprema Corte, "l'interesse dell'autore del reato può coincidere con quello dell'ente (rectius: la volontà dell'agente può essere quella di conseguire l'interesse dell'ente), ma la responsabilità dello stesso sussiste anche quando, perseguendo il proprio autonomo interesse, l'agente obiettivamente realizzi (rectius: la sua condotta illecita appaia ex ante in grado di realizzare, giacché rimane irrilevante che lo stesso effettivamente venga conseguito) anche quello dell'ente (POTETTI, Interesse e vantaggio nella responsabilità degli enti (art. 5 del D.Lgs. n. 231 del 2001), con particolare considerazione per l'infortunistica del lavoro, in Cass. Pen., 2013, 2032. Si vedano anche CIALDELLA, Il requisito dell'interesse alla commissione del reato presupposto ai fini della responsabilità dell'ente, in Cass. Pen., 2014, 1361; FUX, Ulteriori precisazioni sui confini della nozione di profitto: è necessaria l'"esternalità", in Cass. Pen., 2014, 3233). Così ragionando viene però riscritto il dato normativo o comunque viene abbandonata una consolidata interpretazione in ordine al significato da riconoscere alle due espressioni di “interesse” e “vantaggio”. Sembra, infatti, che secondo la Cassazione perché possa ascriversi all'ente la responsabilità per il reato sia sufficiente che la condotta dell'autore di quest'ultimo tenda oggettivamente e concretamente a realizzare, nella prospettiva del soggetto collettivo, anche l'interesse del medesimo (in questo senso, già Cass. pen., sez. V, 26 aprile 2012, n. 40380); questa impostazione, poi, consente di concludere nel senso che la nozione dell'interesse esclusivo dell'agente che ha commesso il reato presupposto vada individuata solo nei fatti illeciti posti in essere per un fine personalissimo ed escludente quello dell'azienda (si pensi ad un falso in bilancio finalizzato ad occultare il prelievo di somme dalle casse aziendali), mentre saranno sempre riconducibili ad un interesse dell'ente le condotte dell'agente che in qualche modo rientrano nella politica societaria ossia tutte quelle condotte che trovano una spiegazione ed una causa nella vita societaria. |