Impedito controlloFonte: Cod. Civ. Articolo 2625
06 Dicembre 2017
Inquadramento
La fattispecie prevista dall'art. 2625 c.c., punisce gli amministratori che, occultando documenti o compiendo altri idonei artifici, impediscono o comunque ostacolano l'attività di controllo dei soci, o di altri organi sociali, con la sanzione amministrativa pecuniaria fino a 10.329 euro. Se la condotta sopra descritta ha cagionato un danno ai soci, si applica la reclusione fino ad un anno e si procede a querela della persona offesa. La pena risulta raddoppiata se si tratta di società quotate in mercati regolamentati italiani o di altri stati dell'Unione Europea o con titoli quotati diffusi tra il pubblico in misura rilevante ai sensi dell'art. 116 del Testo Unico di cui al D.Lgs. n. 58 del 24 febbraio 1998. La genesi della fattispecie
L'intero Titolo XI, comprendente gli articoli da 2621 a 2642 c.c., è stato sostituito dall'art. 1, del D.Lgs. 11 aprile 2001, n. 61. In particolare, il reato di impedito controllo della gestione sociale era originariamente previsto dall'art. 2623 n. 3 c.c., che sanzionava il fatto degli amministratori che impedivano il controllo della gestione sociale da parte del collegio sindacale. L'intervento operato dal D.Lgs. n. 61/2001, con l'introduzione dell'art. 2625 c.c., ha in parte depenalizzato la condotta contenuta nel previgente art. 2623 c.c., nel caso in cui non vi siano stati danni per i soci, prevedendo, in ipotesi contraria, una fattispecie delittuosa punibile a querela della persona offesa. La duplice struttura della norma incriminatrice
Come appare chiaro dal tenore letterale della previsione normativa contenuta nell'art. 2625 c.c., quest'ultima disposizione disciplina due ipotesi illecite distinte, descritte rispettivamente ai commi 1 e 2. La prima ipotesi prevede un illecito amministrativo, consistente nella condotta degli amministratori che occultano documenti o, con altri idonei artifici, impediscono od ostacolano l'attività di controllo legalmente attribuita ai soci. La seconda condotta integra, invece, gli estremi del reato, allorquando la condotta sopra descritta, cagioni un danno ai soci.
La norma in commento intende tutelare il corretto funzionamento della società, garantendo ai soci, che non rivestano contestualmente la carica di amministratori, la verifica in ordine all'andamento della gestione, alla consistenza del patrimonio ed alla loro rappresentazione contabile. In particolare, la tutela apprestata dal primo comma della fattispecie in esame è rivolta alle attività di controllo in sé, a differenza del secondo comma, che invece garantisce il patrimonio dei soci. Più nello specifico, l'ipotesi delittuosa tende ad assicurare effettiva tutela al diritto dei soci di ricevere, dagli amministratori, notizie in ordine allo svolgimento degli affari sociali e di consultare libri e altre scritture contabili. La fonte normativa del diritto dei soci di ricevere le informazioni, risiede nell'art. 2476, comma 2 c.c., a mente del quale “i soci che non partecipano all'amministrazione hanno diritto di avere dagli amministratori notizie sullo svolgimento degli affari sociali e di consultare, anche tramite professionisti di loro fiducia, i libri sociali ed i documenti relativi all'amministrazione”. La norma rappresenta l'espressione dei principi contenuti nella legge delega n. 366/ 2001, secondo cui “la riforma della disciplina della società a responsabilità limitata [deve essere] ispirata ai seguenti principi generale: a) prevedere un autonomo ed organico complesso di norme, anche suppletive, modellato sul principio della rilevanza centrale del socio e dei rapporti contrattuali tra i soci…”. A seguito della predetta riforma, l'ambito di operatività del potere di controllo attribuito al socio ha avuto una rilevante espansione, dovuta al fatto che ora tale facoltà non è più subordinata al presupposto della mancanza del collegio sindacale. Tale potere, dunque, da suppletivo, qual era ante riforma, perché operante, in via residuale, solo in assenza del collegio sindacale, ora diviene connaturato alla qualifica di socio non amministratore.
Gli elementi costitutivi della fattispecie delittuosa. La condotta attiva degli amministratori
Il reato in esame tutela, come detto, in modo particolare, le funzioni di controllo e ispettivi sulla regolarità di gestione e non in via generale la partecipazione del socio alla vita societaria. Ne discende che non ogni attività societaria, cui venga impedito al socio di partecipare, è idonea ad integrare la violazione del dettato contenuto nell'art. 2625, comma 2 c.c., essendo necessario che l'impedimento attenga in modo specifico alle funzioni ispettive circa la regolarità della gestione (Cass., 27 febbraio 2015, n. 15641). Inoltre, dato il tenore letterale, deve rilevarsi come la norma in commento postuli una condotta necessariamente attiva, idonea e finalizzata ad essere di intralcio alle funzioni di controllo circa la regolarità della gestione societaria. L'amministratore è, pertanto, chiamato a rispondere del reato in parola solo quando ponga in essere operazioni volte ad occultare i documenti richiesti oppure ad alterare fraudolentemente il contenuto delle scritture contabili o dei verbali assembleari, ma non anche quando si sia limitato a negare l'ostensione della documentazione societaria. Del resto, i giudici di legittimità hanno chiarito che la norma, quando sanziona l'impedimento o l'ostacolo all'attività di controllo del socio mediante l'occultamento di documenti o il ricorso ad altri artifici, pretenda il compimento di una condotta attiva dell'amministratore della società, attuata mediante la distrazione, la distruzione dei documenti sociali, ovvero mediante l'impiego di particolari espedienti volti a trarre in inganno, quali la simulazione, la falsificazione materiale, la rappresentazione tanto carente da risultare artificiosa, l'infedele verbalizzazione o la tenuta delle scritture contabili in modo così disordinato da impedire la possibilità di una corretta rappresentazione del dato di gestione o di patrimonio (Cass. Pen., 15 marzo 2017, n. 39443). In altre parole, la disposizione incrimina ogni modalità che renda impossibile o difficoltosa l'azione di verifica da parte di chi è legittimato ad una istanza di controllo sulla gestione o sulla rappresentazione contabile (Cass., 10 giugno 2010, n. 27296). Di tali coordinate ermeneutiche, ha fatto applicazione il Supremo Consesso, nella sentenza n. 38393 del 16 aprile 2012, laddove ha ritenuto la condotta compiuta dall'imputato, consistita nel pretestuoso temporeggiamento nella consegna dei libri sociali, nella cattiva gestione delle risorse finanziarie rilevate dal consulente contabile, nelle forzature e alterazione delle regole statutarie, nella falsificazione del verbale di un'assemblea, idonea a violare l'art. 2625, comma 2 c.c. Essendo un illecito che può essere commesso unicamente dagli amministratori, trattasi di reato proprio.
Danno ed elemento soggettivo
Il danno è elemento costitutivo della fattispecie di rilevanza penale, di cui al secondo comma, e rappresenta l'elemento differenziante tra quest'ultima e la fattispecie di illecito amministrativo, prevista dal primo comma della citata norma. Il reato in parola si consuma con il verificarsi dell'evento di danno, necessariamente successivo ed eziologicamente connesso alla condotta di impedito controllo. Il tema della tempestività della querela è strettamente collegato all'individuazione dell'evento dannoso del reato, cagionato in seguito all'attività illecita esercitata dagli amministratori. Di talché, solo una volta accertato, da parte della parte lesa, l'evento dannoso, può essere valutata la ritualità della condizione di procedibilità. Valgono, del resto, in materia, i principi generali in tema di presentazione della querela ed in particolare quello previsto all'art. 124 c.p., secondo cui il termine per la presentazione della stessa decorre dal momento in cui il titolare ha conoscenza certa del fatto reato. In altre parole, il termine per la proposizione della querela decorre dal momento in cui il socio ha conoscenza certa, sulla base di elementi fondati e seri, del fatto reato nella sua dimensione oggettiva. In questi termini si è espressa, peraltro, la Suprema Corte di Cassazione, nella sentenza n. 11639 del 18 gennaio 2012.
Il profilo psicologico si differenzia a seconda della fattispecie amministrativa o penale. Invero, per l'illecito amministrativo è sufficiente l'elemento soggettivo della colpa; diversamente, l'ipotesi delittuosa è punita a titolo di dolo generico. Il socio cui è attribuita la facoltà di controllare l'attività societaria, è il socio in quanto tale, non essendo necessario che questi sia anche detentore di una quota qualificata del capitale sociale. Per espressa previsione normativa, anche i professionisti, con delega dei soci, possono esercitare il diritto di controllo e consultare i libri sociali, nonché tutta la documentazione relativa all'amministrazione della società. Se il presupposto per l'integrazione del reato di impedito controllo, è il mancato rispetto del diritto del socio di controllare l'attività della società, per delimitare l'ambito di applicabilità della predetta norma, è necessario identificare l'ampiezza della facoltà attribuita ai soci, ai sensi dell'art. 2476, comma 2, c.c. Ebbene, non tutte le attività di controllo, indiscriminatamente e indistintamente, sono oggetto di specifica tutela, cosicché occorrerà individuare le modalità, i tempi e l'oggetto del controllo facoltizzato dalla citata norma. Il diritto di ispezione della documentazione sociale comprende la facoltà, oltreché ovviamente di prendere appunti, di farsi rilasciare, a proprie spese, copie integrali ovvero estratti dei documentati consultati. Ciò che non è, invece, permesso al socio, è di trattenere con sé, neppure temporaneamente, documentazione societaria. In ordine alle tempistiche del controllo, la legge nulla dice, sicché deve ritenersi che non vi siano particolari limitazioni per il socio, tuttavia è altresì verosimile che il socio, il quale si presenti senza preavviso alcuno, negli orari di normale attività lavorativa, potrà essere invitato a tornare in altro momento, senza con ciò dovendosi ritenere integrata la condotta di ostacolo al controllo della gestione societaria.
Fattispecie contemplata, in precedenza, nell'art. 2625 c.c., il c.d. “impedito controllo esterno”, ovvero le condotte di ostacolo all'attività di revisione, sono ora previste e punite dal D.Lgs. n. 39 del 2010, art. 29. Si tratta, come per la fattispecie codicistica, di un reato proprio, dovendosi individuare i soggetti attivi negli amministratori della società assoggettata a revisione legale, che si realizza mediante le già descritte condotte, alternative tra loro, di occultamento di documenti o di impedimento, attraverso mezzi truffaldini, dello svolgimento dell'attività di revisione. L'originaria struttura della norma constava di due autonome figure criminose, l'una di pericolo, contenuta nel primo comma, l'altra di danno, di cui al secondo comma, entrambe di natura contravvenzionale. Per la fattispecie di pericolo era prevista la sanzione dell'ammenda fino a 75.000 euro, mentre quella di danno era punita con l'ammenda fino a 75.000 euro, unitamente all'arresto fino a diciotto mesi. Non sfugge l'ampio divario che intercorreva, sul piano sanzionatorio, tra le fattispecie del codice civile e quelle qui richiamate; anche in considerazione dell'aggravamento di pena previsto al terzo comma della norma, qualora l'attività di revisione fosse stata ostacolata presso enti di interesse pubblico, pari al doppio delle pene previste dai commi precedenti. Il richiamato regime sanzionatorio, è rimasto tale sino alla data del 6 febbraio 2016, allorquando il D.Lgs. n. 8, del 15 gennaio 2016, è intervenuto a depenalizzare la fattispecie contravvenzionale prevista dal comma 1 dell'art. 29, rimodulandone anche la sanzione pecuniaria, con la previsione dell'ammenda da 10.000 fino a 50.000 euro. Inoltre, deve rilevarsi come entrambe le condotte previste dall'art. 29, D.Lgs. n. 39 del 2010, siano procedibili d'ufficio. Anche in punto di perseguibilità, pertanto, il Legislatore ha modificato la disciplina precedentemente apprestata all'art. 2625 c.c., che richiede, invece, ai fini della perseguibilità del reato, la presentazione della querela da parte dei soci. A mente dell'art. 25-ter D.Lgs. n. 231/2001, costituisce reato presupposto della responsabilità dell'ente, la forma delittuosa della fattispecie di impedito controllo, prevista al comma 2, dell'art. 2625 c.c. La sanzione pecuniaria stabilita per tale ipotesi, così come modificata dalla Legge sulla riforma del risparmio (L. n. 262/2005), è da determinarsi tra 200 e 360 quote. La particolarità della previsione normativa qui commentata è che, in seguito all'entrata in vigore dell'art. 29, del D.Lgs. n. 39/2010, che ha, come rilevato, espunto dall'art. 2625 c.c., l'impedito controllo commesso in danno del revisore, il D.Lgs. n. 231/2001 ha omesso di operare un richiamo ad hoc per la predetta fattispecie criminosa, sicché tale fattispecie non rientra – attualmente – nel catalogo dei reati da cui discende la responsabilità amministrativa della persona giuridica. Sembra difficile ipotizzare ad una svista del legislatore, il quale, più verosimilmente, ha optato per una deresponsabilizzazione delle società di revisione. Sul punto, peraltro, sono intervenute le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 34476 del 23 giugno 2011, a sancire espressamente che l'impedito controllo del revisore non costituisce titolo per la responsabilità amministrativa dell'ente. I giudici rimettenti investivano le Sezioni Unite della questione data la sua complessità, rilevando, con alcune perplessità, che a seguito della riforma, la responsabilità dell'ente è venuta meno per un fatto grave quale è il falso nelle relazione delle società di revisione, rimanendo, invece, inalterata per gli illeciti meno rilevanti, quali l'impedito controllo nell'ambito delle altre società, il che determinava un quadro di dubbia razionalità, soprattutto tenuto conto che il fatto-reato della falsità in revisione legale non aveva mai perso rilevanza penale, essendo rifluito nel già citato art. 29, del D.Lgs. n. 39/2010. Nella sentenza in epigrafe, i giudici del Supremo Consesso, tuttavia, confermano la pronuncia del giudice di prime cure che aveva mandato assolto l'ente. Pertanto, può conseguentemente affermarsi che non sussiste la responsabilità del revisore persona giuridica, per l'illecito penale commesso dai soci incaricati della revisione. La confisca obbligatoria
Merita di essere segnalato, nella disamina della fattispecie de qua, l'art. 2641 c.c. che dispone, in caso di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti, per uno dei reati previsti dal titolo V, del libro V, la confisca del prodotto o del profitto del reato e dei beni utilizzati per commetterlo e quella per equivalente, qualora non sia possibile l'individuazione o l'apprensione dei beni indicati nel comma primo. Rimandando, per quanto non espressamente previsto, all'art. 240 c.p. A mente della previsione qui richiamata, pertanto, alla condanna o all'applicazione della pena su accordo delle parti, per il reato di impedito controllo, segue l'applicazione obbligatoria della confisca da parte del Giudice. Anche a tale proposito, si rileva il cortocircuito presente nell'ordinamento giuridico, laddove – come per la responsabilità amministrativa degli enti – il reato commesso nell'ambito delle società di revisione (non essendo più disciplinato dall'art. 2625 c.c.) non è ricompreso tra quelli cui segue, in caso di condanna o patteggiamento, la confisca ex art. 2641 c.c. Il diritto del socio, se esercitato con mala fede, può sfociare in un abuso. È evidente, del resto, che se l'esercizio della facoltà di controllo riservata al socio, si trasforma in un comportamento ostruzionistico, attuato mediante continue richieste di accesso alla documentazione, solo pretestuose e strumentali, gli amministratori dovrebbero, a loro volta, ricevere una tutela dall'ordinamento. Sebbene nel codice manchi una norma che sancisca tale protezione, il buon senso ci induce a ritenere che il diritto del socio, se esercitato in modo patologico, può legittimare un rifiuto da parte dell'amministratore, che in queste ipotesi dovrebbe andare esente da responsabilità. Non essendoci, tuttavia, una disposizione espressamente diretta ad arginare tali tipi di fenomeno di abuso del diritto del socio, l'unica forma di tutela che rimane alla società, è quella di stabilire limiti e modalità all'esercizio del diritto di controllo, all'interno dei propri statuti societari. Appare chiaro, tuttavia, che tali tipi di rimedi apprestino una tutela solo preventiva e non postuma, conseguente, cioè al verificarsi di casi di abuso del diritto da parte del socio; ricorrendo tali casi, non essendoci altro tipo di rimedio, la condotta dell'amministratore potrà andare esente da responsabilità solo dimostrando la mancanza dell'elemento soggettivo richiesto dalla norma incriminatrice. Riferimenti
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