La riforma Cartabia e il processo digitale: il fantasma tecnologico nel processo penale

Cataldo Intrieri
30 Settembre 2021

Il processo penale affronta la prova della modernità tecnologica, conosciuta grazie all'emergenza sanitaria ed in precedenza relegata alla sola riserva del doppio binario, tramite la formulazione dell'art.146-bis disp. att. c.p.p. introdotto dalla legge n. 103/2017. Lo scoppio della pandemia ha potenzialmente allargato i confini di applicazione del c.d. “processo a distanza” estendendolo in via discrezionale con il solo divieto di applicazioni alle fasi più pregnanti dell'istruttoria dibattimentale ed alla discussione...
Abstract

Il processo penale affronta la prova della modernità tecnologica, conosciuta grazie all'emergenza sanitaria ed in precedenza relegata alla sola riserva del doppio binario, tramite la formulazione dell'art.146-bis disp. att. c.p.p. introdotto dalla legge n. 103/2017. Lo scoppio della pandemia ha potenzialmente allargato i confini di applicazione del c.d. “processo a distanza” estendendolo in via discrezionale con il solo divieto di applicazioni alle fasi più pregnanti dell'istruttoria dibattimentale ed alla discussione, venendo incontro ai timori, meglio sarebbe dire alle idiosincrasie del ceto forense, magistrati inclusi. Oggi le disposizioni contenute nei commi 8 e 11, lett. d) della delega (art. 1) rappresentano un ulteriore passo in avanti e costituiscono il tentativo più deciso di superare alcuni ritardi e strozzature processuali attraverso i nuovi strumenti tecnici già disponibili con un occhio a quelli di nuova realizzazione come le proiezioni olografiche.

Introduzione

La riforma Cartabia varata dal parlamento con due voti di fiducia affronta l'ultimo e più delicato miglio, quello della sua concreta applicazione tramite i decreti delegati che dovranno essere emessi entro il 2022.

Molti sono i profili di discussione racchiusi nei due capitoli della delega, di cui il primo che introduce l'art. 344-bis c.p.p. (Improcedibilità dell'azione penale per decorso del termine di celebrazione di giudizi di impugnazione)

Accanto alla fin troppo discussa novità che consente un provvidenziale superamento dell' A.C. 2435 (c.d. riforma Bonafede) sul tema della prescrizione (art. 2, commi 1-24), introducendo con effetto immediato tramite il nuovo art. 344-bis c.p.p. e le modifiche agli artt. 159, 160 e 161-bis c.p. una nuova causa estintiva come l'improcedibilità, l'art. 1, che si dipana per ben 28 commi indica una serie di modifiche al codice oggetto di apposita delega al Governo.

Nonostante l'improvvido clamore mediatico, spesso alimentato da interventi strumentali di addetti ai lavori, abbia focalizzato (ed esasperato) l'attenzione sul profilo degli inesistenti rischi di “sterminio di massa” di fascicoli processuali, il vero cuore pulsante della riforma posa propria nei 28 commi del 1 articolo.

Su essi si basa la scommessa del governo: sono modifiche alle norme pre-esistenti (ad esempio l'allargamento dei poteri del Gip in udienza preliminare) e nuovi istituti come la giustizia riparativa che dovrebbero attivare un circuito virtuoso di smaltimento del carico processuale.

Può sembrare paradossale ma l'applicazione massiccia dell'improcedibilità segnerebbe il fallimento della riforma e non la sua corretta applicazione: la riuscita è legata indiscutibilmente al successo delle finalità deflattive della norma.

Tra le diverse novità, poca attenzione si è prestata ad una disposizione contenuta nel comma 8 che ha la finalità di ulteriormente allargare l'impiego della tecnologia nello svolgimento dei procedimenti delegando il governo ad attuare tre distinte ipotesi:

a) prevedere la registrazione audiovisiva come forma ulteriore di documentazione dell'interrogatorio che non si svolga in udienza e della prova dichiarativa, salva la contingente indisponibilità degli strumenti necessari o degli ausiliari tecnici;

b) prevedere i casi in cui debba essere prevista almeno l'audioregistrazione dell'assunzione di informazioni dalle persone informate sui fatti, senza obbligo di trascrizione;

c) individuare i casi in cui, con il consenso delle parti, la partecipazione all'atto del procedimento o all'udienza possa avvenire a distanza.

Ad integrazione della disposizione sono previsti anche il varo di un piano triennale del Ministero di Giustizia e l'istituzione di un Comitato tecnico-scientifico quale organismo di consulenza e supporto per implementare la transizione digitale della amministrazione della giustizia.

Si tratta di evidente errore di sottovalutazione perché le norme in questione come si evidenzierà nel presente lavoro hanno lo scopo di ulteriormente sviluppare e fronteggiare le conseguenze che alcuni importanti precedenti giurisprudenziali hanno apportato alla complessa materia del processo penale, al tema dell'oralità ed immediatezza della prova dichiarativa e di efficienza della funzione giudiziaria.

Il processo penale affronta la prova della modernità tecnologica, conosciuta grazie all'emergenza sanitaria e in precedenza relegata alla sola riserva del doppio binario, tramite la formulazione dell'art.146-bisdisp. att.c.p.p. introdotto dalla legge n.103/2017.

Lo scoppio della pandemia ha potenzialmente allargato i confini di applicazione del cd. “processo a distanza” estendendolo in via discrezionale con il solo divieto di applicazioni alle fasi più pregnanti dell'istruttoria dibattimentale ed alla discussione, venendo incontro ai timori, meglio sarebbe dire alle idiosincrasie del ceto forense, magistrati inclusi.

In realtà le disposizioni contenute nei commi 8 e 11, lett. d) della delega racchiudono in nuce il tentativo di superare alcuni ritardi e strozzature processuali attraverso i nuovi strumenti tecnici già disponibili con un occhio a quelli di nuova realizzazione come le proiezioni olografiche.

In particolare il comma 8 prevede una norma di generale applicazione al processo penale delle tecniche audiovisive in funzione delle esigenze di speditezza del processo mentre il comma 11 lett. d) ha per oggetto quello di preservare comunque il principio di immediatezza tra il giudice e la prova nel caso di mutamento della persona del giudicante.

Dasgupta o il canone della “prova visibile”

Le ipotesi di delega in tema di processo a distanza sono distinte tra loro e con effetti diversi.

Partendo dalla ipotesi di registrazione audiovisiva come forma “ulteriore” di documentazione (comma 8 art. 1 n. 1-2), si tratta dell'estensione dell'obbligo già previsto dall'art. 141-bis del codice di rito con riferimento al solo interrogatorio dell'imputato detenuto anche alla prova dichiarativa testimoniale.

Le esigenze sottese a tale novità sono molteplici: è certamente corretto individuare il “template” di questa disposizione nell'art. 603 comma 2 c.p.p. e nell'indirizzo ermeneutico e garantista promosso dalle sentenze della Cedu Dan/Moldavia e delle SSUU della Cassazione penale Dasgupta (sent. 28 aprile 2016 n. 27620) e Patalano (sent. 19 gennaio 2017, n. 18620) che hanno affermato l'obbligo della riassunzione delle prove dichiarative rilevanti nel caso dell'overruling di una sentenza di assoluzione di primo grado da parte del giudice di appello. Tuttavia altrettanto determinanti sono le motivazioni di natura organizzativa e di efficientamento della funzione giudiziaria nonché di tutela delle parti offese da forme di vittimizzazione.

Il punto di partenza sono i principi di oralità e immediatezza del processo che postulano il legame diretto tra la percezione del giudice e la formazione della prova. Può mutare il giudice ma il legame deve persistere.

Esemplare in tal senso è la sintesi contenuta nella sentenza SSUU Dasgupta secondo cui in ragione della natura del contraddittorio orale come «statuto cognitivo fondante del processo» in funzione del rispetto, in nessun altro modo efficacemente tutelabile, del principio dell'oltre ogni ragionevole dubbio. Il principio posto dal giudice nomofilattico è nitido: “nel modello di giudizio ordinario, "contraddittorio", "oralità", "immediatezza" nella formazione della prova e "motivazione" del giudice di merito sono entità strettamente correlate.”

Nell'ambito di tale visione il concetto di “percezione diretta”della prova è fondamentale in quanto «Dal lato del giudice… è il presupposto tendenzialmente indefettibile di una valutazione logica, razionale e completa”. Da qui il principio enunciato secondo cui “il giudice di appello, investito dalla impugnazione del pubblico ministero che si dolga dell'esito assolutorio di primo grado adducendo una erronea valutazione sulla concludenza delle prove dichiarative, non può riformare la sentenza impugnata nel senso dell'affermazione della responsabilità penale dell'imputato senza avere proceduto, anche d'ufficio, a norma dell'art. 603, comma 3, c.p.p., a rinnovare l'istruzione dibattimentale attraverso l'esame dei soggetti che abbiano reso dichiarazioni sui fatti del processo, ritenute decisive ai fini del giudizio assolutorio di primo grado».

L'elaborazione nomofilattica ha poi trovato la cristallizzazione normativa nella novella del comma 3-bis dell'art.603 c.p.p. introdotta dalla l. n. 103/2017.

La sentenza delle Sezioni Unite, come peraltro la successiva novella legislativa dell'art.603 c.p.p., ha originato un acceso dibattito che come sovente accade con le innovazioni riformatrici (delega Cartabia compresa) in cui puntualmente dilagano le lamentele le “gravi conseguenze” in termini di aggravio del lavoro dei magistrati, dipinte con toni catastrofistici. Nel caso di specie si è sottolineato il rischio di una dilatazione dei tempi di trattazione degli appelli da ascrivere alle necessarie rinnovazioni delle prove dichiarative.

La delega in esame con l'estensione delle registrazioni di interrogatori e deposizioni testimoniali sembra proprio tenere conto di queste obiezioni ma non è l'unica leva della riforma.

La tecnologia come strumento di percezione della prova dichiarativa: da Dasgupta a Bajrami

Un altro importante precedente giurisprudenziale che il legislatore ha certamente tenuto presente è la discussa sentenza Bajrami con cui le Sezioni Unite hanno riletto l'art. 525 c.p.p. (sent. 10 ottobre 2019, n. 41736).

La Cassazione invero ha letteralmente rimodellato il principio dell'immediatezza processuale stabilendo che il legame tra l'identità del giudice ed il processo penale possa trovare delle eccezioni limitando discrezionalmente l'obbligo di rinnovare l'assunzione della prova solo quando strettamente necessario ed adeguatamente motivato da chi ne faccia richiesta.

E dunque:

  • «l'avvenuto mutamento della composizione del giudice attribuisce alle parti il diritto di chiedere, ai sensi degli artt. 468 e 493 c.p.p. sia prove nuove sia la rinnovazione di quelle assunte dal giudice diversamente composto, in quest'ultimo caso indicando specificamente le ragioni che impongano tale rinnovazione, ferma restando la valutazione del giudice, ai sensi degli artt. 190 e 495 c.p.p., anche sulla non manifesta superfluità della rinnovazione stessa»;
  • «il consenso delle parti alla lettura ex art. 511, comma 2, c.p.p. degli atti assunti dal collegio in diversa composizione, a seguito della rinnovazione del dibattimento, non è necessario con riguardo agli esami testimoniali la cui ripetizione non abbia avuto luogo perché non chiesta, non ammessa o non più possibile».

Una pronuncia che ha suscitato vivaci polemiche ed accuse di straripamento istituzionale dei giudici: eppure in molti dimenticano che essa è stata preceduta da una sentenza della Corte Costituzionale (n. 132/2019) che apriva la strada alla Cassazione.

La Consulta invitò esplicitamente il Legislatore a superare la prassi in vigore, frutto anch'essa del diritto vivente che come noto richiedeva il consenso di tutte le parti processuali perché il giudice potesse utilizzare ai fini della decisione i verbali delle prove dichiarative già raccolte innanzi ad altro giudicante.

È interessante rilevare l'insolita durezza della Consulta secondo cui il principio di immediatezza – intesa come correlazione tra percezione della prova e tempi della decisione– costituisce ormai un “mero simulacro”, in ragione dell'abnorme durata dei processi e degli spazi intercorrenti tra le varie udienze che annullano la vividezza del ricordo.

È curioso che di ciò si siano dimenticati i molti critici: invece il legislatore non ha dimenticato le motivazioni della Corte Costituzionale ed ha previsto una specifica disposizione che cristallizzando nella videoregistrazione la testimonianza e l'esame consente di mantenere vivi gli effetti della percezione visiva.

Esiste dunque un filo rosso tra le diverse norme dei commi 8 e 11 che indicano come il legislatore punti decisamente sulla tecnologia come strumento utile a rafforzare i canoni del giusto processo ed a migliorarne la funzionalità.

È da vedere alla luce dell'esperienza fatta nell'ultimo drammatico anno come sarà concretamente tradotta la delega nello schema del processo penale.

“L'emergenza ordinaria” del processo penale: uno schema per il futuro

L'emergenza pandemica ha messo la sonnecchiante amministrazione giudiziaria di fronte alla inderogabile necessità di aprire finalmente al progresso tecnologico per consentire lo svolgimento dei servizi essenziali.

Di colpo è stato reso possibile l'uso delle mail e della posta certificata per il deposito degli atti, la visione dei fascicoli, la richiesta di copie. Un balzo in avanti che ai ritmi abituali di innovazione della P.A. avrebbe richiesto decenni.

Sono evidenti i vantaggi legati a tale forma di progresso che pur incontrando occasionali difficoltà di funzionamento e qualche pigrizia burocratica ha raccolto un diffuso consenso (con eccezione dei soliti nostalgici dell'epoca della carrozza a cavalli e dei lumi a petrolio, nonché delle persistenti sacche di analfabetismo informatico).

Ha invece incontrato forti resistenze nel mondo forense la cd. “remotizzazione” del processo penale, la possibilità di celebrare il processo penale in unità di tempo ma non di luogo.

La rappresentanza politica dell'avvocatura ha visto in tale novità l'ulteriore sviluppo di un processo degenerativo dei principi di oralità ed immediatezza intesi come diretta percezione della prova da parte del giudicante.

Il risultato è stato il varo di una normativa provvisoria nel d.l. n. 23/2020 il cui art. 83 (in vigore sino al 31 dicembre 2021) ha previsto un modello generale di “remotizzazione” del processo per i soli detenuti sia per la fase di merito che nei procedimenti di sorveglianza ed in generale anche durante la fase esecutiva.

Accanto a questa disposizione specifica una ulteriore norma varata in sede di conversione ha previsto la celebrazione “da remoto” come facoltà rimessa alla discrezionalità delle parti limitatamente però alle «udienze penali che non richiedono la partecipazione di soggetti diversi dal pubblico ministero, dalle parti private, dai rispettivi difensori e dagli ausiliari del giudice».

Più precisamente i commi 4 e 5 dell'art. 23 d.l. n. 137/2020 (intitolato Disposizioni per l'esercizio dell'attività giurisdizionale nella vigenza dell'emergenza epidemiologica da COVID-19), prevedevano, per il periodo emergenziale che le norme sul processo da remoto «… non si applicano alle udienze nelle quali devono essere esaminati testimoni, parti, consulenti o periti, nonché alle discussioni di cui agli articoli 441 e 523 del codice di procedura penale e, salvo che le parti vi consentano, alle udienze preliminari e dibattimentali».

A fronte di tali restrizioni amplissima invece è la facoltà concessa agli inquirenti di svolgere con modalità “a distanza” le indagini anche quando l'istruttoria preveda atti che coinvolgano le parti.

La disciplina palesa un'evidente incongruenza specie riguardo la restrizione degli atti da poter svolgere da remoto in dibattimento che esclude financo la volontà delle parti a fronte dell'ampia libertà concessa al pubblico ministero durante le indagini.

Si è voluta levare la libertà al difensore di poter scegliere come se di per sé stessa la scelta della tecnologia sia demoniaca per il diritto della difesa.

Con la legge 16 settembre 2021 di conversione del d.l. n. 105/2021, ulteriore proroga dell'emergenza infinita, peraltro, è stata cancellata la possibilità di celebrare da remoto le udienze penali che non riguardino soggetti detenuti («La partecipazione a qualsiasi udienza delle persone detenute, internate, in stato di custodia cautelare, fermate o arrestate, è assicurata, ove possibile, mediante videoconferenze o con collegamenti da remoto»). Il comma 5 dell'art. 23 d.l.n. 137/2020 infatti non è stato riproposto.

La tecnologia come minaccia e come opportunità

La sperabilmente prossima fine dell'emergenza, tuttavia, non segna la fine del processo “da remoto” che sopravvive nella Riforma Cartabia, nelle disposizioni contenute nei commi 8 ed 11 lett. e) dell'art. 1 (vedi supra)

A ben vedere, le stesse disposizioni che regolano come canone generale la video registrazione di interrogatori degli imputati e dei testi sembrano essere funzionali all'idea di un processo che possa ridursi all'esame di registrazioni e totalmente “dematerializzato” quanto al luogo di celebrazione.

Il comma 11 ha per espresso finalità quella di evitare la “rinnovazione” della prova nei casi di mutamento del collegio ma potrà essere utilizzata in via generale per realizzare pienamente la riforma richiesta dalla direttiva 2012/29/UE sulla tutela dei soggetti vulnerabili nel processo penale.

Con il d.lgs. 15 dicembre 2015, n. 212, che recepisce la direttiva nasce un nuovo soggetto processuale legato ad una nuova formulazione del concetto di vulnerabilità (art. 90-quater c.p.p.) ed alle modifiche normative che disciplinano la sua partecipazione “assistita” e “protetta” al processo contenute negli artt. 398 comma 5-quater c.p.p. per ciò che concerne l'incidente probatorio e 498 comma 4-quater, c.p.p. per il dibattimento.

La “persona offesa che versa in condizione di particolare vulnerabilità” è definizione che consente un'applicazione estensiva di tali tutele, le stesse previste per i soggetti minori ed infermi e per tutti coloro già contemplati nell'art. 392 c.p.p.

Tale procedura tutelata potrà ricevere nuovo impulso dall'adozione delle tecniche che consentiranno l'impiego diffuso di audio visivi nel processo penale come fonte di prova testimoniale che potrà evitare l'obbligo di rinnovazioni sia ai sensi del 525 c.p.p. che del 603 c.p.p. ed in generale il rischio della temuta “vittimizzazione secondaria” lo stress legato alla partecipazione al processo dei soggetti deboli.

La soppressione del comma 5 dell'art.23 del d.l.n. 137/2020 ed il varo della nuova normativa legata alla delega governativa elimina il confine invalicabile che sottraeva al processo da remoto il contraddittorio processuale.

Salvo una rigorosa delimitazione e sia pure “con il consenso delle parti” la remotizzazione totale del dibattimento sarà possibile.

Non necessariamente questo comporterà la diminuzione delle garanzie, se si subordinasse il ricorso alla tecnologia al consenso delle parti: non credo possa ritenersi legittimo invece il divieto assoluto di ricorrervi per singoli specifici atti. La video-registrazione dell'evento costituisce garanzia che il giudice possa valutare la spontaneità e libertà delle dichiarazioni.

Semmai l'obbligo che l'esame del testimone avvenga in presenza può essere dettato dalla necessità di tutelarne la genuinità contro possibili forme di condizionamento.

Deve essere chiaro che l'uso delle tecnologie deve portare con sé un miglioramento per ciò che concerne l'efficienza della giustizia soprattutto con riguardo ai tempi di durata dei processi.

In conclusione

Il vero leit-motiv della riforma, la riduzione dei tempi senza il sacrificio dei principi del giusto processo.

Un tema va levato dal tavolo: quello della dubbia costituzionalità del processo a distanza, su cui è intervenuta la Consulta quando fu investita della legittimità dell'art 147-bis disp. att. c.p.p., modificato dal d.l. 8 giugno 1992 n. 306, convertito con modifiche nella l. 7 agosto 1992 n. 356.

Con la sentenza 342/1999 la Corte pur riconoscendo la delicatezza del problema e la sua eccezionalità, ha concluso che la modalità a distanza del processo è legittima e non va confusa col diritto a presenziare dell'imputato e la tutela del principio immediatezza.

Essi possono essere soddisfatti con le«modalità tali da rendere “effettiva”, e dunque concreta e non soltanto “virtuale”, la possibilità di percepire e comunicare, così saldando intimamente fra loro le potenzialità ed i perfezionamenti sempre offerti dalla tecnica alle esigenze di un “realismo partecipativo” che non può non ritenersi, in sé, del tutto in linea con gli strumenti che l'ordinamento deve necessariamente mettere a disposizione per consentire un adeguato esercizio del diritto di difesa nella fase del dibattimento».

Dunque una tecnologia che consenta il “realismo partecipativo” tutela ampiamente il diritto di difesa consentendo la comunicazione tra il difensore e l'assistito e l'immediata percezione visiva di ciò che accade in aula.

A tale proposito già oggi è possibile vedere come viene utilizzata la riproduzione visiva tramite ologrammi che sarà presto abituale, rifugiarsi nelle difficoltà tecniche non sarà presto un argomento valido per opporsi all'uso della tecnologia nel processo.

Va accolta positivamente invece la decisione di rimettere alla concorde volontà delle parti l'uso del mezzo tecnico: francamente la limitazione posta dal comma 5 dell'art.23 dl 137/20 suonava come sfiducia verso l'autonomia del difensore ed il fatto che fosse sollecitata dalle associazioni forensi stupiva non poco.

Una cosa è certa: il successo della riforma Cartabia, vale a dire di una iniziativa legislativa di indubbio tenore riformista come da tempo non si registrava, richiede l'attiva partecipazione anche degli avvocati con la loro capacità di favorire le migliori soluzioni pratiche.

Il ricorso alla tecnologia con il rispetto dei principi del diritto di difesa non è materia di fronte alla quale il difensore possa porsi come un passivo spettatore o peggio ancora come un ostacolo.

(Fonte: Il Penalista)

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