La conciliazione conclusa in sede protetta

13 Settembre 2021

In assenza di prova della sussistenza di un vizio della volontà espressa dal lavoratore, la conciliazione intervenuta presso la sede “protetta”, conferisce all'atto di rinuncia/transazione sottostante, ai sensi dell'art. 2113, quarto comma c.c., un imprimatur di sostanziale definitività, rientrando, appunto, fra tali sedi protette, anche quella delle Commissioni di certificazione.
Massima

In assenza di prova della sussistenza di un vizio della volontà espressa dal lavoratore, la conciliazione intervenuta presso la sede “protetta”, conferisce all'atto di rinuncia/transazione sottostante, ai sensi dell'art. 2113, quarto comma c.c., un imprimatur di sostanziale definitività, rientrando, appunto, fra tali sedi protette, anche quella delle Commissioni di certificazione.

Il caso

Il ricorrente aveva lavorato ininterrottamente alle dipendenze di una società e, successivamente, a seguito di cessione d'azienda, alle dipendenze di un'altra società, inquadrato come operaio di livello VI del CCNL Turismo-Pubblici Esercizi.

Il rapporto era poi cessato per dimissioni e successivamente le parti avevano sottoscritto un verbale di conciliazione in sede di Commissione costituita ai sensi dell'art. 76, d.lgs. n. 276/2003.

Il lavoratore conveniva in giudizio le società datrici di lavoro, per sentire affermare, previa declaratoria di inefficacia del verbale di conciliazione, - accertato il rapporto di lavoro subordinato, la responsabilità solidale delle convenute ex art. 2112 c.c., il diritto al superiore inquadramento -, e, per l'effetto, condannare in solido i datori di lavoro al pagamento di ulteriori somme.

In particolare, il lavoratore rappresentava che la conciliazione doveva ritenersi viziata da nullità e comunque annullata, sostenendo inoltre che l'oggetto della conciliazione era indeterminato o indeterminabile poiché mancava la quantificazione dei crediti cui rinunciava a fronte della percezione delle somme indicate, dovendosi quindi escludere un'effettiva volontà e consapevolezza, da parte del lavoratore, di privarsi di propri diritti, entrambe richieste ai fini della validità dell'atto di disposizione; e che la somma corrisposta con la conciliazione era palesemente insufficiente rispetto al periodo di attività lavorativa prestata.

Aggiungeva il lavoratore che, al momento della sottoscrizione del verbale di conciliazione, non sussisteva una reale lite da transigere e quindi una pretesa contrastata dal datore di lavoro, requisito essenziale di validità della transazione e che il suo consenso era viziato da errore - essenziale e riconoscibile dall'altro contraente – non avendo egli compreso pienamente il contenuto dell'accordo sottoscritto, in quanto convinto che oggetto della conciliazione fosse esclusivamente la cessione del rapporto di lavoro ad altra società a seguito di cessione di ramo di azienda e non anche la rinuncia alle differenze retributive maturate.

Entrambe le società convenute si sono costituite eccependo l'inammissibilità e comunque l'infondatezza delle avverse pretese in ragione della conciliazione intervenuta, non potendosi avallare il tentativo di aggirare l'ostacolo normativo previsto dagli artt. 185, 410, 411, 412ter e 412quater c.p.c. non applicandosi il disposto di cui ai primi tre commi dell'art. 2113 c.c. Inoltre, hanno dedotto la correttezza dell'inquadramento e l'inapplicabilità dell'art. 2112 c.c.

La questione

Il caso in esame consente di riflettere sulla questione della impugnabilità della conciliazione conclusa in sede protetta.

Preliminarmente mette conto precisare che, alla stregua dei consolidati arresti giurisprudenziali di legittimità (Cass. n. 4564/2014), il verbale di conciliazione è, ad ogni effetto, un atto negoziale, la cui interpretazione si risolve in un accertamento di fatto di esclusiva spettanza del giudice di merito. Tale interpretazione va operata ai sensi dell'art. 1362 e ss. c.c.. Pertanto, il sindacato di legittimità può avere ad oggetto non già la ricostruzione della volontà delle parti, ma solo la verifica dell'esatta applicazione, da parte del giudice di merito, dei criteri ermeneutici previsti dalle norme suddette nell'interpretazione del verbale al fine di valutare se sia incorso in vizi del ragionamento o in errore di diritto (Cass. nn. 23395/2019, 2962/2013, 2109/2012 e 7557/2011).

Sembra opportuno osservare che in materia di criteri interpretativi dell'atto di conciliazione, di indubbia natura negoziale, la Cassazione ha costantemente ritenuto, che a norma dell'art. 1362 c.c. e ss., tale interpretazione si debba fondare principalmente sul significato desumibile dal tenore letterale del negozio, letto in connessione tra le varie parti dello stesso, mentre gli ulteriori canoni legali sull'interpretazione dei contratti e quelli di ermeneutica intervengono ove dall'applicazione di quello principale residui un dubbio (Cass. nn. 2229/2019 e 11751/2015).

In proposito mette conto evidenziare che nell'ottica dell'art. 1362 c.c., la comune intenzione delle parti, desunta dal comportamento anche successivo al contratto, è un criterio integrativo rispetto a quello letterale (nel senso che serve a chiarirlo), non già alternativo o, peggio, sussidiario (Cass. nn. 21317/2020, 24560/2016 e 261/2006).

Ciò posto, in presenza di un atto sottoscritto dal lavoratore, che il datore di lavoro assuma espressivo di una volontà abdicativa o transattiva dello stesso dipendente, primo compito del giudice è determinare il reale contenuto dell'atto, secondo le norme legali di ermeneutica contrattuale, in quanto applicabili ai negozi unilaterali, avendo presente, in particolare, che la generica dichiarazione di stile del lavoratore, di non aver altro a pretendere, è di per sé solo irrilevante, ove non accompagnata dall'indicazione dell'oggetto - che a pena di nullità deve essere determinato o determinabile - della rinuncia. Solo dopo che risulti l'intenzione abdicativa, in esito a tale indagine, effettivamente manifestata, si pone l'ulteriore problema circa l'esistenza e la ritualità della sua impugnativa, agli effetti dell'art. 2113 c.c. (Cass. Lav., nn. 7244/2014 e 6615/1987).

Invero, alla dichiarazione con la quale il lavoratore rinuncia a qualsiasi ulteriore pretesa derivante dal pregresso rapporto di lavoro può essere riconosciuto valore di transazione solo ove l'accordo tra lavoratore e datore contenga lo scambio di reciproche concessioni, essenziale ad integrare il relativo schema negoziale (Cass. Lav., nn. 22213/2020 e 28448/2018).

Le soluzioni giuridiche

Nel caso di specie il giudice ha osservato che dal tenore letterale della conciliazione si evinceva che il lavoratore era stato più volte edotto degli effetti della conciliazione, quindi posto in condizione di sapere a quale diritto si riferisse la rinuncia ed in quale misura, risultando, in ogni caso, la sua posizione adeguatamente protetta nei confronti del datore di lavoro per effetto dell'intervento in funzione garantista del terzo (nella fattispecie la Commissione costituita ai sensi dell'art. 76, d.lgs. n. 276/2003), intervento diretto al superamento della presunzione di condizionamento della libertà d'espressione del consenso da parte del lavoratore.

Dunque, il tenore dell'atto di conciliazione, anche complessivamente considerato, non poteva far ritenere che il lavoratore avesse genericamente dichiarato di non aver null'altro a pretendere, atteso il riferimento a quanto rivendicato ed oggetto di disputa inter partes e l'ammissione da parte del cessionario di non aver ancora completamente provveduto ad erogare quanto ancora dovuto a titolo di spettanze di fine rapporto.

Sul punto il giudice ha avuto modo di precisare che alla stregua dei criteri ermeneutici di cui agli artt. 1362 e ss. c.c., l'interpretazione deve fondarsi principalmente sul significato desumibile dal tenore letterale del negozio, letto in connessione tra le sue varie parti, qualora all'esito della stessa non residuino dubbi interpretativi (Cass. n. 2229/2019) non potendo sostenersi, attese, le richiamate specificazioni, che il lavoratore non fosse stato in grado di comprendere l'oggetto e l'ampiezza della propria rinuncia.

Pertanto, il giudice, rigettando il ricorso, ha affermato che non essendo stato dimostrato il vizio della volontà espressa dal lavoratore, ex art. 2113, comma quarto, c.c., la conciliazione intervenuta presso la sede “protetta”, conferisce all'atto di rinuncia/transazione sottostante un imprimatur di sostanziale definitività, rientrando, appunto, fra tali sedi protette, anche quella delle Commissioni di certificazione.

Commissioni di certificazione che, ai sensi dell'art. 82, d.lgs n. 276/2003, “sono competenti altresì a certificare le rinunzie e transazioni di cui all'articolo 2113 del cod. civ. a conferma della volontà abdicativa o transattiva delle parti stesse”, e si aggiungono alle sedi nelle quali l'atto di rinuncia/transazione non risulta soggetto alla “condizione” (rectius: impugnativa nei 6 mesi) prevista dalla norma civilistica.

Conclusioni

In conclusione sembra opportuno soffermarsi sulla inoppugnabilità prevista dall'ultimo comma dell'art. 2113 c.c.

Sul punto la Suprema Corte (Cass., nn. 440/2021 e 25020/2017) ha affermato che essa “non si riferisce alle azioni generali di nullità e di annullabilità dell'atto, perché [...] l'intervento dell'ufficio provinciale del lavoro è finalizzato a sottrarre il lavoratore alla condizione di soggezione rispetto al datore di lavoro, che potrebbe indurre a sottoscrivere transazioni e rinunce frutto della prevaricazione esercitata dal datore. Rimangono, invece, esperibili i mezzi ordinari di impugnazione concessi ai contraenti per far valere i vizi che possono inficiare il regolamento contrattuale, ossia le cause di nullità o di annullabilità, poiché rispetto a tali azioni l'intervento dell'ufficio provinciale del lavoro non può esplicare alcuna efficacia sanante o impeditiva”.

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