Riforma del processo penale: principi e criteri direttivi per le modifiche delegate in materia di giudizio

20 Ottobre 2021

Con la legge 27 settembre 2021 n. 134 contente Delega al Governo per l'efficienza del processo penale nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari, prende corpo un nuovo tentativo di rinnovamento e di riconfigurazione a largo spettro della giustizia penale, tanto sul versante sostanziale quanto su quello processuale e penitenziario. Limitando lo sguardo ai profili di novità che interessano il processo penale, vediamo come il legislatore delegante, muovendosi nel solco già in parte tracciato dalla riforma c.d. Orlando...
Abstract

Con la legge 27 settembre 2021 n. 134 contente Delega al Governo per l'efficienza del processo penale nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari, prende corpo un nuovo tentativo di rinnovamento e di riconfigurazione a largo spettro della giustizia penale, tanto sul versante sostanziale quanto su quello processuale e penitenziario. Limitando lo sguardo ai profili di novità che interessano il processo penale, vediamo come il legislatore delegante, muovendosi nel solco già in parte tracciato dalla riforma c.d. Orlando, si sia fatto carico – come chiarito anche nella relazione finale redatta dalla Commissione di studio presieduta dal Pres. Giorgio Lattanzi - del difficile compito di coniugare l'interesse ad una maggiore fluidità e speditezza della macchina processuale con l'esigenza di conservazione o addirittura di rafforzamento dell'intelaiatura di diritti e garanzie connaturata all'esercizio stesso della funzione giurisdizionale nel settore penale. Nel gettare le basi di questo ambizioso progetto, la legge di delega fissa una rete di principi e criteri direttivi che, per quanto riguarda il giudizio di primo grado, sono compendiati all'interno dell'art. 1 comma 11 lett. a), b), d) ed e). Prima di analizzare singolarmente ciascuno dei quattro interventi delineati dal legislatore delegante, occorre però precisare che il testo definitivamente licenziato dal Parlamento su proposta della Ministra Marta Cartabia consegna una legge che, per quanto riguarda la fase dibattimentale, presenta contenuti sensibilmente rivisitati rispetto al disegno di legge originariamente predisposto dall'allora Ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede; in particolare, si è trattato di una riscrittura che, oltre a ridimensionare quantitativamente il quadro delle modifiche delegate – che infatti si sono ridotte da sei a quattro – introduce elementi di novità capaci di impattare, in certi casi, non soltanto sul piano testuale ed applicativo degli istituti interessati, ma finanche sulla stessa ratio dell'intervento novellatorio programmato.

Primo intervento: concentrazione del dibattimento e programmazione delle attività processuali

L'esperienza giudiziaria maturatasi in oltre trent'anni di vita del codice vigente ci consegna un processo penale che, nella realtà, è molto distante dal paradigma astratto scolpito sulla carta dal legislatore del 1988. Dal canto suo, l'art. 477 c.p.p. dispone che «quando non è assolutamente possibile esaurire il dibattimento in una sola udienza, il presidente dispone che esso venga proseguito nel giorno seguente non festivo» precisando, al secondo comma, che il dibattimento può essere sospeso soltanto per ragioni di assoluta necessità e per un termine massimo non superiore ai dieci giorni, con esclusione dei giorni festivi. Come si diceva, la realtà è però molto diversa, con dibattimenti che spesso durano anni, segmentati in numerose udienze distanti anche di molti mesi l'una dall'altra. Si tratta di uno stato di cose talmente consolidato che l'art. 477 c.p.p. può essere, senza tema di smentita, considerata una tra le norme più disattese di tutto il codice di procedura penale. A fare però le spese di questa prassi deviante non è soltanto il diritto dell'imputato, e, in generale, delle parti private, ad una ragionevole durata del processo, ma è l'intera credibilità epistemologica del sistema che risulta gravemente compromessa: difettando la concentrazione dei tempi processuali viene infatti a mancare quel fondamentale momento di saldatura tra i principi che presiedono alla formazione della prova in dibattimento, con conseguente discapito per il livello di generale affidabilità della decisione. Nonostante le sue cruciali implicazioni di ordine sistematico, il problema della cronica disapplicazione dell'art. 477 c.p.p. è però rimasto per molto tempo ai margini del dibattito scientifico, reso come invisibile da una cortina di rassegnato pragmatismo che soltanto la controversa sentenza n. 132 del 2019 della Corte costituzionale è riuscita in parte a diradare. Vero è che, nel contesto della pronuncia in esame, il giudice delle leggi, pur apparentemente richiamando il legislatore sulla necessità di adottare rimedi strutturali in grado di rendere effettivamente operante la previsione di cui all'art. 477 comma 1 c.p.p., sembra al contempo rassegnata anch'esso all'idea che si tratti di un proposito per lo più velleitario; tale è il disincanto mostrato in proposito dalla Consulta che, con un repentino ribaltamento di prospettiva, la pronuncia si trasforma nell'occasione per attribuire, in via preventiva, la patente di legittimità costituzionale a futuri congegni derogatori che il legislatore vorrà auspicabilmente introdurre nel sistema al fine di incanalare entro margini ben più ristretti di quelli previsti dalle norme vigenti il diritto dell'imputato alla rinnovazione dell'istruzione dibattimentale nel caso di sopravvenuto mutamento dell'organo giudicante. Lasciando, per il momento in disparte questo secondo aspetto del problema, occorre rilevare che la novella, nel primo dei quattro interventi destinati ad impattare sulla disciplina del giudizio, raccoglie proprio la sollecitazione formulata dalla Consulta circa la necessità di riaffermare la concentrazione del dibattimento. Prescrive in particolare l'art. 1 comma 11 lett. a) della legge in esame – peraltro, restando, sul punto, sempre invariata per tutto il corso del non poco accidentato iter parlamentare che l'ha caratterizzata - che il legislatore delegato, nella modifiche da apportare alla disciplina del giudizio, dovrà attenersi al seguente principio e criterio direttivo:

«prevedere che, quando non è possibile esaurire il dibattimento in una sola udienza, dopo la lettura dell'ordinanza con cui provvede all'ammissione delle prove, il giudice comunichi alle parti il calendario delle udienze per l'istruzione dibattimentale e per lo svolgimento della discussione».

Al giudice, dunque, che si trovi impossibilitato ad esaurire il dibattimento in un'unica udienza, viene oggi indicato un modello di comportamento virtuoso cui è chiamato a conformarsi nell'esercizio dei suoi poteri ordinatori: in particolare, si impone al giudice di tracciare ab initio i futuri sviluppi del dibattimento, comunicando alle parti date e numero di udienze nonché fissando in anticipo le attività volta a volta programmate ivi compreso lo svolgimento della discussione. Sebbene il dettato normativo non sia particolarmente felice al riguardo, deve comunque ritenersi che il calendario delle future attività processuali non potrà certamente essere “fatto calare dall'alto”, secondo una programmazione definita unilateralmente dal giudicante, ma dovrà necessariamente scaturire dal lavoro corale del giudice e delle parti all'esito del contraddittorio: solo così infatti la novella potrà, nei limiti del possibile, scongiurare il rischio – cui si fa riferimento anche nella relazione illustrativa dell'originario disegno di legge – di rinvii delle udienze determinati da preesistenti o sopravvenuti impedimenti professionali.

Secondo intervento: ammissione della prova e attività illustrative delle parti

L'ambito di intervento della seconda modifica prospettata dalla legge delega concerne il tema delle richieste di prove di cui all'art. 493 c.p.p. L'art. 1 lett. b) prescrive al Governo di

«prevedere che le parti illustrino le rispettive richieste di prova nei limiti strettamente necessari alla verifica dell'ammissibilità delle prove ai sensi dell'art. 190 del codice di procedura penale».

L'essenza della novella è dunque tutta condensata nel tipo di incombente demandato alle parti nel corso del procedimento di ammissione delle prove: se, infatti, il vigente art. 493 c.p.p. prevede che, nel chiedere l'ammissione delle prove, le parti indichino i fatti che intendono provare, nella legge delega l'atto di “indicare” cede il posto ad una attività di tipo illustrativo. Dal punto di vista strettamente linguistico, non cambia soltanto il tipo di attività richiesta alle parti ma muta anche il relativo oggetto: mentre infatti l'indicazione di cui al testo vigente concerne i fatti da provare, l'illustrazione di cui alla novella si riferisce tout court alle richieste istruttorie. Ciò su cui invece la legge delega non incide è la finalità sottesa alle attività connesse alle richieste di prova che continua ad essere quella di fornire al giudice gli elementi necessari per valutare la conformità delle istanze istruttorie ai criteri ammissivi di cui all'art. 190 c.p.p. All'interno del nuovo assetto, il collegamento finalistico tra l'illustrazione delle istanze istruttorie e la verifica della loro ammissibilità si riverbera peraltro sull'estensione del nuovo incombente attribuito alle parti, dal quale, per espressa perimetrazione normativa – assente nell'originario disegno di legge che pure prevedeva l'introduzione di una “relazione illustrativa delle parti sulla richiesta di prove” - va espunto tutto ciò che appaia non strettamente necessario a dare conto della non manifesta superfluità e irrilevanza delle prove richieste. Vero è che tale puntualizzazione non sembra destinata a veicolare nella materia un effettivo quid novi rispetto alla disciplina vigente, specialmente se si considera che l'art. 493 comma 4 c.p.p. – introdotto come è noto con la l. n. 479 del 1999 per arginare comportamenti dei pubblici ministeri rivelatisi eccessivamente ridondanti nonché surrettiziamente lesivi della disciplina del doppio fascicolo - stigmatizza, per il tramite del presidente, ogni forma di divagazione, ripetizione e interruzione ovvero di lettura o esposizione del contenuto degli atti compiuti durante le indagini preliminari. In un quadro siffatto, la capacità della novella di innovare effettivamente il sistema si gioca dunque tutta sulla possibilità di ascrivere al concetto di “illustrazione” una attività di allegazione più strutturata di quella riconducibile alla facoltà, attualmente riconosciuta alle parti, di indicare i fatti da provare. A questo riguardo, occorre però segnalare che la dottrina non ha mai mostrato di tenere in particolare considerazione il lessico utilizzato dal legislatore per connotare l'attività funzionale alla formulazione delle richieste istruttorie. Emblematico di un simile approccio antiformalistico è quanto avvenuto a commento della riscrittura dell'art. 493 c.p.p. ad opera della già citata l. n. 479 del 1999 per effetto della quale la facoltà di indicare i fatti da provare, dapprima riferita alle sole parti private ex art. 493 comma 2 abr., è stata estesa anche al pubblico ministero, ormai privato – sempre al fine di bandire le ricordate prassi devianti - della possibilità, a sua volta riconosciuta dall'art. 493 comma 1 abr., di “esporre” i fatti oggetto dell'imputazione. Ebbene, nonostante l'equiparazione formale di tutte le parti raggiunta dalla novella del 1999 in ordine alle attività prodromiche all'esercizio del diritto alla prova, la dottrina ha però sempre escluso che ciò abbia comportato anche un mutamento della disciplina sul piano sostanziale: ad onta della diversa terminologia utilizzata, l'impegno richiesto alle parti ha dunque continuato ad innestarsi su una attività, che lungi dal consistere nella asettica elencazione di temi probatori, si sostanzia nella rappresentazione, su base argomentativa, di una ‘storia' capace di rivelare i nessi logici intercorrenti tra i mezzi di prova richiesti e i fatti da provare. Ciò chiarito, sta di fatto però che nella prassi la fase delle richieste di prova si è spesso ridotta ad un asettico rituale, da compiersi ricorrendo a formule stereotipate che per lo più rinviano al contenuto delle liste di cui all'art. 468 c.p.p. e in particolare alle circostanze probatorie ivi indicate. Un simile scenario chiarisce quindi il perché la Commissione Lattanzi giustifichi la prospettata modifica dell'art. 493 c.p.p. con la necessità di introdurre un momento dialettico funzionale ad agevolare il giudice nell'applicazione più corretta e consapevole dell'art. 190 c.p.p. Muovendo da questa ottica, sembra però d'uopo rilevare che, per favorire realmente l'adozione di comportamenti maggiormente collaborativi e chiarificatori nel frangente di cui all'art. 493 c.p.p., non sarà sufficiente accontentarsi dell'impiego di un diverso lessico, per quanto sicuramente più incisivo di quello attuale, ma sarà necessario configurare l'incombente in questione nei termini di un vero e proprio onere, il cui svolgimento si ponga dunque quale condizione di ammissibilità delle richieste istruttorie delle parti.

Terzo intervento: il contraddittorio informato ‘per la prova scientifica'

Il terzo intervento sulla disciplina del giudizio contemplato dalla legge delega ha per oggetto il contraddittorio nella formazione della prova tecnica. Recita in particolare l'art. 1 lett. c) che il Governo è tenuto a

«prevedere, ai fini dell'esame del consulente e del perito, il deposito delle consulenze tecniche e della perizia entro un termine congruo precedente l'udienza fissata per l'esame del consulente o del perito, ferma restando la disciplina delle letture e dell'indicazione degli atti utilizzabili ai fini della decisione».

Come chiarisce anche la relazione finale della Commissione Lattanzi, l'obiettivo è quello di rendere più efficace e consapevole l'esame degli esperti nominati nel corso del processo penale: mediante il tempestivo deposito di eventuali relazioni e note scritte a ridosso dell'esame orale del perito o del consulente, le parti e il giudice vengono così preventivamente resi edotti circa il tenore delle risposte fornite ai quesiti somministrati nonché circa la metodologia e le argomentazioni logico-tecniche sottese al parere reso, trovandosi così nelle condizioni di poter formulare, causa cognita, pertinenti domande e muovere mirate contestazioni. Quanto poi all'inciso concernente la disciplina delle letture e dell'indicazione degli atti spendibili ai fini decisori, esso ha lo scopo di ribadire, ove apparisse necessario, che la futura novella non andrà comunque ad impattare sulle ordinarie modalità acquisitive prescritte dall'art. 511 comma 3 c.p.p. per gli elaborati scritti del perito e – stando almeno all'interpretazione prevalente - del consulente tecnico: cioè a dire che il preventivo deposito nel fascicolo del dibattimento della relazione tecnica non vale per ciò solo ad aggirare la regola generale secondo cui l'esame in dibattimento dell'esperto costituisce il presupposto, logico e cronologico, indefettibile per l'effettiva acquisizione probatoria – mediante lettura o mezzo equipollente all'esposizione orale. Tutto ciò chiarito, pare anche in questo caso che l'effettiva capacità della novella di modificare l'assetto vigente presupponga comunque un intervento del legislatore delegato sotto un duplice ordine di profili: individuando concretamente quale scarto temporale tra il deposito dell'elaborato e l'esame orale dell'esperto possa considerarsi effettivamente adeguato ad una valorizzazione del contraddittorio per la prova scientifica o quantomeno fissando dei parametri orientativi per il giudice investito del relativo incombente; configurando come perentorio il termine per il preventivo deposito della relazione tecnica, con conseguenti ricadute sulla validità dell'esame orale che dovesse svolgersi intempestivamente.

Quarto intervento: rinnovazione della prova dichiarativa e immediatezza differita

Con il quarto ed ultimo intervento, la legge delega affronta il delicatissimo tema della rinnovazione della prova dichiarativa nel caso di mutamento del giudice che aveva partecipato alla sua assunzione. A questo proposito, il primo dato che suscita interesse è legato alla completa riscrittura che il testo normativo ha subito nel corso del complesso iter di gestazione della legge-delega. Nella versione risalente all'originario disegno di legge, l'intera materia della rinnovazione della prova dichiarativa nel caso di mutamento del giudice-persona fisica veniva ricondotta nell'orbita applicativa dell'art. 190-bis c.p.p.: lo speciale regime probatorio di cui alla disposizione in esame, da congegno applicabile nei soli casi in cui l'esigenza di ripetere l'assunzione di una prova dichiarativa si manifestasse nei procedimenti per reati di criminalità organizzata di tipo mafioso e per reati sessuali commessi sui minori o con violenza, assurgeva quindi a regola generale diretta a regolare, in chiave restrittiva rispetto alla disciplina ordinaria di cui all'art. 190 c.p.p., tutti i casi di rinnovazione probatoria conseguenti a mutamento dell'organo giudicante. In un simile assetto, l'immediatezza della prova veniva assicurata soltanto nel caso la reiterazione dell'incombente probatorio servisse all'accertamento di fatti o circostanze diversi da quelli oggetto delle precedenti dichiarazioni ovvero in presenza di specifiche esigenze comprovanti la necessità, per il giudice o per le parti, della rinnovazione invocata. A ben guardare, la soluzione prospettata all'inizio dell'iter parlamentare rappresentava il culmine di quella ‘processo' di smitizzazione e di ridimensionamento applicativo del principio di immediatezza della prova avviato dalla Corte costituzionale con la ricordata sentenza, cui aveva fatto seguito la c.d. sentenza Bajrami delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione. Rispetto alla lettura restrittiva offerta dal Supremo Consesso, il legislatore delegato aveva mostrato di assumere però una posizione di sfavore ancora maggiore verso il principio di immediatezza della prova. Se infatti nella sentenza Bajrami, la richiesta di rinnovare la prova dichiarativa presupponeva un controllo del nuovo giudice da compiersi alla luce del contenuto delle precedenti dichiarazioni dibattimentali ma comunque impiegando il filtro a maglie larghe di cui all'art. 190 c.p.p., la modifica prospettata inizialmente dal Ministro della Giustizia comportava certamente un ulteriore e significativo allontanamento dal modello epistemologico sotteso al sistema processuale introdotto dal codice del 1988: questo perché, quantomeno nel caso di rinnovazione della prova su fatti e circostanze già affrontati nel corso delle precedenti dichiarazioni dibattimentali, l'ammissibilità dell'incombente probatorio richiesto veniva fatto discendere non più – come nel contesto della sentenza Bajrami - dalla sua non manifesta superfluità e irrilevanza ma dall'esistenza di specifiche esigenze che ne comprovassero la necessità. Abbandonata dalla Ministra Cartabia l'idea iniziale, la Commissione c.d. Lattanzi ha redatto ex novo il testo della norma scomponendone il contenuto in due distinti regimi ammissivi: il primo, destinato ad operare nella generalità dei casi di rinnovazione della prova dichiarativa, che ancora lo svolgimento dell'incombente all'esistenza di una specifica richiesta istruttoria rivolta in tal senso dalla parte; il secondo, concernente l'ipotesi in cui la prova da rinnovare sia stata oggetto in dibattimento di verbalizzazione tramite videoregistrazione, che invece limita la possibilità di una nuova assunzione della prova dichiarativa ad una valutazione del giudice di necessità della stessa fondata su specifiche esigenze. Al netto del notevole divario che separa il testo approvato in Parlamento da quello contenuto nell'originario disegno di legge, occorre a questo punto interrogarsi su quale sia l'impatto che la novella è destinata a dispiegare all'interno del sistema. Valutando nel complesso l'intervento, non vi è dubbio che lo scongiurato “gigantismo” dell'art. 190-bis c.p.p. metta quantomeno il sistema al riparo da censurabili tentativi – già sperimentati in maniera fallimentare nel contesto delle misure cautelari - di esportare regimi derogatori all'interno di contesti privi di quei profili di specialità la cui sola sussistenza aveva giustificato un arretramento della sfera d'azione della regola generale. Vero è che, quanto poi alla prova dichiarativa verbalizzata con videoregistrazione, la legge delega introduce un assetto che consentendo la rinnovazione nel caso di mutamento del giudice soltanto nel caso di necessità, a prescindere dalla sovrapponibilità o meno dei fatti e delle circostanze oggetto delle precedenti e delle future dichiarazioni, si pone in termini addirittura maggiormente restrittivi di quanto non faccia, nel suo specifico contesto di applicazione, l'art. 190-bis c.p.p. Ciononostante, si tratta di una soluzione – che peraltro raccoglie una precisa suggestione presente nella sentenza della Corte costituzionale – almeno parzialmente rispettosa del principio di immediatezza e della ratio di garanzia ad esso sottostante, posto che, anche nel caso in cui a decidere sia non il giudice davanti al quale la prova si era formata ma un giudice diverso, quest'ultimo, pur non dando corso alla rinnovazione della prova, potrà comunque sviluppare il proprio convincimento potendo contare non soltanto sul contenuto di quanto dichiarato dal testimone ma anche sull'apprezzamento diretto – sia pure per via “differita” - dei connotati extraverbali della dichiarazione. A suscitare maggiori perplessità è invece il regime dettato nel caso in cui la rinnovazione abbia ad oggetto prove dichiarative verbalizzate con modalità ordinaria. Se, infatti, da un lato il legislatore delegante sembra voler riaffermare in termini assoluti l'indefettibilità del canone dell'immediatezza della prova, indicando la richiesta di parte quale unico presupposto per la rinnovazione della prova formatasi davanti ad un giudice non più investito del processo, è altrettanto vero che si tratta di una disposizione particolarmente vaga nei contenuti; il che lascia addirittura dubbi in merito al fatto che l'intento del legislatore delegante non sia piuttosto quello di offrire una implicita conferma dell'assetto normativo stabilizzatosi all'esito della sentenza c.d. Bajrami. Al di là di questo, però, il problema principale è dato dal fatto che la disposizione in esame - anche volendo ammettere che sia diretta ad un risultato di segno opposto - non pone però alcun argine per evitare che, in sede applicativa, continui a trovare spazio l'interpretazione, ormai assurta a diritto vivente, circa il doveroso controllo di non manifesta superfluità e irrilevanza che sarebbe demandato al nuovo giudice al fine di decidere - anche sulla scorta della lettura del verbale della dichiarazione testimoniale precedentemente resa – sull'ammissibilità ex art. 190 c.p.p. della richiesta di reiterazione di un incombente probatorio già espletato in dibattimento nel contraddittorio delle parti.

In conclusione

Le modifiche alla disciplina del giudizio prospettate nella legge-delega delineano un cono di intervento al quanto limitato, destinato per lo più ad incidere su un aspetto che però è cruciale dal punto di vista sistematico, ovvero quello della concentrazione dei tempi processuali. Assicurare che il processo si celebri senza soluzione di continuità o quanto meno, entro un arco di tempo ragionevolmente contenuto, significa garantirne la ragionevole durata, implementando la certezza del diritto e della pena, con ricadute inevitabilmente positive anche nell'ottica di una più efficiente amministrazione della Giustizia considerata nel suo complesso; significa, soprattutto, ridurre il più possibile i casi di decisioni adottate da giudici che non abbiano anche avuto contatto diretto con la fonte di prova, restituendo nel contempo al principio di immediatezza – se del caso, anche grazie all'ausilio della tecnologia - il suo ruolo di criterio-guida capace di orientare effettivamente il giudicante verso una più corretta valutazione di attendibilità del risultato probatorio, e quindi verso una decisione che sia il più possibile giusta. Se questi sono gli obiettivi cui è diretto il cammino di riforma avviato dalla legge delega, deve però rilevarsi che un ruolo particolarmente decisivo verrà giocato dal legislatore delegato il quale, tra l'altro, sarà chiamato a corredare di un adeguato apparato sanzionatorio quel complesso di comportamenti virtuosi – richiesti, come visto, al giudice ma anche agli altri soggetti del procedimento - che, nell'impianto della legge-delega rappresentano – forse, non senza una certa dose di ottimismo – la chiave di volta per la messa a punto di un processo penale maggiormente all'altezza delle sfide poste dalla contemporaneità ma sempre nel pieno e più convinto rispetto dei suoi principi fondativi.

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