Riforma del processo penale: le direttive di intervento in materia di indagini preliminari e udienza preliminare

08 Ottobre 2021

La legge 27 settembre 2021, n. 134, nel dettare i criteri della delega al Governo per l'implementazione dell'efficienza del processo penale, rivolge particolare attenzione alle indagini preliminari ed all'udienza preliminare, nelle pieghe della cui disciplina vengono individuate fasi scarsamente definite nelle loro cadenze temporali. In tal senso il legislatore interviene sul momento genetico del procedimento, ossia l'iscrizione della notizia di reato, sulla durata delle indagini e sui tempi della valutazione del loro esito da parte del titolare dell'azione penale...
Abstract

La legge 27 settembre 2021, n. 134, nel dettare i criteri della delega al Governo per l'implementazione dell'efficienza del processo penale, rivolge particolare attenzione alle indagini preliminari ed all'udienza preliminare, nelle pieghe della cui disciplina vengono individuate fasi scarsamente definite nelle loro cadenze temporali. In tal senso il legislatore interviene sul momento genetico del procedimento, ossia l'iscrizione della notizia di reato, sulla durata delle indagini e sui tempi della valutazione del loro esito da parte del titolare dell'azione penale. Allo stesso tempo, con evidenti intenti deflattivi, la riforma progettata giunge peraltro a modificare la stessa regola di giudizio della richiesta di archiviazione e dell'udienza preliminare incidendo potenzialmente sulla stessa struttura del modello processuale.

La “nuova” regola di giudizio per la rinunzia all'esercizio dell'azione penale e per la sentenza di non luogo a procedere

Il legislatore ha individuato nell'attuale disciplina delle indagini preliminari e dell'udienza preliminare, così come declinata in sede applicativa, una delle principali cause dell'inefficienza del vigente statuto del processo.

Nel comma 9 dell'art. 1 la legge 27 settembre 2021, n. 134 detta, dunque, una serie di direttive tese a risolvere le criticità rilevate, cercando altresì di implementare in corrispondenza di alcuni snodi della fase procedimentale le garanzie difensive. In realtà il disegno riformatore si rivela ben più ambizioso, giungendo a progettare un radicale ripensamento dei parametri per l'esercizio dell'azione penale e della regola di giudizio che governa la sentenza di non luogo a procedere, nonché una diversa e tutt'altro che neutra distribuzione del carico dibattimentale tra giudice monocratico e giudice collegiale, finendo per immaginare un diverso assetto tra le fasi del processo e, in definitiva, un modello assai diverso da quello dell'impianto codicistico originario, nel quale la verifica dibattimentale dell'accusa dovrebbe assumere il carattere dell'eccezionalità.

In questa sede non è possibile ripercorrere lo sterminato dibattito che ha accompagnato la gestazione ed il varo del codice del 1988, così come le “mutazioni genetiche” che ha subito nella prassi applicativa o a seguito dello stillicidio di modifiche legislative succedutesi in oltre trent'anni dalla sua entrata in vigore. Certo è che l'idea originaria (quasi un “mito fondatore”) di una indagine preliminare agile e contenuta nei tempi in contrapposizione alla centralità del dibattimento, quale luogo deputato fisiologicamente all'accertamento dell'innocenza o della colpevolezza dell'imputato sulla base di un compendio probatorio formato in quella sede nel contraddittorio delle parti, si è rapidamente ridimensionata nella realtà applicativa, per ragioni varie e ben note e solo in parte attribuibili ai (presunti) limiti dell'impianto normativo.

La inarrestabile proliferazione del numero dei procedimenti e gli endemici limiti strutturali degli uffici giudiziari chiamati a smaltirlo hanno progressivamente rivelato l'inconciliabilità nei fatti tra ispirazione ideale e realtà, ma soprattutto l'insostenibilità del continuo ricorso a correttivi contingenti legati ad interventi legislativi settoriali privi di una visione sistematica o, peggio, all'elaborazione di prassi applicative distorsive ed in continua tensione con i principi costituzionali e convenzionali.

Nella ricerca di un nuovo equilibrio “sostenibile”, il legislatore delegante ha dunque ritenuto necessario agire anzitutto sul momento genetico della fase processuale, con l'evidente obiettivo di contenere quantomeno il numero dei procedimenti che a tale fase approdano. Per raggiungerlo ha elevato a principio informatore delle scelte del titolare dell'azione penale quello del processo non solo “non superfluo”, bensì anche “utile” in quanto funzionale alla condanna dell'imputato.

In tal senso la direttiva contenuta nella lett. a) del citato comma 9 prevede la modifica della “regola di giudizio” per la presentazione della richiesta di archiviazione, imponendo al pubblico ministero l'inazione quando l'esito delle indagini preliminari non consenta «una ragionevole previsione di condanna». Simmetricamente, per la lett. m) dello stesso comma, la prevedibilità della condanna dovrà costituire il criterio cui commisurare anche la regola di giudizio dell'udienza preliminare.

Le norme destinate ad essere modificate nell'esecuzione della delega sono, rispettivamente, l'art. 125 disp. att. e l'art. 425 comma 3 c.p.p., che attualmente parametrano, come noto, le decisioni del titolare dell'azione penale e del giudice dell'udienza preliminare all'inidoneità degli elementi acquisiti a sostenere l'accusa in giudizio.

Va subito ricordato come la scelta del legislatore non costituisce un assoluto inedito. La primitiva formulazione dell'art. 125 disp. att. – in allora art. 115 del progetto preliminare – prevedeva anch'essa, infatti, che il pubblico ministero sollecitasse l'archiviazione quando riteneva «che gli elementi acquisiti nelle indagini preliminari non sarebbero sufficienti al fine della condanna degli imputati». In proposito da più parti erano stati sollevati dubbi sull'attribuzione al pubblico ministero di una valutazione che costituisce invero l'oggetto proprio del giudizio, per di più sulla base del materiale probatorio acquisito nel dibattimento, nonché senza considerare la possibilità che la piattaforma venisse integrata dallo stesso pubblico ministero ovvero dal giudice dell'udienza preliminare successivamente all'esercizio dell'azione penale. Inoltre ulteriori perplessità erano sorte in merito alla netta divaricazione delle regole adottate, rispettivamente, ai fini dell'archiviazione ed ai fini della sentenza di non luogo a procedere - la quale ultima nell'originaria configurazione dell'art. 425 c.p.p., come pure noto, prevedeva addirittura l'evidenza della non responsabilità dell'imputato – nonché in merito alla conciliabilità della prognosi di condanna con il contenuto della direttiva n. 50 della legge delega del 1987, la quale ancorava l'inazione al presupposto della manifesta infondatezza della notizia di reato e, più in generale, non rivelava alcuna intenzione di strumentalizzare l'archiviazione al perseguimento di «obiettivi di economia processuale» (v. Corte Cost. sent. n. 88 del15 febbraio 1991).

Il testo originario del disegno di legge delega – forse con l'intento di prevenire analoghe obiezioni – aveva cercato di sfumare l'intervento sulla regola di giudizio, ancorandola all'acquisizione di elementi insufficienti, contraddittori o che comunque inidonei a consentire una ragionevole previsione di accoglimento della prospettazione accusatoria in giudizio. Circonlocuzione che - non senza una certa ipocrisia - evitava qualsiasi riferimento diretto alla prognosi di condanna, ma di cui già la Relazione illustrativa disvelava l'effettivo significato, facendo espresso riferimento a quest'ultima.

Come già ricordato, il testo infine approvato ha dunque sciolto ogni residuo dubbio sulla effettiva volontà del legislatore e - recependo le conclusioni in proposito rassegnate dalla Commissione Lattanzi incaricata dal Ministro della Giustizia nel corso dell'iter parlamentare della legge di redigere le proposte di emendamento all'originario progetto – ha in qualche modo riesumato il testo del menzionato art. 115 del Progetto preliminare del codice, ponendo la prevedibilità della condanna a criterio di selezione dei procedimenti che devono approdare al giudizio dibattimentale.

Rispetto alla proposta elaborata dalla citata Commissione - che più perentoriamente indirizzava verso l'inazione quando gli elementi acquisiti non fossero stati «tali da determinare la condanna» - la formula definitivamente adottata dalle lett. a) e m) del comma 9 risulta però più articolata, richiedendo, come accennato, una “ragionevole previsione di condanna”.

Tale formula non è priva di autosufficienza e quindi non necessariamente il legislatore delegato dovrà declinarla ulteriormente. L'accento è stato infatti posto sul carattere prognostico, più che diagnostico, della valutazione rimessa al titolare dell'azione penale, che proprio per questo promette di tradursi, però, in sede applicativa in qualcosa di non molto dissimile da quella che già il titolare dell'azione è chiamato a svolgere attualmente sulla base del vigente testo dell'art. 125 disp. att., rendendo quantomeno incerto l'effettivo raggiungimento dell'effetto deflattivo perseguito attraverso la riforma. È sì vero che il pubblico ministero non è apparentemente chiamato a valutare soltanto l'astratta non superfluità del processo, bensì la sua concreta possibilità di tradursi nella condanna dell'imputato, ma va da sé che la concretezza di tale prognosi sfuma nella necessità che la stessa risulti ragionevole e nell'inevitabile insindacabilità dell'eventuale scelta di optare comunque per la richiesta di rinvio a giudizio.

In definitiva il legislatore certifica in sede normativa il mutamento che nel tempo il rapporto tra le diverse fasi processuali ha subito di fatto, rivelando di considerare in un'ottica efficientista (ma anche garantista) comunque non sostenibile il favor actionis tradizionalmente evocato nella narrativa sul processo.

Quanto alla compatibilità della nuova regola con l'art. 112 Cost., già la Commissione Lattanzi aveva cercato di fugare i relativi dubbi, ricordando come il principio di obbligatorietà dell'azione penale venga comunque garantito dal controllo giurisdizionale sulla prognosi effettuata dal pubblico ministero, così come dalla possibilità per quest'ultimo di chiedere successivamente la riapertura delle indagini. Argomentazioni condivisibili e probabilmente sufficienti ad allentare le paventate tensioni con il principio richiamato, a maggior ragione alla luce della versione “attenuata” infine adottata dal legislatore del parametro di riferimento della valutazione di cui viene onerato il titolare dell'azione penale.

Il non detto, naturalmente, è che la “ragionevole previsione di condanna” quale spartiacque tra azione ed inazione presuppone una rigorosa attuazione da parte del titolare dell'azione penale del principio di completezza delle indagini, così come configurato dalla giurisprudenza costituzionale (v. ex multis Corte Cost. n. 88 del 1991, cit. e Corte Cost. n. 115 del 7 maggio 2001).

Semmai qualche perplessità genera allora la contestuale imposizione nella lett. t) del comma 9 dell'elaborazione di «criteri più stringenti» per l'adozione del provvedimento di riapertura delle indagini. Al di là della eterea genericità di tale direttiva – che lascia al legislatore delegato amplissimi margini di interpretazione – è evidente che un ridimensionamento eccessivo dell'istituto di cui all'art. 414 c.p.p. potrebbe amplificare i dubbi sulla complessiva tenuta costituzionale del nuovo canone della richiesta di archiviazione.

Da ultimo una riflessione a parte merita la rimodulazione anche della regola di giudizio della sentenza di non luogo a procedere. L'ampliamento dell'orizzonte decisorio del giudice dell'udienza preliminare potrebbe infatti avere un impatto maggiore, atteso che questi è chiamato a compiere le proprie valutazioni anche sulla base delle deduzioni della difesa e gli è consentito, ai fini della verifica della tenuta dibattimentale dell'ipotesi accusatoria, procedere eventualmente all'integrazione della piattaforma cognitiva attivando i poteri attribuitigli dagli artt. 421-bis e 422 c.p.p.

In altri termini, la riforma dell'art. 425 comma 3 c.p.p. potrebbe restituire, almeno in parte, all'udienza preliminare quella effettiva funzione di filtro prevista dall'impianto codicistico originario. Ma è un risultato al quale, pur auspicandolo, lo stesso legislatore delegante sembra in realtà non credere appieno, visto che – come si dirà più diffusamente in seguito – allo stesso tempo ha previsto un ampliamento del rito a citazione diretta con contestuale riduzione dei casi in cui l'udienza preliminare deve essere celebrata. E nello stesso senso depone altresì la scelta di ridimensionare in maniera solo marginale il potere del pubblico ministero di appellare la sentenza di non luogo a procedere, versante sul quale la legge delega avrebbe forse potuto “osare” maggiormente.

I termini di durata delle indagini preliminari

La legge delega articola poi una serie di direttive tese a razionalizzare ed accelerare lo sviluppo procedimentale nelle fasi che precedono il giudizio.

Anzitutto le lett. c) e d) del comma 9 configurano una rimodulazione della disciplina dei termini di durata delle indagini previsti dagli artt. 405 e 406 c.p.p. In tal senso viene previsto che quello ordinario relativo ai procedimenti per le contravvenzioni dovrà avere la durata di sei mesi, termine che diventa di un anno qualora si proceda invece per un delitto, salvo che si tratti di uno di quelli elencati nel secondo comma dell'art. 407 c.p.p., per i quali lo stesso termine viene elevato ad un anno e sei mesi. Per contro, pur conservando la possibilità per il pubblico ministero di chiedere la proroga dei suddetti termini prima della loro scadenza, viene stabilito che questa possa essere concessa una sola volta per un periodo non eccedente i sei mesi e solo se giustificata dalla complessità delle indagini.

In definitiva, salvo che per le contravvenzioni - per le quali la durata delle indagini, tenuto conto dell'eventuale proroga, non potrà complessivamente superare un anno invece dei diciotto mesi attualmente cumulabili -, non vengono modificati i termini massimi previsti dalla disciplina vigente, dei quali è stata conservata anche la geometria variabile in relazione ad alcune tipologie di reato. Formalmente, infatti, il legislatore si è limitato ad allungare il termine ordinario (che ora, come noto, è di un anno per i delitti previsti dal citato secondo comma dell'art. 407 c.p.p. e di sei mesi per tutti gli altri) e contestualmente ad abbreviare complessivamente quello che può essere lucrato attraverso il meccanismo delle proroghe proroga (che nell'assetto normativo vigente possono essere richieste dal pubblico ministero più volte fino ad ottenere, rispettivamente, il raddoppio o la triplicazione dei termini ordinari sopra ricordati).

In realtà la progettata riorganizzazione dei tempi dell'indagine non è priva di conseguenze.

La decisione di allungare il termine ordinario viene giustificata nella Relazione illustrativa con l'esigenza di garantire una maggiore concentrazione e tempestività dell'attività investigativa, eliminando al contempo la dilatazione dei tempi processuali determinata dalla reiterazione delle proroghe, che la Commissione Lattanzi si è spinta ad etichettare come «farraginosa e poco trasparente». Espressioni che sembrano nascondere più che altro la presa d'atto da parte del legislatore del frequente ricorso da parte degli uffici di procura al meccanismo della proroga, ma non delle cause del fenomeno e cioè le endemiche difficoltà che gli stessi uffici incontrano nella gestione dei volumi delle notizie di reato.

Singolarmente né la Relazione illustrativa, né quella redatta dalla citata Commissione valutano l'impatto che la ridistribuzione dei tempi, così come congeniata, determina sulla funzione di garanzia della stessa previsione di un termine di durata delle indagini, ossia quella di «contenere in un lasso di tempo predeterminato la condizione di chi a tali indagini è assoggettato» (v. Corte Cost. sent. n. 174 del 2 aprile 1992). Il raddoppio del termine ordinario originariamente stabilito dai codificatori rappresenta infatti un indubitabile allentamento di tale garanzia, solo in parte controbilanciata dalla direttiva contenuta nella lett. s) del comma 9, con la quale la legge delega ha inteso sterilizzare gli eventuali effetti pregiudizievoli sul piano civile e amministrativo conseguenti all'iscrizione della notizia di reato e la cui effettiva portata potrà essere peraltro valutata solo alla luce di come il legislatore delegato saprà tradurla in termini concreti.

L'allungamento dei termini ordinari prolunga poi il tempo in cui l'indagato, in assenza del compimento di atti garantiti, può rimanere all'oscuro della pendenza di un procedimento a suo carico, vedendo dunque differito rispetto al passato il momento in cui questi viene posto nelle condizioni di attivarsi per predisporre le proprie difese e vede instaurarsi il contraddittorio sulla eventuale richiesta di proroga.

Nell'ottica del pubblico ministero va invece osservato come la riforma formalmente non incide sulla durata massima delle indagini preliminari per i delitti; peraltro, consentendo la proroga del termine ordinario nella sola ipotesi in cui questa risulti giustificata dalla complessità degli accertamenti investigativi, in concreto il nuovo assetto promette di tradursi in una riduzione del tempo complessivo a disposizione dell'inquirente.

In realtà le due direttive in esame non menzionano nemmeno i termini di durata massima delle indagini preliminari fissati nei primi due commi dell'art. 407 c.p.p. Il silenzio sul punto sembra trovare naturale spiegazione nel fatto che, essendo stata prevista la possibilità di prorogare una sola volta i termini ordinari, il calcolo di quelli massimi è automaticamente determinato dall'entità della proroga, che, come già ricordato, non potrà essere comunque superiore ai sei mesi.

Logica vorrebbe, dunque, che in sede di attuazione della delega si debba procedere all'abrogazione dei citati commi, posto che nel sistema vigente la stessa previsione di un termine massimo si è resa necessaria in conseguenza della possibilità per il pubblico ministero di ottenere un numero formalmente indefinito di proroghe. Abrogazione che non è però facilmente ipotizzabile, quantomeno per quel che riguarda il secondo comma dell'art. 407, il quale contiene l'elenco delle ipotesi per le quali le indagini possono durare complessivamente due anni e che è divenuto però nel tempo il riferimento per definire l'ambito di applicazione anche di altre discipline, come, ad esempio, quelle relative ai termini di custodia cautelare (artt. 303 comma 1, lett. a) n. 3 e lett. b) n. 3-bis, e 304 comma 2 c.p.p.) ed alla recidiva (art. 99 comma 5 c.p.).

Peraltro è la stessa lett. c) del comma 9 ad evocare direttamente tale disposizione, dimostrando che nelle intenzioni del legislatore la stessa dovrebbe sopravvivere, ancorché la sua funzione originaria sia destinata ad evaporare. Si tratta comunque di un'aporia rimediabile in sede di attuazione della delega, ad esempio trasferendo il citato elenco direttamente nel secondo comma dell'art. 405 c.p.p., dove sono configurati i termini ordinari in riferimento alle diverse tipologie di reato e provvedendo ai necessari interventi di coordinamento nelle norme che vi fanno riferimento.

Al legislatore delegato spetterà in ogni caso stabilire l'esatta latitudine del rinvio che la citata direttiva opera all'art. 407 comma 2, al fine di individuare i casi nei quali la durata del termine ordinario dovrà essere effettivamente allungato a diciotto mesi. Infatti la formula adottata nella legge delega fa riferimento ai procedimenti per «taluno dei delitti» indicati in tale comma, che però attualmente elenca (alle lett. b), c) e d)) anche alcune ipotesi in cui l'estensione della durata delle indagini viene consentita non già in ragione del titolo del reato per cui si procede, bensì della ritenuta complessità di accertamento della notizia di reato ovvero della necessità di compiere atti d'indagine all'estero o, ancora, dell'indispensabilità di attivare indagini collegate tra più uffici del pubblico ministero. In tali ipotesi, secondo la disciplina vigente, anche nei procedimenti per cui il termine ordinario è quello di sei mesi, è dunque possibile dilatare la durata delle indagini preliminari fino a due anni attraverso il meccanismo della pluralità delle proroghe, che peraltro contestualmente consente all'indagato di verificare preventivamente la sussistenza dell'effettiva ricorrenza degli specifici presupposti per la loro concessione.

Va da sé che una lettura rigorosamente aderente al tenore letterale della direttiva non consentirebbe di considerare tali ipotesi ai fini dell'individuazione dei casi nei quali si applica il termine ordinario “allungato” previsto dal n. 2 della lett. c) del comma 9, potendosi al più ipotizzare il “recupero” delle medesime in sede di attuazione della direttiva di cui alla successiva lett. d) ai fini della definizione di quella «complessità delle indagini» che giustifica la concessione della proroga. Ma anche in tal caso dall'impossibilità di prolungare il termine più di una volta deriva che, qualora quello ordinario sia di un anno, i tempi globalmente concessi per le indagini particolarmente complesse a causa della molteplicità dei reati o l'elevato numero di indagati ovvero perché comportano rogatorie all'estero, risulteranno comunque inferiori a quelli previsti dalla disciplina vigente.

Sul punto deve infine essere evidenziato che le due direttive in esame non menzionano la speciale proroga delle indagini preliminari che, tanto il pubblico ministero quanto l'indagato, possono richiedere ai sensi dell'art. 392 comma 4 c.p.p. per garantire l'utile espletamento dell'incidente probatorio. Sembra dunque potersi affermare che la citata disposizione sia destinata a sopravvivere al futuro intervento riformatore come deroga alla disciplina generale dei termini delle indagini.

I termini per l'esercizio dell'azione penale

L'attenzione del legislatore delegante si è poi concentrata su quello che, non da ora, viene additato come uno dei momenti critici nella gestione dei tempi processuali, ossia quello in cui il pubblico ministero assume le proprie determinazioni in ordine all'esercizio dell'azione penale ovvero all'inazione una volta concluse le indagini.

I codificatori non avevano scandito specificamente la tempistica di tale decisione, dando sostanzialmente per scontato che questa dovesse seguire, senza apprezzabili cesure temporali, l'esaurimento dell'attività investigativa ed in realtà prevedendo che questa dovesse intervenire entro i termini massima di durata delle indagini preliminari, come rivela il testo originario degli artt. 405 comma 2 e 412, comma 1 c.p.p. In realtà l'ambigua formulazione delle disposizioni testé citate è stata interpretata dalla giurisprudenza e dalla stessa dottrina nel senso della validità della richiesta di rinvio a giudizio o di quella di archiviazione anche se formulate successivamente al decorso dei termini fissati per le indagini preliminari, dovendosi escludere l'ipotesi che alla persistente inattività del pubblico ministero possa conseguire una qualche forma di decadenza dall'azione, che risulterebbe irrimediabilmente in contrasto con il principio di obbligatorietà di cui all'art. 112 Cost. (ex multis Cass., sez. VI, 20 marzo 2009, n. 19833, CED 243839).

L'assenza di stringenti vincoli normativi si è tradotta nella realtà applicativa nella sostanziale incertezza dei tempi in cui il pubblico ministero valuta gli esiti delle indagini preliminari ed assume le proprie determinazioni, determinando conseguentemente la possibile dilatazione incontrollata della durata complessiva della fase procedimentale (quando non addirittura la sua stasi), mentre il rimedio formalmente costituito dall'esercizio da parte del procuratore generale del potere di avocazione previsto già nel testo originario del primo comma dell'art. 412 c.p.p. è risultato in sede applicativa un'arma scarsamente efficace. Il fenomeno si è poi acuito a seguito dell'introduzione nel 1999 dell'art. 415-bis c.p.p., che, sotto questo profilo, ha sostanzialmente duplicato gli spazi di “riflessione” del titolare dell'azione penale.

Con la c.d. riforma Orland” (l. 23 giugno 2017, n. 103) si è cercato comunque di riassorbire quello che rischia di costituire solo un “tempo morto” dello sviluppo procedimentale. In tal senso, nel comma 3-bis dell'art. 407 c.p.p., è stato configurato un inedito termine perentorio (tre mesi dalla scadenza di quello delle indagini preliminari, quindici nei procedimenti per alcuni dei reati indicati nel secondo comma dello stesso art. 407) entro il quale il pubblico ministero è tenuto ad esercitare l'azione penale o richiedere l'archiviazione. Il legislatore ha poi cercato di rendere effettiva la perentorietà del nuovo termine riproponendo l'intervento surrogatorio del procuratore generale che, spogliando il pubblico ministero del procedimento, è tenuto a formulare entro trenta giorni le richieste che segnano il termine della fase preliminare.

In definitiva la riforma del 2017 ha finito per configurare una vera e propria fase procedimentale autonoma che i codificatori non avevano realmente identificato come tale, istituzionalizzando quello spazio di valutazione delle risultanze delle indagini che i pubblici ministeri si erano – per certi versi inevitabilmente - ritagliati nella prassi applicativa. Quel legislatore si è peraltro dovuto rassegnare a (ri)mettere in campo strumenti macchinosi per rimediare alla persistente inerzia del titolare dell'azione penale; rimedi la cui efficacia continua ad apparire tutt'altro che risolutiva, anche alla luce dei persistenti dubbi sul reale carattere obbligatorio dell'esercizio del potere di avocazione nel caso previsto dal citato primo comma dell'art. 412.

La legge delega interviene nuovamente sul punto promuovendo l'introduzione di una disciplina più articolata.

La lett. e) del comma 9 conferma la necessaria previsione di un termine entro il quale il pubblico ministero è tenuto a compiere le proprie determinazioni una volta decorso quello per le indagini preliminari. Termine che la novella non ha quantificato, rimettendo al legislatore delegato la decisione se confermare o meno quello già precedentemente fissato nel 2017, ma imponendogli comunque di modularli diversamente in ragione della gravità del reato ed anche della complessità delle indagini preliminari.

La direttiva sembra invero voler confermare la disciplina vigente. In realtà nelle pieghe della sua formulazione emerge il silenzio sulla possibilità che il termine assegnato al pubblico ministero possa essere prorogato – come invece prevede ora l'art. 407 comma 3-bis c.p.p. –, silenzio che potrebbe essere interpretato come un implicito invito al legislatore delegato ad eliminare tale opzione. Conclusione che potrebbe trovare un ancoraggio proprio nell'indicazione di modulare il suddetto termine anche in ragione della complessità delle indagini svolte, che attualmente costituisce invece proprio il parametro affidato al procuratore generale per concedere la sua proroga.

Più innovativa è invece la disposizione contenuta nella successiva lett. f), che impone la configurazione di «idonei meccanismi procedurali» volti a consentire all'indagato ed alla persona offesa che ne abbia fatto richiesta di prendere cognizione degli atti d'indagine a fronte della persistente inerzia del pubblico ministero dopo la scadenza del termine di cui alla lett. e). In tal modo al pubblico ministero viene imposta una sorta di discovery anticipata a seguito di un'inedita interazione con le parti private in una fase da cui finora queste ultime erano sostanzialmente escluse.

La delega non ha posto particolari vincoli al legislatore delegato nella configurazione dei citati “meccanismi procedurali”, se non quello di bilanciare il diritto di accesso agli atti delle parti private con l'esigenza di tutelare il segreto investigativo nei procedimenti per i reati elencati nell'art. 407 c.p.p. e con quelle individuate dall'art. 7, § 4, della direttiva 2012/12/UE del 22 maggio 2012 sul diritto all'informazione nei procedimenti penali, disposizione che consente di limitare l'accesso alla documentazione dell'indagine qualora «possa comportare una grave minaccia per la vita o per i diritti fondamentali di un'altra persona o se tale rifiuto è strettamente necessario per la salvaguardia di interessi pubblici importanti, come in casi in cui l'accesso possa mettere a repentaglio le indagini in corso, o qualora possa minacciare gravemente la sicurezza interna dello Stato membro in cui si svolge il procedimento penale».

In realtà la generica formulazione della direttiva è il frutto della modifica in sede parlamentare di quella originariamente proposta nel D.D.L., la quale prevedeva più specificamente l'obbligo per il pubblico ministero di notificare all'indagato ed alla persona offesa l'avviso dell'avvenuto deposito degli atti relativi all'indagine preliminare una volta non rispettati i termini per l'esercizio dell'azione penale, nonché della loro facoltà di prenderne visione e di estrarne copia.

La novità più importante introdotta dalla delega è comunque quella contenuta nella lett. g) del comma 9, il quale prevede l'intervento del giudice delle indagini preliminari per ovviare alla stasi del procedimento e garantire così l'effettività del termine imposto al pubblico ministero. Anche in questo caso al legislatore delegato è stata lasciata ampia libertà nel congegnare le modalità del suddetto intervento, ma la lettera della disposizione citata è inequivocabile nel richiedere che questo debba essere risolutivo, posto che il giudice deve “rimediare” alla situazione di stallo venutasi a creare.

In tal senso è ipotizzabile che in sede di attuazione della delega la scelta possa essere quella di configurare un intervento surrogatorio del giudice, ispirato a quello disciplinato dal quinto comma dell'art. 409 c.p.p. nel caso del mancato accoglimento della richiesta di archiviazione. È peraltro evidente che in questo caso quella affidata al giudice non sarebbe una mera verifica giudiziale della legalità dell'inazione, ma la vera e propria sostituzione del giudice al pubblico ministero nella scelta tra azione e inazione, ossia una più marcata assunzione del ruolo riservato nell'assetto processuale a quest'ultimo.

Una soluzione di tal genere ovviamente susciterebbe più di qualche dubbio sulla possibile convivenza tra il potere del giudice e quello di avocazione del procuratore generale ed imporrebbe una riflessione sull'opportunità di abrogare il primo comma dell'art. 412 c.p.p. Operazione probabilmente praticabile sfruttando la clausola estensiva contenuta nel terzo comma dell'art. 1 della legge, visto che l'istituto in questione non rientra direttamente nell'oggetto della delega.

È possibile, naturalmente, immaginare anche soluzioni diverse, che non comportino il definitivo esautoramento del titolare dell'azione penale, magari coinvolgendo proprio il ruolo del procuratore generale. In tal caso, però, appare più problematico garantire il carattere risolutivo dell'intervento del giudice, sussistendo il rischio anzi di innescare, in una sorta di eterogenesi dei fini, una farraginosa procedura destinata ad allungare i tempi processuali anziché abbreviarli.

Certo è che il legislatore, alla luce della riflessione compiuta in proposito dalla Commissione Lattanzi, ha deciso di affidare l'effettività della tempestiva assunzione delle determinazioni finali del titolare dell'azione a strumenti esclusivamente endoprocessuali, abbandonando l'impostazione originaria del D.D.L., nel quale, invece, il rispetto dei termini di questa fase veniva presidiato soltanto attraverso la previsione di uno specifico illecito disciplinare a carico del pubblico ministero negligente. Soluzione che in realtà è apparsa non altrettanto efficace rispetto a quella poi adottata - non costituendo un effettivo rimedio alla situazione di stallo del singolo procedimento - e comunque ridondante, visto che il colpevole ritardo nel compimento degli atti relativi all'esercizio della funzione già integra l'illecito disciplinare di cui all'art. 2 lett. q) del d. lgs. 109/2006.

Infine la lett. h) del comma 9 prevede l'introduzione di analoghi meccanismi per porre rimedio anche all'eventuale stasi del procedimento successiva alla notifica dell'avviso di conclusione delle indagini preliminari. In tal senso la delega si è nuovamente mossa nel solco della riforma del 2017, che già aveva espressamente imposto al pubblico ministero di esercitare l'azione o richiedere l'archiviazione decorsi tre mesi dalla scadenza anche dei termini previsti dall'art. 415-bis c.p.p., prevedendo pure in questo caso l'intervento surrogatorio del procuratore generale. In realtà la direttiva evoca genericamente la “notifica” dell'avviso come riferimento temporale dello stallo al quale l'intervento normativo dovrà porre rimedio, ma non sembra seriamente dubitabile che il legislatore delegato dovrà tenere conto dei termini assegnati all'indagato per formulare le proprie richieste ed al pubblico ministero per svolgere le indagini di cui all'art. 415-bis comma 4 c.p.p.

L'iscrizione della notizia di reato

L'ultimo segmento delle indagini preliminari sul quale interviene la delega è quello relativo al momento che ne segna l'inizio, ossia l'iscrizione nell'apposito registro della notizia di reato ed eventualmente del nominativo di colui a cui quest'ultimo viene attribuito.

Come noto la ricezione da parte della Procura della Repubblica di un atto che può contenere una notizia di reato non determina l'automatico avvio di un procedimento penale. Infatti l'art. 109 disp. att. c.p.p. riserva al pubblico ministero il compito di verificarne l'effettivo contenuto e di disporne l'iscrizione nel registro previsto dall'art. 335 c.p.p. piuttosto che in uno degli altri istituiti a norma dell'art. 2 del d.m. 30 settembre 1989, n. 334.

Sin dall'entrata in vigore del codice del 1988 tale disciplina è stata oggetto di critica, anche in ragione dell'immediata instaurazione in sede applicativa di prassi evidentemente distorsive della ratio del sistema normativo di riferimento (in proposito si veda ad esempio la Circolare del Direttore generale della Giustizia Penale del 21 aprile 2011).

In tal senso ad essere censurata è stata anzitutto la mancata previsione di parametri oggettivi normativamente predefiniti in grado di limitare la discrezionalità del pubblico ministero nella selezione delle “notizie di reato” e nella valutazione delle condizioni che consentono di attribuire il reato ad una persona determinata. In secondo luogo, l'eccessiva indeterminatezza dell'avverbio “immediatamente”, con il quale l'art. 335 c.p.p. definisce l'intervallo temporale intercorrente tra l'acquisizione della notizia di reato o dell'identità del suo presunto autore e l'adempimento dell'obbligo di iscrizione del procedimento, consentendosi così una fin troppo agevole elusione dei termini di durata delle indagini preliminari, la cui decorrenza, ai sensi dell'art. 405 comma 2 c.p.p., è per l'appunto segnata dal momento in cui tale iscrizione avviene.

Censure che sono state rinfocolate dagli arresti giurisprudenziali che hanno respinto la possibilità di soluzioni interpretative tese a ridimensionare la portata delle lamentate lacune della disciplina codicistica, ribadendo come l'apprezzamento della tempestività e delle modalità dell'iscrizione rientra nell'esclusiva valutazione discrezionale del pubblico ministero ed è sottratto, in ordine all'an e al quando, al sindacato del giudice, fermi restando gli eventuali profili di responsabilità disciplinare o penale del pubblico ministero che l'abbia colpevolmente ritardata (Cass. pen., sez. un., n. 16, 21 gennaio 2000, CED 216248; Cass. pen., sez. un., 15 gennaio 2001, n. 34, CED 217473; Cass. pen., sez. un., 24 settembre 2009, n. 40538, CED 244376; in senso conforme da ultima Cass. pen., sez. VI, 30 gennaio 2019, n. 4844, CED 275046).

La legge delega si fa ora carico degli aspetti problematici della disciplina vigente e cerca di porvi rimedio.

In tal senso la direttiva contenuta nella lett. p) del comma 9 impone anzitutto al legislatore delegato di precisare i presupposti per l'iscrizione nel registro di cui all'art. 335 c.p.p. sia della notizia di reato, che del nome della persona cui lo stesso è attribuito, in modo che vengano soddisfatte le esigenze di garanzia, certezza ed uniformità delle iscrizioni. Evidente dunque l'intenzione di ridurre gli spazi di discrezionalità del pubblico ministero nell'esercizio del potere-dovere di iscrizione, senza porne in discussione la titolarità. Non è peraltro agevole prevedere come in sede di attuazione della delega i parametri indicati dalla direttiva in esame potranno essere tradotti in termini sostenibili, senza cioè cancellare qualsiasi spazio valutativo del titolare dell'azione penale che comporterebbe un indiscriminato ed inutile aumento del volume delle iscrizioni. Ed in tal senso, quantomeno in riferimento all'individuazione dei presupposti soggettivi dell'iscrizione, il passaggio della relazione della Commissione Lattanzi nel quale viene richiamato l'orientamento della giurisprudenza (Cass. pen., sez. un., 21 giugno 2000, n. 16, cit.) in merito all'acquisizione di “specifici elementi indizianti” e non di “meri sospetti” a carico della persona alla quale il reato dovrebbe essere attribuito.

La successiva lett. q) introduce poi un inedito strumento di controllo giudiziale sulla tempestività dell'iscrizione attivabile dall'“interessato”. A parte l'ambiguità di tale ultima espressione (che sembra evocare la legittimazione oltre che dell'indagato anche della persona offesa), la direttiva prevede che su richiesta di parte il giudice verifichi per l'appunto che l'iscrizione della notizia di reato o del nominativo della persona a cui lo stesso è attribuito sia avvenuta in maniera tempestiva, ma, soprattutto, attribuisce allo stesso giudice quel potere di retrodatazione dell'iscrizione sempre negatogli dalla giurisprudenza in forza dell'assetto normativo vigente. Potere di retrodatazione che può essere esercitato solo nel caso di «ingiustificato e inequivocabile ritardo» dell'iscrizione ed il cui effettivo esercizio comporta naturalmente l'automatica inutilizzabilità ai sensi dell'art. 407 comma 3 c.p.p. dei soli atti d'indagine che si collocano temporalmente “a valle” della scadenza del termine massimo delle indagini preliminari computato a decorrere dal momento in cui l'iscrizione avrebbe dovuto essere effettuata e non certo di quelli assunti nell'intervallo tra tale momento e quello in cui, invece, il procedimento è stato effettivamente iscritto dal pubblico ministero (cfr. Corte cost. 7 luglio 2005, ord. n. 307).

Il generico tenore della prima parte della direttiva sembra lasciare al legislatore delegato ampi spazi di autonomia per configurare il descritto controllo giurisdizionale sulla tempestività dell'iscrizione. In realtà la lett. q) del comma 9, nella seconda parte, detta in maniera assai più analitica detta le condizioni di ammissibilità della richiesta, all'evidente fine di contenere il rischio di un contenzioso permanente o strumentale sull'operato del pubblico ministero.

In tal senso la delega anzitutto stabilisce che l'atto di impulso deve indicare le ragioni che la sorreggono, evocando in tal modo – e nemmeno tanto velatamente - i requisiti di specificità stabiliti per le impugnazioni. Sotto altro profilo impone invece la fissazione di un termine perentorio entro il quale la richiesta può essere presentata, precisando che il suo decorso debba coincidere con la data in cui l'istante «ha la facoltà di prendere visione degli atti che imporrebbero l'anticipazione dell'iscrizione». È in particolare questa seconda condizione ad orientare l'effettivo profilo del meccanismo ideato dal legislatore, tendenzialmente confinandone l'operatività nelle fasi precedenti all'instaurazione di quella processuale ed escludendo di fatto la reiterabilità della richiesta.

A completamento dell'intervento riformatore, la lett. r) del comma 9 assegna al giudice delle indagini preliminari il potere di ordinare - anche d'ufficio e sempre che il pubblico ministero non vi abbia già provveduto - l'iscrizione nel registro di cui all'art. 335 c.p.p. della persona a cui ritiene che il reato debba essere attribuito. La disposizione mira, dunque, ad espandere l'analogo potere assegnato a quel giudice dall'art. 415 comma 2 c.p.p. nell'ipotesi in cui venga investito della richiesta di archiviazione di un procedimento a carico di ignoti e che già la giurisprudenza ha esteso a quella in cui, a fronte della richiesta di archiviazione nei confronti di persone note, egli ravvisi i presupposti per l'attribuzione del reato ad altri soggetti individuati (Cass. Sez. un., n. 4319, 30/01/2014, CED 257786). Ciò che si prevede è dunque che il Gip, quale che sia la richiesta di cui viene investito e senza necessità di specifica sollecitazione di una parte, svolga una autonoma verifica sulle eventuali omissioni nell'iscrizione degli (ulteriori) autori del reato per cui si procede, al fine di prevenire ingiustificati o strumentali ritardi nell'attivazione delle garanzie riconosciute alla persona sottoposta alle indagini.

La disciplina dell'udienza preliminare

Il legislatore è infine intervenuto, in maniera mirata, sulla disciplina dell'udienza preliminare. Oltre alla rivisitazione della regola di giudizio della sentenza di non luogo a procedere, di cui si è già detto, la disposizione più rilevante è indubbiamente quella contenuta nella lett. l) del comma 9, che in realtà prevede una riduzione delle ipotesi in cui debba essere celebrata l'udienza preliminare attraverso l'estensione del catalogo dei reati a cui applicare il rito a citazione diretta. In particolare la delega stabilisce che in tale catalogo debbano essere inseriti i delitti di competenza del tribunale in composizione monocratica puniti con la reclusione non superiore a sei anni, anche se congiunta a pena pecuniaria, «che non presentino rilevanti difficoltà di accertamento».

La direttiva tradisce, come già accennato, la sfiducia verso l'effettiva capacità dell'udienza preliminare di svolgere quella funzione di filtro assegnatagli nel disegno originario dei codificatori; sfiducia manifestata a chiare lettere nella relazione conclusiva della Commissione Lattanzi, la quale ha promosso l'introduzione della disposizione in commento che non era contemplata nel primigenio testo del D.D.L.

Il “fallimento” dell'istituto è impietosamente certificato dalle statistiche che ne hanno misurato la (scarsa) efficienza complessiva nel corso degli anni, ancorché alcune virtuose esperienze ne avessero evidenziato le potenzialità. Non è questa la sede per approfondire le cause di tale fallimento, tanto più che analoghi istituti sperimentati in altri ordinamenti – a cui pure il codice del 1988 si era ispirato – hanno conosciuto parabole simili. Da più parti si è dunque avvertita l'urgenza di eliminare questo snodo processuale, anche perché l'unico risultato che sembra produrre è quello di allungare (mediamente) i tempi del processo.

Il legislatore non ha effettuato una scelta così drastica, preferendo invece accompagnare l'udienza preliminare verso una “dolce” morte, attraverso la riduzione dei casi in cui viene celebrata ai reati più gravi, in riferimento ai quali è statisticamente più elevato il ricorso ai riti alternativi. Nell'immediato l'impatto della riforma non promette di essere “epocale”, posto che il limite di pena previsto dall'art. 550 comma 1 c.p.p. non viene elevato di molto, tanto più che molti dei delitti astrattamente candidabili al cambio di rito secondo i parametri individuati dalla delega, già sono inseriti nel catalogo di cui al secondo comma dell'articolo citato. È però legittimo aspettarsi che in futuro la strada aperta ora dal legislatore venga ulteriormente percorsa fino alla sua inevitabile destinazione, soprattutto se gli attesi esiti acceleratori troveranno riscontro in sede applicativa, talché la sorte dell'udienza preliminare sembra oramai segnata.

Le altre modifiche progettate dalla delega risultano funzionali all'eliminazione di alcune aporie e lacune da tempo segnalate. Così la lett. n) del comma 9 sanziona con la nullità della richiesta di rinvio a giudizio l'imputazione priva dei requisiti di cui all'art. 417 lett. b) c.p.p., attribuendo al giudice il potere di dichiararla senza procedere oltre e di restituire gli atti al pubblico ministero. Tale disposizione pone rimedio all'evidente irrazionalità dell'assetto vigente, che impone al giudice del dibattimento di dichiarare la nullità, ai sensi dell'art. 429 comma 2 c.p.p., del decreto che dispone il giudizio nel quale è stata recepita l'imputazione generica o indeterminata, ma di fatto costringe quello dell'udienza preliminare a determinare tale nullità, non potendo intervenire sulla sua formulazione, né per l'appunto, arrestare l'inutile progressione del procedimento, non essendo prevista dal citato art. 417, per l'appunto, una analoga nullità della richiesta di rinvio a giudizio.

In realtà la giurisprudenza aveva da tempo cercato di porre rimedio alla lacuna normativa attraverso l'applicazione analogica del secondo comma dell'art. 521 c.p.p., consentendo al Gup di disporre la restituzione degli atti al pubblico ministero una volta rilevata la carente formulazione del capo d'imputazione (Cass. pen., sez. un., 1 febbraio 2008, n. 5307, CED 238239). La Suprema Corte aveva però condizionato la possibilità di far retrocedere il rito al mancato accoglimento del previo invito rivolto al titolare dell'azione penale a precisare l'imputazione.

La novella, come detto, ha inteso risolvere la questione in maniera più radicale e lineare, configurando per l'appunto la nullità della richiesta di rinvio a giudizio ed il potere-dovere del giudice dell'udienza preliminare di rilevarla. Ha però recepito dall'illustrato indirizzo interpretativo la previsione dell'obbligo lo stesso giudice di esperire prima un “tentativo di conciliazione” nel contraddittorio delle parti, sollecitando la riformulazione dell'imputazione. La previsione non è priva di razionalità, ispirata com'è ad economizzare i tempi processuali, ma apparentemente configura una singolare ed inedita ipotesi di nullità “condizionata”, probabilmente riconducibile a coerenza sistematica qualificando l'intervento correttivo del pubblico ministero come una speciale causa di sanatoria.

La direttiva in esame è però andata oltre, distinguendo l'ipotesi dell'imputazione generica e indeterminata da quella in cui la stessa non rifletta, nella descrizione del fatto ovvero nella contestazione delle circostanze aggravanti, quanto emerge dagli atti. In tal caso al Gup - sempre qualora il pubblico ministero non provveda alla modifica dell'imputazione - viene attribuito il potere di restituirgli anche d'ufficio gli atti, confermando così espressamente l'applicabilità del già menzionato secondo comma dell'art. 521 all'udienza preliminare.

Qualche perplessità potrebbe destare invece l'apparente scelta di estendere la previsione anche all'erronea qualificazione giuridica del fatto, che eccepirebbe al generale potere del giudice di porvi rimedio ai sensi del primo comma dell'articolo da ultimo richiamato, pacificamente riconosciuto anche a quello dell'udienza preliminare (ex multis Cass., Sez. VI, 10 maggio 2017, n. 28262, CED 270521). In realtà ad una attenta lettura della norma sembra potersi ritenere che l'indicazione dei «i relativi articoli di legge» sia riferita esclusivamente alle circostanze di cui il giudice rileva l'omessa o errata contestazione, rimanendo dunque inalterato il potere del Gup di attribuire al fatto una diversa qualificazione giuridica nel decreto che dispone il giudizio.

Da ultima la lett. o) del comma 9 stabilisce che la costituzione di parte civile, in relazione alle imputazioni elevate con la richiesta di rinvio a giudizio, debba intervenire nell'udienza preliminare a pena di decadenza entro il compimento degli accertamenti relativi alla regolare costituzione delle parti di cui all'art. 420 c.p.p. In tal modo il legislatore ha inteso risolvere i dubbi, mai sopiti, sulla possibilità che la parte civile si costituisca anche in un momento successivo e fino alla discussione finale, ma, soprattutto, in maniera innovativa sembra voler escludere che nel rito ordinario la stessa possa scegliere di costituirsi per la prima volta nel giudizio. E sempre con l'intenzione di porre termine ad annose dispute interpretative – spesso ispirate da un formalismo esasperato e strumentale – la delega prevede che, salva contraria volontà espressa dalla parte rappresentata, la legittimazione al difensore all'esercizio dell'azione civile possa essere conferita anche in assenza della procura alle liti di cui all'art. 100 c.p.p. attraverso il rilascio di quella prevista dal successivo art. 122 dello stesso codice, nella quale può essere prevista anche la facoltà di trasferire ad altri il potere di sottoscrivere l'atto di costituzione.

In conclusione

Vista la generica formulazione di molte delle direttive esaminate, non è agevole esprimere un giudizio conclusivo su questa parte della riforma. Per valutare l'efficacia degli interventi progettati dalla delega è infatti necessario attendere come il legislatore interpreterà alcune delle direttive illustrate e soprattutto l'unica di cui non ci siamo occupati in quanto oggetto di autonomo commento in questa Rivista, ossia quella contenuta nella lett. i) del comma 9 in merito all'individuazione di criteri di priorità nella trattazione dei procedimenti da parte del pubblico ministero (v. E. ALBAMONTE, I criteri di priorità nell'esercizio dell'azione penale). La previsione di opportunità per le parti private di intervenire nel momento conclusivo delle indagini preliminari indubbiamente rende più trasparente e garantita la fase procedimentale, mentre per converso rimangono i già illustrati dubbi sulla reale efficacia in chiave deflattiva della revisione della regola di giudizio assegnata al titolare dell'azione penale. Più in generale rimane qualche perplessità sull'esito complessivo dell'intervento riformatore e sulla possibilità che le disposizioni finali siano in grado di conciliare obbligatorietà dell'azione penale, completezza delle indagini ed esigenze acceleratorie, piuttosto che tradursi praticamente nella mera rinunzia a perseguire molti reati certificando l'impossibilità di perseguirli tutti.

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