Riforma Cartabia: sull’appello più ombre che luci

23 Settembre 2021

Lo scritto offre una riflessione critica sulle modifiche apportate al giudizio di appello dalla c.d. riforma Cartabia, giunta ormai al termine di un travagliato iter parlamentare. L'Autore, ripercorsa la convulsa evoluzione del progetto normativo, ne evidenzia aspetti condivisibili e criticità applicative, ponendo l'accento sull'estromissione dal testo definitivo dei suoi profili innovativi di maggior interesse, dovuta ai fragili equilibri politici su cui poggia, in tema di giustizia, il governo Draghi.
Il tormentato iter della riforma

La riforma del processo penale ha affrontato l'ultimo tornante del tormentato iter legislativo, cioè la definitiva approvazione al Senato, senza che, a ben vedere, le si possa riconoscere una paternità certa. Nata per iniziativa del precedente governo ed intestata al ministro Bonafede, essa è stata ereditata dall'attuale più per le necessità derivanti dagli impegni economici assunti in sede europea che non in base ad una visione omogenea delle questioni di Giustizia da parte delle forze politiche che lo compongono. Dopo aver affidato alla commissione presieduta dal Presidente emerito della Corte Costituzionale, Giorgio Lattanzi, il compito di scriverla da cima a fondo mutuando ben poco dalle proposte di Buonafede – in particolare l'ispirazione centrale, animata dalla volontà di ridurre i tempi del processo ad ogni costo ed a spese della coerenza sistematica e costituzionale delle norme – il governo non è riuscito a trovare, sul terreno della giustizia, l'unità di intenti e la determinazione mostrate in altri campi. Le proposte formulate dalla Commissione Lattanzi, infatti, sono state a loro volta modificate all'esito del confronto tra le forze politiche di maggioranza, che ha portato alla formulazione di un testo dal quale sono scomparse, o sono state radicalmente riviste, gran parte delle novità – in molti casi le più qualificanti – che il lavoro degli esperti aveva prodotto. Il risultato finale è la riforma che viene intestata alla Ministra Cartabia più per il merito politico di averla condotta in porto, che non per coerenza di ispirazione. Prova ne sia la più che emblematica vicenda della prescrizione, la cui soluzione finale ha sollevato radicali perplessità da parte di numerosi studiosi; non a caso esplicitamente accantonata, a suo tempo, dalla commissione Lattanzi. Tutto ciò spiega i motivi per cui, nei diversi segmenti che la compongono, in fin dei conti, più che di riforma “epocale”, o di intervento “strutturale”, si debba annoverare anche questa vicenda tra le molte occasioni perse con cui si è tentato un restyling del codice del 1989. Ciò vale anche, e forse in particolare, per quel che riguarda l'appello.

Dalla mancata riforma del 1989 alla trasformazione genetica del rito: la lenta erosione dell'appello

È opinione di molti studiosi del processo penale che il sistema delle impugnazioni, ed in particolare l'appello, sia “sopravvissuto” alla riforma del 1989 mantenendo sostanzialmente inalterate le sue caratteristiche rispetto al codice Rocco, finendo così per costituire una sorta di enclave all'interno del codice del tutto estranea alle caratteristiche proprie del modello accusatorio. Questa considerazione da alcuni viene poi sommata, da un lato, al rilievo della insussistenza di una copertura costituzionale del doppio grado di giudizio di merito; dall'altro, all'addebito – in gran parte infondato – di rappresentare il vero e proprio buco nero del processo all'interno del quale maturano un gran numero di prescrizioni. Per ciò che concerne specificamente l'appello dell'imputato, esso è stato visto, oltre che come un'incoerente eredità dell'inquisitorio, anche come concausa dell'irragionevole durata del processo a cagione del suo utilizzo strumentale per allontanare la prospettiva della esecuzione della pena. Ciò ha portato l'appello sul banco degli imputati come una tra le maggiori cause dell'inefficienza del sistema penale. Inutilmente l'accusato ed i suoi difensori hanno protestato la sua innocenza, da un lato richiamando, quanto alla supposta mancata copertura costituzionale, l'art. 14 del Patto Internazionale sui diritti civili e politici, che garantisce al condannato (e significativamente non al PM) il diritto «a che l'accertamento della sua colpevolezza siano riesaminati da un tribunale di seconda istanza»; in secondo luogo, indicando – quale miglior dimostrazione delle ragioni che ne impongono il mantenimento nel sistema – il significativo numero di riforme nel merito che vengono ogni anno totalizzate in secondo grado, in particolare in taluni distretti giudiziari. Tali considerazioni non possono prescindere dal fatto che, a dire il vero, i buchi neri dei tempi del processo si registrano nel corso delle indagini preliminari ed in massima parte dipendono non dalla esistenza di un inutile surplus di garanzie, di cui l'appello dell'imputato sarebbe l'emblema, ma molto più banalmente da disfunzioni di carattere organizzativo della macchina amministrativa, su cui sarebbe ben più coerente intervenire. Rilievi, questi ultimi, che non solo sono state convalidate dalle più recenti analisi statistiche sul tema, ma che in una certa misura sono asseverate dalla stessa relazione depositata in parlamento dal Presidente Lattanzi, laddove si è dato atto della significativa differenza dei tempi di smaltimento degli affari tra i diversi distretti di Corte di Appello. Nonostante l'impegno dei suoi difensori, l'appello dell'imputato è rimasto costantemente al centro delle attenzioni, con proposte che hanno spaziato tra la sua sostanziale ed esplicita abrogazione, alla sua consunzione per deterrenza attraverso l'abrogazione del divieto di reformatio in peius, nonché, da ultimo, alla sua trasformazione genetica in mezzo di impugnazione a critica vincolata sul modello del ricorso per cassazione. Tutto, in ogni caso, sempre partendo dalla “stravaganza” del nostro sistema processuale che pretende contraddittoriamente di assommare alle garanzie dell'accusatorio, accolto in primo grado, anche quelle dell'appello di inquisitoria memoria. Argomento che indubbiamente possiede una sua forza dal punto di vista sistematico ma che sconta la debolezza del presupposto, cioè la vigenza di un sistema accusatorio nel nostro ordinamento che, nei decenni successivi alla riforma 1989, non può certo dirsi abbia guidato le scelte del legislatore; basti pensare alle deroghe in tema di assunzione delle testimonianze, alla circolazione delle prove ovvero, infine, al ruolo predominante dell'accusa nella fase delle indagini preliminari, oggi universalmente riconosciuto come “gigantismo del PM”. Ciò posto anche questa vicenda riformatrice, che comunque sposa fin dal principio quell'ottica di “delimitazione dell'istituto” che ha contraddistinto gli ultimi interventi in materia, benché partita con l'ambizione di attuare un'intervento, se non epocale, perlomeno profondo sul giudizio d'appello, ha finito col produrre risultati assai modesti, senza mai porsi l'obiettivo di una riscrittura di questo mezzo di impugnazione che, pur garantendo un'effettiva rivalutazione del merito della sentenza, in specie quella di condanna, possa coniugarsi con la particolarità del sistema accusatorio. In buona sostanza, la riforma si muove su una linea “di lenta erosione dell'appello” anche se attuata, per dirla con Spangher, in una prospettiva in cui si promuove la fuoriuscita dal processo senza al contempo aumentare – ovvero in qualche caso mantenere – le garanzie per chi il processo lo affronta.

Dalle proposte Bonafede a quelle della Commissione Lattanzi alle scelte finali: quel manca più significativo di ciò che è rimasto

Quanto appena sottolineato appare ictu oculi analizzando le principiali innovazioni previste dalla normativa licenziata dalle Camere, posto che del disegno riformatore ciò che è rimasto riguarda:

a. la restrizione dell'area dei provvedimenti appellabili (art. 1, comma 13, lett. c), e) ed f);

b. la semplificazione delle modalità di presentazione dell'atto (art. 1, comma 13 lett. b);

c. l'inserimento di norme tese a scoraggiare l'appello nella difesa dell'assente (art. 1, comma 7, lett. h);

d. il rito camerale come modalità ordinaria di svolgimento del giudizio (art. 1, comma 13 lett. g);

e. l'eliminazione delle preclusioni per accedere al concordato sui motivi (art. 1, comma 13, lett. h);

f. l'ulteriore rafforzamento dell'onere di specificità dei motivi di appello (art. 1, comma 13, lett.i);

g. il ridimensionamento degli effetti della riforma Orlando e della Giurisprudenza delle Sezioni Unite in tema di rinnovazione del dibattimento nell'ipotesi di appello contro una sentenza di proscioglimento (art. 1, comma 13, lett. l).

Già da una visione di insieme scioglie che, per paradosso, quel che caratterizza maggiormente questa riforma si ritrova, nel bene o nel male, in quel che nel suo percorso è stato accantonato. Al riguardo, spicca per la sua assenza l'inappellabilità delle sentenze di condanna da parte del pm, proposta messa nero su bianco dalla Commissione Lattanzi che il governo ha escluso – ripercorrendo un clichè che affligge la nostra produzione legislativa da tempo – non certo per timore dei dubbi di costituzionalità che, con decisione criticata da molti, avevano cancellato il precedente della cd. legge Pecorella, quanto per la immediata reazione della magistratura inquirente. È questa sicuramente un'assenza di rilievo, posto che il mantenimento del potere di impugnazione nel merito del pm – questo sì davvero eccentrico in un sistema anche solo tendenzialmente accusatorio – rende insoluti i problemi che si pongono di fronte alla condanna pronunciata per la prima volta in sede di appello, con la sottrazione al condannato di un giudizio merito sul punto, ciò che contrasta proprio con la normativa sovranazionale sopra richiamata. Altro terreno sul quale è possibile registrare una mancata conferma, stavolta in linea con le proposte della commissione Lattanzi, riguarda l'abbandono della proposta, a suo tempo presente nel progetto Bonafede, dell'appello monocratico nei procedimenti a citazione diretta di cui all'art. 550 c.p.p. Una soluzione dai dubbi effetti rispetto alla ottimizzazione del carico di lavoro dei magistrati che la ispirava e che aveva raccolto molte ed aspre critiche da parte di coloro che, da tempo, sottolineano come la perdita della collegialità in nome di un scelta efficientista non tenga conto del fatto che la stessa rappresenta un valore di qualità ed affidabilità della decisone.

La riforma del 599-bis c.p.p.

Tra le proposte provenienti dalla commissione Lattanzi che sono state confermate è invece da salutare con favore l'eliminazione delle preclusioni per accedere al concordato anche con rinuncia ai motivi di appello previsto all'art. 599-bis c.p.p., introdotto dalla riforma Orlando. Una scelta che potrà avere dei sicuri effetti deflattivi e che appare in controtendenza rispetto all'allargamento dell'area del cd doppio binario che connota anche questo intervento in tema di prescrizione, in conformità ad una scelta di politica giudiziaria che si è affermata ormai da anni in nome di esigenze securitarie e che ha prodotto il singolare risultato di sottrarre garanzie processuali proprio agli imputati dei delitti più gravi e destinatari delle maggiori sanzioni previste dall'ordinamento.

Il mandato ad impugnare da parte dell'assente e la reiterazione della domiciliazione

Percorrendo un ulteriore tratto di strada già sperimentato in precedenza, la riforma prevede che nel caso dell'assente il difensore possa impugnare la sentenza solo se munito di specifico mandato rilasciato dopo la pronuncia della stessa sentenza e che, con il mandato ad impugnare, l'imputato dichiari o elegga il domicilio per il giudizio di impugnazione (art. 1, comma 7, lett. h). A ciò si aggiunge, stavolta per tutti gli imputati, che con l'atto di impugnazione, a pena di inammissibilità, debba depositarsi dichiarazione o elezione di domicilio ai fini della notificazione dell'atto introduttivo del giudizio di impugnazione (art. 1 comma 13 lett. a). Partendo dalla prima disposizione, essa è stata giustificata dalla considerazione che in molti casi l'attività di impugnazione proposta dal difensore, fonte di allungamento dei tempi del processo – e nel caso di patrocinio a spese dello Stato e di irreperibilità, anche di oneri per la collettività – sarebbe svolta non nell'interesse dell'assistito e persino a sua insaputa. Orbene, pur non negando che pratiche di abuso del potere di impugnazione per finalità di lucro possono sussistere, le ragioni di questo “ritorno al passato” non convincono appieno soprattutto perché elevano a categoria generale situazioni patologiche e non tengono conto del fisiologico, autonomo potere di valutazione del difensore rispetto all'interesse ad impugnare che, in determinati contesti di difficoltà di contatto, rendono la previsione gravemente afflittiva. Nella realtà ciò appare, al di là della evidente sottovalutazione anche della natura pubblicistica della difesa tecnica, il frutto di una scelta tesa a “testare” la volontà di impugnare attraverso la frapposizione di ostacoli talvolta apertamente strumentali, da un lato, ovvero della strada per semplificare le attività amministrative di cancelleria, da un altro. Quest'ultimo intendimento risulta del tutto evidente a proposito della richiesta di rinnovazione della dichiarazione o elezione di domicilio, anche se già effettuata per le precedenti fasi che, come visto, si chiede sia per l'imputato assente che per quello che ha partecipato al dibattimento. Partendo dal dato, indubbiamente conforme alla realtà, che larga parte dei rinvii che avvengono in sede di appello siano dovuti ad errori nelle notifiche dell'atto introduttivo del giudizio, si fa pagare lo scotto dell'inefficienza dell'amministrazione all'imputato sancendo con la sanzione della inammissibilità – che dovrebbe essere riservata alla carenza di requisiti sostanziali dell'impugnazione – la mancata rinnovazione dell'atto di domiciliazione anche se presente in atti e valido. Una scelta assai discutibile, anche solo a valutare i diversi valori in gioco che la stessa coinvolge, che si iscrive pienamente tra le norme semplicemente tese a scoraggiare, o perlomeno a complicare, l'impugnazione.

Verso la trasformazione genetica dell'appello

Pur abbandonando la via della trasformazione esplicita dell'appello in strumento di impugnazione a critica vincolata, che era espressamente accolta dal testo licenziato dalla commissione Lattanzi, la normativa in esame sembra comunque muoversi nella stessa direzione. Se, infatti, dalla commissione Lattanzi veniva l'indicazione cogente a “strutturare l'appello quale impugnazione a critica vincolata”, che non si ritrova nell'attuale testo, resta la previsione della inammissibilità dell'appello per mancanza di specificità dei motivi (art. 1, comma 13, lett. i) ove manchi “la puntuale ed esplicita enunciazione dei rilievi critici rispetto alle ragioni di fatto o diritto” espresse nel provvedimento impugnato. Pur salutando con favore la modifica rispetto al testo della commissione riguardo alla parte non riproposta, restano le perplessità per quella che appare una scelta destinata, soprattutto per via giurisprudenziale, a modellare l'appello sul modello del ricorso per cassazione ed a mutuare da quella fase anche la giurisprudenza in tema di inammissibilità per infondatezza manifesta dei motivi. Ciò con particolare riguardo al requisito di specificità richiamato rispetto alle questioni di fatto. Al riguardo si debbono rimarcare le differenze strutturali tra i due tipi di impugnazione: l'appello attiene direttamente al giudizio di colpevolezza ed alla ricostruzione dei fatti che l'hanno motivato, il ricorso per cassazione si rivolge alla motivazione del provvedimento. Come puntualmente osservato da Paolo Ferrua, «in tutto ciò che attiene alla ricostruzione del fatto – oltre al potere del giudice di appello di assumere prove – resta una sensibile differenza tra il giudizio di cassazione e quello di appello. Mentre nel ricorso l'accoglimento dei motivi implica un errore della sentenza, nell'appello un motivo può essere accolto, in ipotesi, anche a prescindere da uno specifico vizio della sentenza impugnata. Data l'ampia discrezionalità conferita al giudice dalla formula dell'oltre ogni ragionevole dubbio, è possibile che il giudice di appello assolva laddove il giudice di primo grado ha condannato con motivazione in sé plausibile». Alla luce di ciò, appare del tutto evidente che il rischio di questa surrettizia trasformazione genetica dell'appello è quello della inammissibilità di appelli che, pur essendo specifici, non siano riusciti ad individuare un “errore” nella sentenza impugnata. Al tempo stesso un sistema siffatto può legittimare il giudice di appello a ritenersi autorizzato solo a censurare gli errori denunciati e non già a sostituire “il proprio convincimento a quello del giudice di primo grado”. Il che comporterebbe, sul terreno più delicato, cioè quello della discrezionalità, una vera e propria amputazione ed in ultima analisi una certa trasformazione del rito. In definitiva, più che un rafforzamento dell'onere di specificità dei motivi, già previsto, la scelta compiuta sembra un ulteriore passo verso una vera e propria mutazione genetica dell'appello non in direzione di una sua trasformazione compatibile con il sistema accusatorio ma una decisa ottica di deterrenza.

L'appello cartolare

Nel corso dei momenti più caldi della pandemia in molti, alla luce del noto principio secondo il quale in Italia non c'è nulla di più stabile di un'emergenza, avevano ipotizzato che le norme relative alla trattazione cartolare dei processi penali avrebbero trovato conferma al di là della particolare congiuntura. Questo è ciò che puntualmente si è verificato. Anche in sede di appello, così come per la cassazione, la trattazione orale del processo diventa una delle possibilità di svolgimento del rito, attivabile solo su esplicita richiesta dell'imputato o del suo difensore. In merito si prevede, in via generale, la celebrazione del giudizio di appello con rito camerale non partecipato, salvo che la parte appellante o, in ogni caso, il suo difensore, richiedano di partecipare all'udienza (art. 1, comma 13, lett. g). Sul punto va subito rilevato che non è possibile stabilire un parallelo tra tale disposizione e quella riguardante il ricorso per cassazione (art. 1, comma 13, lett. m) che, al di là delle particolarità del giudizio di legittimità già rammentate e dunque della stretta connessione tra la redazione dell'atto e la sua discussione che è connaturata nel regime a critica vincolata, prevede che la Corte, anche in assenza di una richiesta di parte in tal senso, possa autonomamente disporre la discussione orale in pubblica udienza o in camera di consiglio partecipata; decisione che diviene obbligata nella ipotesi in cui la Corte intenda dare al fatto una definizione giuridica diversa, ipotesi che la norma sull'appello non prevede. Ciò posto, benché in fase di impugnazione l'oralità abbia indubbiamente una dimensione diversa rispetto al giudizio di cognizione e pure tenendo conto del fatto che l'intervento orale è comunque lasciato alla libera iniziativa delle parti, la modifica – anche in questo caso motivata da ragioni di efficienza del sistema che ben potranno essere travolte da consuetudini standardizzate per le quali, soprattutto per processi riguardanti imputazioni e condanne gravi, i difensori proporranno istanze di trattazione orale in automatico – parte da un giudizio di equivalenza tra discussione orale e trattazione scritta che non appare condivisibile rispetto alla stessa funzione di giudizio di merito che nell'appello si svolge. In realtà, anche in questo caso, si è elevata a regola generale quella che appariva una patologia dal punto di vista deontologico, cioè la prassi assai gradita da molti magistrati ed avvocati, di evitare la relazione della causa prevista dall'art. 602 c. 1 c.p.p. dandola per letta, di limitare l'intervento del PG alla semplice richiesta di conferma o di riforma e di riportarsi ai motivi depositati da parte del difensore. Prassi, per l'appunto, non certo commendevole, che svuotava di contenuto il controllo pubblico sulle decisioni giudiziarie che il binomio oralità-pubblicità assicurava, che oggi, con la scelta compiuta, rischia di perdersi per sempre.

Il superamento della giurisprudenza delle SSUU in tema di rinnovazione della prova dichiarativa

La riforma interviene anche sulla rinnovazione del giudizio in appello ai sensi dell'attuale art. 603 c. 3-bis c.p.p., cioè nella ipotesi di appello del pm avverso la sentenza di proscioglimento per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa. In particolare, accogliendo le opinioni di coloro che avevano a suo tempo criticato le sentenze Patalano e Dasgupta delle Sezioni Unite, che avevano stabilito l'applicabilità della rinnovazione anche in caso di giudizio abbreviato. La norma licenziata dalle Camere (art. 1, comma 13, lett. l) prevede espressamente che la rinnovazione sia limitata ai soli casi di prove assunte in udienza nel corso del giudizio di primo grado. Ciò comporterà l'automatica esclusione del meccanismo della rinnovazione nel caso di giudizio abbreviato non condizionato all'escussione di testimoni, ed in ogni caso, indipendentemente dal rito, in cui la prova dichiarativa sia stata inserita nel fascicolo senza escussione diretta del dichiarante. Anche in questo caso, è un passo indietro rispetto alla difesa di alcune caratteristiche epistemologiche del processo di cognizione. Se, come gli arresti sopra citati concludevano, la discussione riguardava il punto di equilibrio tra il dubbio ragionevole e la superiore forza maieutica del contraddittorio orale, unico strumento in grado di vincere la situazione di stallo che la disparità di giudizio tra assoluzione e condanna nei diversi gradi del processo rendeva latente, la risposta non convince. Nei termini in cui era stata affrontata dalle Sezioni Unite, la medesima situazione si verifica quando la prova dichiarativa, considerata risolutiva ai fini della assoluzione, venga assunta in primo grado in forma cartolare e dunque la limitata fuoriuscita dal rito, che in tal modo si verificava, era giustificata proprio per arrivare al bilanciamento degli interessi in gioco. Tanto premesso, e considerato che le ragioni di coloro che avevano considerato la sentenza Patalano una fuga in avanti che contraddiceva la (limitata) disponibilità del principio del contraddittorio che la scelta del rito comporta, resta un'amara considerazione: se il legislatore fosse stato più coraggioso in tema di esclusione dell'appello del pm avverso le sentenze di condanna, la previsione di cui all'oggetto non avrebbe avuto ragion d'essere. Peraltro, atteso il relativo numero di impugnazioni del PM che si registrano su scala nazionale, da tutti riconosciuto, l'impatto della normativa a fini deflattivi, cioè quella che dovrebbe essere la ratio della riforma, appare anche irragionevole alla luce una valutazione tra costi e presunti benefici.

In conclusione

La riforma in tema di appello non centra l'obiettivo, rimasto latente fin dal 1989, di disegnare un secondo grado di giudizio compatibile con il sistema accusatorio ma allo stesso tempo rispettoso della funzione di piena rivalutazione del merito nell'ambito del devoluto. La tendenza verso un'impugnazione a critica vincolata, sul modello del giudizio di legittimità, ancorché apparentemente rinunciata, si riaffaccia nelle scelte compiute e disegna un futuro in cui la discussione orale non sarà più un requisito del giusto processo.

Guida all'approfondimento

Studi e statistiche rilevanti sul tema: European judicial systems CEPEJ Evaluation Report, 2020; Secondo Rapporto sul Processo Penale, EURISPES – Unione Camere Penali Italiane, 2019; Analisi statistica dell'istituto della prescrizione in Italia, Ministero della Giustizia, 2017.

Contributi dottrinali cui si è fatto riferimento nella stesura dell'articolo: Documento del 30 agosto 2021, a firma dei Professori Marcello Daniele, Paolo Ferrua, Renzo Orlandi, Adolfo Scalfati e Giorgio Spangher; Nappi, Il nuovo processo penale: un'ipotesi di aggiornamento del giudizio d'appello, in Cassazione Penale, n. 5/1990, p. 974; Chiavario, Nel nuovo regime delle impugnazioni i limiti e i mancati equilibri di una riforma, in AA.VV., Commentario al nuovo codice di procedura penale, coordinato da M. Chiavario, vol VI, UTET, 1991, p. 15 e ss.; Fassone, L'appello, un'ambiguità da sciogliere, in Quest. giust., 1991, p. 623 e ss.; Spangher, voce Appello, II) Diritto processuale penale, in Enc. giur. Treccani, Agg., vol. II, 1991, p. 1; De Caro, Filosofia della riforma e doppio grado della giurisdizione di merito, in AA.VV., La nuova disciplina delle impugnazioni dopo la “legge Pecorella”, a cura di Gaito, Torino, 2006, p. 10 ss.; Ferrua, Appello (dir. proc. pen.), in Enc. Giur., II, Roma, 1988, p. 1 e ss; Gaeta-Macchia, L'appello, in Spangher (a cura di), Trattato di procedura penale, Vol. V, Le impugnazioni, UTET, 2009, p. 275 e ss.; Serges, Il principio del “doppio grado di giurisdizione” nel sistema costituzionale italiano, Milano, Giuffrè, 1993; Verrina, Doppio grado di giurisdizione, convenzioni internazionali e Costituzione, in AA.VV., Le impugnazioni penali, a cura di Gaito, Torino, 1998, p. 147 e ss.; De Caro, Filosofia della riforma e doppio grado di giurisdizione, in AA.VV., La nuova disciplina delle impugnazioni dopo la legge Pecorella, a cura di Gaito, Torino, 2006, p. 1 e ss.; Proposte di riforma dell'Associazione Nazionale Magistrati in materia di diritto e processo penale, approvate dal Comitato Direttivo Centrale in data 10 novembre 2018, pp. 23 e 2; Flick, Efficienza a costo zero: l'abolizione del divieto di reformatio in peius, in Cassazione Penale, n. 5/2017, p. 1757 e ss.; Rossi, Quel bisturi sull'appello: è l'accusatorio bellezza!, in www.ildubbio.news (web); Cordero, Un'arma contro due, in Riv. dir. proc., 2006, p. 812; Nappi, Il nuovo processo penale: un'ipotesi di aggiornamento, cit., p. 974 e ss.; Nappi, Impugnazioni e processo penale. Le modifiche possibili, in Quest. giust., 1999, p. 1084; Ferrua, La sentenza costituzionale sull'inappellabilità del proscioglimento e il diritto al “riesame” dell'imputato, in Diritto Penale e Processo, n. 5/2007, p. 605 e ss; De Caro, L'illegittimità costituzionale del divieto di appello del pubblico ministero tra parità delle parti e diritto al controllo di merito della decisione, in Diritto Penale e Processo, n. 5/2007, p. 605 e ss.; Scalfati, Restituito il potere d'impugnazione senza un riequlibrio complessivo, in Guida dir., n. 8/2007, p. 78 e ss.; Ferrua, La riforma dell'appello, in Diritto Penale e Processo, n. 9/21, p. 1159e ss.; De Caro, Le ambigue prospettive di riforma del processo penale contenute nel D.D.L. 2435/2020: il declino delle garanzie e il (vano) tentative di accelerare la durata dei processi, in Diritto Penale e Processo, n. 4/2021, p. 532; Agostino, Il giudizio d'appello monocratico che verrà, in www.lalegislazionepenale.eu(web).

In giurisprudenza: Corte Costituzionale, 6 febbraio 2007, n. 26; Cass., Sezioni Unite, 27 ottobre 2016, Galtelli.

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