Responsabilità nel caso di eventi naturali dannosi o pericolosi e scudo penale per Covid-19

07 Luglio 2021

Tutti gli eventi naturali - compresi quelli apparentemente innocui (per esempio una pioggia di bassa intensità) - sono astrattamente idonei a provocare danni alle cose e alle persone. Non in tutti questi casi sorge una responsabilità in capo ad una o più persone fisiche o giuridiche o ad enti personificati per i danni derivati dall'evento naturale...
Premessa. Le varie forme di responsabilità e loro presupposti. Fattispecie di danno e di pericolo

Tutti gli eventi naturali – compresi quelli apparentemente innocui (per esempio una pioggia di bassa intensità) - sono astrattamente idonei a provocare danni alle cose e alle persone. Non in tutti questi casi sorge una responsabilità in capo ad una o più persone fisiche o giuridiche o ad enti personificati per i danni derivati dall'evento naturale.

Sia che si tratti di responsabilità penale che civile o amministrativa occorre infatti, come è ovvio, che si verifichino i presupposti previsti dalla legge perché si realizzi, quanto meno in astratto, la fattispecie di responsabilità che consente di ascrivere ad un soggetto – o ad un ente nei casi in cui ciò sia previsto dalla legge - la responsabilità per la fattispecie di danno in concreto verificatasi con le conseguenze che ne derivano. Con la precisazione che l'ipotesi risarcibile può riguardare non solo la fattispecie di danno ma anche quella che realizzi una mera situazione di pericolo nei soli casi, ovviamente, in cui il solo pericolo di un evento avverso sia produttivo di un danno. Il che è tutt'altro che infrequente: si pensi, nelle fattispecie assicurative, alla variazione delle tariffe che consegue alla variazione del rischio.

Naturalmente, qualora si ipotizzi un'ipotesi di responsabilità penale in un caso in cui sia presente il solo pericolo, la fattispecie, per essere punita, dovrà essere prevista anche come ipotesi di reato di pericolo.

Se poi il fatto dannoso o pericoloso all'origine delle fattispecie di danno – e, in linea di massima, le conseguenze immediate che ne derivano - non è addebitabile ad alcuno perché, in ipotesi, il suo verificarsi non era prevedibile con l'ordinaria diligenza (e, se prevedibile, non era evitabile) diversa soluzione dovrà invece essere adottata per l'addebito delle ulteriori conseguenze nel caso in cui queste conseguenze siano già conosciute per essersi già verificate in situazioni analoghe del passato ovvero nei casi in cui la ricerca scientifica consenta, come frequentemente avviene, di impadronirsi della completa conoscenza dei meccanismi di produzione delle conseguenze che derivano da fatti o eventi non conosciuti o che comunque mai si sono verificati con quelle modalità.

Non si tratta di ipotesi teoriche: un esempio recentissimo lo troviamo in quanto avvenuto nei primi tempi in cui si è manifestata la pandemia da Covid-19 che da oltre un anno affligge anche il nostro paese. Inizialmente vi è stata una totale mancanza di conoscenza non solo delle origini della malattia ma anche delle specifiche modalità di contrasto della medesima diverse da quelle genericamente adottabili in ogni caso di epidemia aventi caratteristiche di elevata contagiosità.

Regole di prevenzione: loro esistenza e conoscibilità

Va quindi anzitutto ribadito che alcune regole di prevenzione erano, e sono, di evidente necessità applicativa e sono da tutti conosciute o conoscibili perché comuni alle situazioni riguardanti tutte le malattie contagiose, anche le più banali quali il raffreddore (per es. adottare regole di distanziamento sociale; evitare il contatto fisico tra le persone).

Ciò nonostante è avvenuto che, nei primi tempi di diffusione della pandemia, le cronache abbiano riportato numerosi casi in cui erano state adottate modalità palesemente inidonee ad evitare il contagio. E ciò è frequentemente avvenuto proprio nelle unità di cura e soggiorno nelle quali erano maggiormente presenti pazienti appartenenti a fasce deboli e a rischio di contrarre la malattia in questione e all'interno delle quali erano dunque già esigibili condotte di rispetto di regole cautelari già conosciute o agevolmente conoscibili.

Insomma: la mancata conoscenza delle ipotesi di contagio e delle modalità di trasmissione della malattia può discriminare dalla responsabilità solo se si tratti di regole da osservare che non siano comuni a tutte le malattie contagiose già conosciute e studiate ma siano caratterizzate dalla specificità dei mezzi idonei a contrastarne la diffusione e, a tal fine, siano necessari ulteriori studi ed approfondimenti che riguardino specificamente quella malattia e le modalità di contrasto alla loro diffusione.

Per dirla in termini più semplici: l'operatore sanitario risponderà della diffusione del Covid-19 (anche nelle prime fasi di questa diffusione) se non avrà adottato le comuni regole cautelari già conosciute per il contrasto alla diffusione delle epidemie in generale. Non risponderà per non aver adottato le regole specifiche per operare questo contrasto non ancora conosciute o comunque in fase di elaborazione scientifica.

Si pensi in particolare, esemplificativamente, alla necessità di accertare l'esistenza, e le modalità di contrasto, della diffusione della malattie con mezzi diversi dal contatto tra le persone (per es. alla necessità di individuare regole – ove se ne renda necessaria l'adozione - da adottare nelle trasmissioni di merci da luoghi che apparivano già contaminati) o alla possibilità che emerga l'ipotesi di possibilità di contagio – che fino ad oggi non sembra essere stata confermata – per via del contatto con cose contaminate.

Ma si può pensare anche a ipotesi di più difficile realizzazione: si pensi al caso in cui indagini scientifiche maggiormente approfondite consentano di scoprire che una dieta particolare somministrata alle persone ricoverate sia idonea ad escludere o attenuare gli effetti del contagio; finché un'ipotesi di questo genere non venga convalidata dalla ricerca scientifica le conseguenze della sua inosservanza non possono certamente essere addebitate all'operatore.

Trattasi di regole ovvie che riguardano in generale l'osservanza del principio di colpevolezza con particolare riguardo al rispetto del principio di esigibilità della condotta.

La somministrazione dei vaccini: responsabilità che ne derivano

E' necessario ora accennare alle ipotesi di possibile responsabilità derivante dalla circostanza che le strategie vaccinali contro il Covid-19 sono state individuate, studiate e solo in parte sperimentate, in presenza di un'emergenza epidemica che ha reso più urgenti, e in qualche caso meno approfondite, le verifiche necessarie per accertare la loro efficacia e l'inesistenza di effetti secondari gravi (che fino ad oggi, per fortuna, non sembrano essersi verificati) della somministrazione dei vaccini (Andrea CIONI, La corsa al vaccino contro il Covid-19. Qualche considerazione fra requisiti per l'autorizzazione e regole di responsabilità, in Resp. civ. e previd., 2020, 2017).

La premessa da cui partire è che i vaccini sono da considerare farmaci sotto ogni profilo. Ma la novità della malattia pandemica e la limitata disponibilità dei vaccini – che, fino ad oggi, non è stato possibile somministrare a tutti coloro che ne hanno astrattamente bisogno – ha reso necessario operare scelte che potrebbero comportare effetti negativi (anche la morte) nei confronti delle persone che non rientrano nelle categorie “privilegiate”.

In questi casi non potrà essere addebitato ad alcuno l'evento dannoso ove i criteri di selezione utilizzati nella scelta di chi sottoporre al vaccino in via prioritaria siano stati adottati in base a criteri omogenei e ragionevoli e fondati, se possibile, su condivisi criteri scientifici.

Naturalmente - nel caso del verificarsi di effetti negativi conseguenti alla somministrazione di vaccini – varranno, a favore di coloro che questi effetti abbiano subito, le previsioni indennitarie e risarcitorie il cui esordio si ebbe con la sentenza della Corte costituzionale n. 307/1990 che dichiarò l'illegittimità costituzionale della l. n. 51/1966 nella parte non prevedeva l'obbligo dello Stato di indennizzare il danno derivante da una vaccinazione obbligatoria.

Questo obbligo è stato confermato successivamente dalla l. n. 210/1992 che, pur essendo stata approvata sotto l'urgenza di contrastare il contagio Hiv, non è a questa affezione limitata e, in conseguenza della genericità della previsione che ne disciplina la somministrazione, può essere ritenuta applicabile anche ai casi di contagio, o di pericolo di contagio, da Covid-19. La legge fa infatti riferimento alle “lesioni o infermità” riportate “a causa di vaccinazioni obbligatorie per legge o per ordinanza di una autorità sanitaria italiana”.

Deve quindi trattarsi di vaccinazioni alle quali una persona si sia volontariamente sottoposta ma alla quale la medesima persona sia in qualche modo tenuta a sottoporsi - anche se una previsione di legge ancor oggi non esiste per il contagio Covid-19 - sia anche soltanto in base ad un provvedimento amministrativo di una delle autorità sanitarie cui sia invece attribuita questa competenza (A. CIONI, La corsa al vaccino contro il Covid-19, cit.).

Prevedibilità ed evitabilità dell'evento nell'ipotesi di pandemia

La pandemia da Covid-19 ha costituito anche un imprevisto banco di prova per la verifica della correttezza delle elaborazioni teoriche svolte fino all'epoca odierna sui temi riguardanti la colpa, in particolare la prevedibilità e l'evitabilità dell'evento in merito ai quali, per il momento, non sembrano essere emersi aspetti particolari nell'applicazione dei principi ormai convalidati da vari decenni di ricerca (C. BRUSCO, La colpa penale e civile. La colpa medica dopo la l. 8 marzo 2017, n. 24 (legge Gelli-Bianco), Giuffrè, Milano, 2017, 247 ss.).

Va dunque ribadito che, anche nella materia che stiamo esaminando, Il fondamento della prevedibilità sotto il profilo soggettivo risiede nella necessità di evitare forme di responsabilità oggettiva. Se il risultato della condotta non poteva neppure essere immaginato dall'agente, pur con l'adozione della massima diligenza, sembra evidente che questo risultato non possa essergli addebitato sotto il profilo della colpevolezza. Se quella conseguenza dell'azione non è stata prevista perché non era prevedibile, non v'è responsabilità per colpa (non tenetur etiam pro casu). Per sintetizzare: il “senno di poi” non può avere ingresso nella responsabilità penale.

Naturalmente la legge, in particolare nella responsabilità civile, può in ogni caso prevedere regole che impongano obblighi cautelari maggiormente rigorosi con la richiesta di osservanza di regole più restrittive; con le ovvie conseguenze nell'accertamento dell'esistenza della colpa.

Anche in questi casi non bisogna però confondere il giudizio di prevedibilità con quello relativo alla scarsa probabilità che un evento si produca in conseguenza di un determinato fattore causale: anche eventi rarissimi riconducibili a determinate condotte sono generalmente conosciuti o comunque conoscibili – non solo nella cerchia degli esperti - e quindi prevedibili. Si pensi al contagio Hiv che si verifica in una percentuale minima di rapporti sessuali, ma è ormai di comune conoscibilità, o alle reazioni allergiche alle sostanze utilizzate per l'anestesia: in entrambi i casi non può certo affermarsi l'imprevedibilità dell'evento, malgrado le percentuali di probabilità del suo verificarsi siano assai esigue.

È noto, trattando della formazione delle regole cautelari, che la prevedibilità delle conseguenze dannose di una condotta, o di un evento naturale, costituisce il presupposto per la formazione della regola cautelare (se non è prevedibile un evento dannoso derivante da un'attività perché mai dovrebbero essere create regole cautelari per evitarne il verificarsi?) ma che il suo contenuto è dettato in particolare dall'evitabilità del medesimo evento.

È inutile dettare regole cautelari se queste regole non sono idonee ad evitare gli effetti dannosi dell'attività svolta o di un evento naturale: a nessuno verrebbe in mente di dettare regole cautelari per evitare i danni derivanti dalla caduta degli asteroidi posto che nessuno è in grado di prevedere se, dove e quando un tale evento si verificherà. Al più potranno (e dovranno) essere create regole che disciplinano gli interventi successivi al verificarsi dell'evento imprevedibile.

Se dunque lo svolgimento di un'attività, anche se fonte di pericolo, non è vietato perché utile alla collettività la formazione delle regole cautelari che la disciplinano deve sempre avere di mira la necessità che le regole siano idonee ad evitare il verificarsi dell'evento dannoso quanto meno sotto il profilo dell'attenuazione del rischio che il medesimo si verifichi. Dunque, la prevedibilità dell'evento dannoso – è utile ribadirlo - rende necessaria la formazione della regola cautelare, il cui contenuto è però dettato dalla sua idoneità a prevenirne il verificarsi o ad attenuarne le conseguenze.

È poi evidente che, quando si parla di evento inevitabile, ci si riferisce in particolare alle regole cautelari “improprie”, quelle cioè che mirano a ridurre il rischio del verificarsi di eventi dannosi (che peraltro non sono in grado di eliminare completamente) e dunque ai casi di “fallimento” della regola cautelare. Nel caso di regole cautelari “proprie” – quelle idonee ad eliminare completamente il rischio - questa eventualità non può verificarsi (se si verifica vuol dire che la regola cautelare non era propria bensì impropria).

Queste problematiche vanno ovviamente declinate in modo completamente diverso quando ci si riferisca al diritto civile nel quale è parimenti richiesta, e non da oggi, l'evitabilità dell'evento che, se assente, importa la non risarcibilità del danno (per es. il custode non è responsabile della perdita della cosa verificatasi a seguito di un distruttivo evento naturale: questi concetti erano stati affermati, già alla fine del diciannovesimo secolo, da G.P. CHIRONI, La colpa nel diritto civile odierno. Colpa contrattuale, fratelli Bocca editori, Torino, 1897, p. 692 ss.).

In particolare, si è affermato, in sede di applicazione dell'art. 2051 c.c. (responsabilità per danno cagionato da cose in custodia) che l'inevitabilità dell'evento dannoso (per esempio, verificatosi per caso fortuito) esclude la responsabilità del custode; l'evitabilità del danno non è invece sufficiente ad escludere il risarcimento a meno che il danno possa essere evitato solo con l'impiego di mezzi straordinari (si veda in questo senso Cass. civ., sez. III, 20 febbraio 2006, n. 3651, in Nuova giur.civ.comment., 2006, I, 1295, con nota di F. COLLALTI, Responsabilità della pubblica amministrazione ex art. 2051 c.c. per sinistro su strada statale).

A parte le ipotesi di responsabilità oggettiva e quelle di inversione dell'onere della prova va osservato che il fallimento della prova dell'efficacia impeditiva del comportamento alternativo lecito non comporta di per sé, nel diritto civile, il venir meno del diritto al risarcimento che, quanto meno nella responsabilità extracontrattuale, permane anche se si accerta la mera riduzione delle chances di salvaguardia del bene protetto. Se dunque, per esempio, la somministrazione, omessa, del farmaco avrebbe aumentato le possibilità di guarigione – pur modeste – del paziente il danno è comunque risarcibile.

L'esigibilità della condotta osservante

Un numero maggiore di problemi teorici ha creato il principio di esigibilità della condotta osservante da parte dell'agente che ha trovato in tempi recenti un maggior spazio di ricerca e di (possibile) applicazione. Com'è noto questo principio riguarda il tema della misura soggettiva della colpa (ma anche alcuni aspetti della misura oggettiva della colpa: si pensi ai problemi riguardanti la colpa per assunzione e il conflitto di doveri). Il tema dell'esigibilità della condotta (o, definito in negativo, della inesigibilità) continua, dopo decenni, ad essere oggetto di opinioni discordanti sia per quanto riguarda la sua astratta ipotizzabilità sia in merito al suo inquadramento teorico.

Forse per questa ragione gli studi che hanno affrontato il tema in modo esaustivo sono del tutto isolati e le conclusioni frequentemente divergenti (L. SCARANO, La non esigibilità nel diritto penale, ed. Humus, Napoli, 1948, e G. FORNASARI, Il principio di inesigibilità nel diritto penale, Cedam, Padova, 1990).

Ma è stato posto in luce come questo tema abbia costituito anche il terreno di dispute che trovavano il loro fondamento in ragioni politico ideologiche perché, nel pensiero giuridico tedesco, il principio di non esigibilità fu aspramente contrastato – per ovvie ragioni riconducibili alla riaffermazione dei principi che connotavano lo stato totalitario - dai giuristi più vicini all'ideologia nazionalsocialista (G. FORNASARI, Il principio di inesigibilità nel diritto penale, cit., 3 ss).

Oggi queste dispute non hanno più ragione di esistere anche se alcune riaffermazioni del principio in esame sono spesso riferibili – più che ad una inesistente disciplina normativa che sarebbe applicabile a ipotesi inquadrabili in una serie indefinita di istituti - al secolare contrasto (alla cui soluzione non intendo portare l'ennesimo ed inutile contributo) tra positivismo giuridico e concezioni che si ispirano al diritto naturale.

Ma va anche ricordato che il principio di non esigibilità è stato ricollegato, dal punto di vista dogmatico, alla concezione normativa della colpevolezza che, corrispondendo ad un “giudizio di disapprovazione per essersi l'agente comportato in un certo modo mentre doveva comportarsi diversamente, è logico che di colpevolezza non è a parlarsi allorché l'agente era in condizioni tali da non potere agire diversamente da come ha agito, in una situazione per cui nonera da lui umanamente esigibileil comportamento conforme al precetto penale” (così B. PETROCELLI, La colpevolezza, cit., 141).

Anzitutto è necessaria una precisazione di natura lessicale: che cosa significa inesigibile? La parola ha vari significati ma mi sembra che quello che interessa il nostro tema sia che la parola inesigibile significa che quella data condotta non si può pretendere da un determinato soggetto in quella situazione contingente. E ciò non perché il soggetto non sia in grado di porla in essere (quindi non vi è alcuna impossibilità oggettiva) ma perché, per ragioni varie riferibili al soggetto agente o alla situazione di fatto creatasi, questi trova gravi ostacoli ad operare secondo le regole cautelari che sarebbe tenuto ad osservare.

L'inesigibilità riguarda dunque la misura soggettiva della colpa perché tende ad individuare i limiti entro i quali la responsabilità del singolo soggetto, del soggetto agente, dell'agente concreto – e non dell'agente modello – può essere esclusa.

Già da tempo la dottrina italiana ha affermato che “per poter formulare un giudizio di rimprovero a titolo di colpa non basta che la condotta tenuta da un soggetto sia contraria ad un dovere obiettivo di diligenza, ma è necessario che essa contrasti col suo dovere subiettivo di diligenza; e cioè con quella regola di diligenza che risulta dall'adeguamento del dovere obiettivo alle condizioni personali (capacità, attitudini, stati particolari, condizioni nelle quali ha agito etc.) dell'autore della condotta.

Per concludere sotto questo profilo: non è sufficiente che l'agente abbia tenuto un atteggiamento psichico contrario a quello che avrebbe dovutotenere; bisogna, di più, che il suo atteggiamento psichico sia anche difforme da quello che egli avrebbe potuto tenere” (di T. PADOVANI, Il grado della colpa, in Riv.it.dir.proc.pen., 1969, 819).

La causa di non punibilità prevista nel caso di uso del vaccino anti Covid-19 conforme all'autorizzazione (art. 3 decreto legge n. 44/2021)

Come si collocano, le coordinate di carattere generale che abbiamo descritto, con i temi specifici riguardanti la pandemia da Covid-19 ed in particolare con la disciplina speciale introdotta dal legislatore con particolare riferimento all'introduzione di nuove cause di non punibilità che siano in qualche modo riconducibili alla somministrazione del vaccino contro la malattia in questione?

In particolare, va considerato che l'art. 3 dl. n. 44/2021, conv. in l. n. 76/2021, ha previsto che, per i reati di cui agli artt. 589 e 590 c.p. (omicidio e lesioni colpose) - verificatisi a causa della somministrazione di un vaccino per la prevenzione delle infezioni da SARS-CoV-2 effettuata nel corso della campagna vaccinale - la punibilità è esclusa quando l'uso del vaccino sia stato conforme alle indicazioni contenute nel provvedimento di autorizzazione all'immissione in commercio e alle circolari del Ministero della salute in materia.

Il testo dell'art. 3, nel testo normativo originario (che non verrà mutato, in questa parte, dalla legge di conversione) fa dunque esplicito richiamo ad una causa di non punibilità e non ad altre forme di esclusione o di attenuazione della responsabilità penale.

La costruzione giuridica contenuta nel decreto legge appare corretta perché la normativa in esso riportata non sembra richiamare il riferimento all'esistenza di uno “scudo penale” o ad altri istituti diretti all'attenuazione o all'esclusione della penale responsabilità (M. CAPUTO, Logiche e modi dell'esenzione da responsabilità penale per chi decide e opera in contesti di emergenza sanitaria, ne La legislazione penale del 22 giugno 2020; R. BARTOLI, La responsabilità colposa medica e organizzativa al tempo del corona virus, in Sistema Penale del 10 luglio 2020 e Il diritto penale dell'emergenza “a contrasto del coronavirus”: problematiche e prospettive, in id. del 24 aprile 2020; A. DI MAIO, Responsabilità medica e colpa penale ai tempi dell'epidemia da Covid-19, in Rivista penale, 2021, 7).

Si tratta invece di una causa di non punibilità il cui presupposto applicativo è costituito dal verificarsi di un fatto dannoso causalmente riconducibile alla somministrazione del vaccino in questione. Mail vaccino deve essere stato somministrato correttamente sia nel senso che esistevano i presupposti per inocularlo sia nel senso che siano state seguite le regole previste per la sua somministrazione.

Le critiche rivolte alle previsioni contenute nell'art. 3 del decreto legge n. 44/2021

Questa norma è stata sottoposta a critiche, anche vivaci. In particolare, si è detto che si tratta di uno strumento inutileperché, se non ci fosse, la non punibilità deriverebbe dall'applicazione dell'art. 43, alinea III, c.p., trattandosi di condotta osservante le regole cautelari contenute nell'autorizzazione d'immissione in commercio e nelle circolari ministeriali sulla vaccinazione anti Covid-19” (P. PIRAS, Lo scudo penale Covid-19: prevista la punibilità solo per colpa grave per i fatti commessi dal professionisti sanitari durante l'emergenza epidemica, in Sistema Penale, 1° giugno 2021).Ma il giudizio riportato presenta aspetti ancor più negativi: secondo il medesimo Autore lo strumento non sarebbe soltanto inutile ma sarebbe anche dannosoperché impone al giudice di prosciogliere perché trattasi di persona non punibile, anziché di prosciogliere sul fatto. Indebolirebbe quindi le barriere difensive, anziché fortificarle”.

Al di là della condivisione di quest'ultimo giudizio è difficile dissentire dalla valutazione di “inutilità” della norma. Stiamo infatti parlando della somministrazione di un medicinale (i vaccini hanno questa natura) in casi che risultano ricompresi in quelli previsti dal provvedimento di autorizzazione alla commercializzazione e i cui effetti positivi risultano confermati sia dalla sperimentazione svolta (le cui eventuali carenze, per la ristrettezza dei tempi, non possono certo essere addebitate all'operatore concreto) sia dai provvedimenti amministrativi emessi a seguito delle procedure previste.

In caso di un evento avverso che consegua alla somministrazione – posto che, nei grandi numeri, eventi negativi possono verificarsi sia pure in casi rarissimi - quale condotta di chi abbia prescritto o somministrato il vaccino, nelle ipotesi previste e con le modalità prescritte, potrebbe essere ritenuta colposa nei casi in cui alcuna regola cautelare risulti essere stata violata dall'agente concreto?

Possiamo quindi escludere che, restando al testo del decreto legge, ci si trovi in presenza di uno “scudo penale”, o di un istituto di analoga o simile natura, in quanto la norma ribadisce previsioni di carattere generale già contenute nel sistema normativo generale su cui si fonda la disciplina in tema di colpa; questa disciplina non consentirebbe, in alcun caso di corretta prescrizione e somministrazione del vaccino, di ipotizzare una condotta colposa dell'agente nel caso in cui dalla somministrazione derivi un danno alla persona o comunque un evento dannoso.

Non vi è dunque, nelle norme che disciplinano la somministrazione dei vaccini, alcuna reale ed effettiva esclusione della responsabilità neppure in relazione al grado della colpa (il presupposto essendo costituito dalla mancanza di colpa). Si tratta quindi di una (inutile) ipotesi in cui la previsione normativa presuppone l'assenza di colpa.

La previsione contenuta nell'art. 3 dl. n. 44/2021 costituisce quindi un'ipotesi completamente diversa da quelle prese in considerazione dall'approvazione di due recenti leggi che avevano modificato i presupposti per l'affermazione della penale responsabilità del medico: si tratta della l. n. 189/2012, di conversione (con ampie modifiche) del d.l. n. 158/2012 (c.d. “legge Balduzzi”) che escludeva la responsabilità penale per colpa lieve del medico che si fosse attenuto a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica; e della l. n. 24/2017 (c.d. “legge Gelli-Bianco) che ha invece modificato i presupposti per l'affermazione della responsabilità del medico incidendo sul sistema di validazione, conoscenza e classificazione delle linee guida – aspetti ignorati dalla precedente disciplina – incidendo quindi sui criteri di attribuzione della penale responsabilità (C. BRUSCO, La responsabilità sanitaria civile e penale. Orientamenti giurisprudenziali e dottrinali dopo la legge Gelli-Bianco, Torino, Giappichelli, 2018).

Si trattava quindi di due leggi che, a differenza di quella che stiamo esaminando, incidevano sui presupposti per l'attribuzione della penale responsabilità. Ciò che non avviene nel caso della più recente normativa in precedenza esaminata limitatamente al testo del decreto legge.

L'art. 3-bis introdotto dalla legge di conversione n. 76/2021

L'assetto normativo in precedenza riassunto è completamente mutato con l'entrata in vigore della l.n. 76/2021, di conversione del dl.n. 44/2021.

La legge di conversione ha infatti integralmente confermato il contenuto dell'art. 3 del decreto legge e ha introdotto, nel preesistente testo normativo, l'art. 3-bis il cui primo comma ha previsto che, durante lo stato di emergenza epidemiologica da Covid-19, i reati previsti dagli artt. 589 e 590 c.p. (omicidio e lesioni colposi) “commessi nell'esercizio di una professione sanitaria e che trovano causa nella situazione di emergenza, sono punibili solo nei casi di colpa grave”.

Dunque, oggi esiste una norma che prevede un'attenuazione effettiva delle ipotesi di responsabilità penale per i reati indicati che deve essere esclusa nei casi in cui la colpa non possa essere consideratagrave”. È inutile la soluzione del problema terminologico costituito dalla risposta al quesito se si tratti di uno “scudo penale” perché l'ipotesi di reato, pur attenuata, rimane.

V'è da chiedersi, invece, se gli artt. 3 e 3-bis disciplinino la stessa materia. L'art. 3 prende in considerazione gli eventi colposi causalmente ricollegabili alla somministrazione di un vaccino e ne esclude la punibilità se l'uso del vaccino è conforme al provvedimento di autorizzazione all'immissione in commercio del medesimo prodotto; l'art. 3-bis riguarda i medesimi eventi quando siano commessi nell'esercizio di una professione sanitaria e ne afferma la punibilità solo nei casi di colpa grave.

Alla domanda se esista una parziale sovrapposizione tra i fatti tipici descritti nelle due norme la risposta è da ritenere positiva quanto meno nei casi in cui la somministrazione del vaccino sia stata disposta da un operatore sanitario; e deve ritenersi che, in queste ipotesi, sia naturalmente applicabile la norma più favorevole che certamente, per la necessità che venga ravvisata la colpa grave, è quella prevista dall'art. 3-bis.

Va rilevato che, nella redazione dell'art. 3-bis,il legislatore non ha resistito alla tentazione di spiegare al cittadino (e ai giudici che dovranno applicare la norma) quali siano i fattori che possono escludere la gravità della colpa indicandone, esemplificativamente, alcuni in modo del tutto ovvio o casuale (limitatezza delle conoscenze scientifiche, scarsità di risorse umane e materiali disponibili, minor grado di esperienza e conoscenze tecniche da parte del personale impiegato).

Pur trattandosi di un'elencazione dichiaratamente priva di alcun carattere di esaustività si tratta comunque di una previsione idonea ad introdurre elementi di incertezza applicativa soprattutto nei casi analoghi a quelli indicati nella norma.

L'infezione da Coronavirus avvenuta in occasione di lavoro

Più complessa è la soluzione del tema riguardante la possibile attribuzione di responsabilità per il contagio da Coronavirus avvenuto in ambiente di lavoro.

La disciplina di questo tema è contenuta nell'art. 29-bis della l n. 40/2020 (che ha convertito il dl. n. 23/2020). Questa norma individua i criteri ai quali i datori di lavoro pubblici e privati devono attenersi per ritenere adempiuto l'obbligo, previsto dall'art. 2087 c.c., di tutela delle condizioni di lavoro al fine di garantire l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro (S. PUTINATI e A. KELLER, Covid-19: scudo per i datori, ma residua un rischio di responsabilità penale per colpa generica, in Guida al Lavoro, 2020, 29).

In buona sostanza la norma individua questi criteri con un richiamo alle prescrizioni contenute nel “protocollo condiviso delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del Covid-19 negli ambienti di lavoro, sottoscritto il 24 aprile 2020 tra il Governo e le parti sociali, e successive modificazioni e integrazioni, e negli altri protocolli e linee guida di cui all'articolo 1, comma 14, dl. n. 33/2020, nonché mediante l'adozione e il mantenimento delle misure ivi previste.”

La medesima norma prevede che ove “non trovino applicazione le predette prescrizioni” vengano applicate (“rilevano” dice la norma) “le misure contenute nei protocolli o accordi di settore stipulati dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale”.

L'esame di questa disciplina richiederebbe un approfondimento ben maggiore ma sia consentita una valutazione di merito sul criterio di formazione della legge che utilizza il richiamo a protocolli condivisi dal Governo e dalle parti sociali.

È ovvio che il legislatore può liberamente decidere che una determinata materia sia regolamentata dalle parti sociali con atti da loro stipulati aventi natura contrattuale. Diversa è invece l'ipotesi in cui questi atti vengano – come è avvenuto nel nostro caso – specificamente indicati. Ciò è da ritenere consentito al legislatore ma vari problemi possono sorgere in merito all'adozione di questo criterio in particolare per la circostanza che il richiamo, da parte del legislatore, a questi atti attribuisce loro forza di legge.

Questo criterio è idoneo a creare problemi interpretativi soprattutto nei casi, che non possiamo escludere, di numerosi interventi che possono via via essere adottati modificando i presupposti per l'applicazione della disciplina in mancanza di un assetto stabile della medesima come avviene nella ordinaria successione di leggi.

Ciò, in particolare, per quanto riguarda l'ipotesi subordinata, prevista dal ricordato art. 29-bis, che richiama, quando non esistano gli accordi indicati in via preferenziale, le misure contenute nei protocolli o accordi di settore stipulati dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale.

In questi casi l'indeterminatezza dei soggetti abilitati a stipulare i protocolli o accordi di settore potrebbe incidere sulla determinatezza delle norme in esame.

Le considerazioni che seguono sono ovviamente ispirate da quanto avvenuto a seguito della pandemia da Covid-19. Su questo argomento la produzione di commenti giuridici è elevatissima e ciò consente di tener conto solo di una minima parte dei contributi apparsi su questo tema con il rischio di ignorarne alcuni tra i più significativi: si pensi che, alla data del 2 luglio 2021, il sito Italgiure indica l'esistenza di 579 contributi dottrinali pubblicati fino a quel momento su questo tema! Questo contributo costituisce un'ulteriore rielaborazione di alcune considerazioni contenute nello scritto C. BRUSCO, La responsabilità penale per morte o lesioni da Covid 19, in Giudicedonna, n. 1/2021, 1 ss.

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