Concessione abusiva di credito e legittimazione del curatore
26 Ottobre 2021
La figura dell'abusiva concessione di credito si delinea nel nostro Paese a partire dalla seconda metà degli anni Settanta, soprattutto sulla spinta del dibattito e delle acquisizioni sviluppatesi nella dottrina e giurisprudenza d'Oltralpe, in termini alquanto dubitativi (CLARIZIA, La responsabilitè du banquier donneur de credit, in Banca Borsa Tit. Cred., 1976, I, 376; cfr. in particolare CASTRONOVO, Le frontiere mobili della responsabilità civile, in Riv. crit. Dir. priv., 1989, che sembra infatti circoscrivere la responsabilità della banca a due fattispecie fondamentali: l'abuso della banca che di fatto abbia assunto la gestione dell'impresa o ad essa abbia partecipato di fatto; la concessione del credito da parte della banca nonostante il parere espressamente contrario dei propri organi tecnici). Rapidamente, peraltro, i contorni della figura in esame si sono andati focalizzando partendo dall'idea che la concessione del credito da parte degli istituti bancari non rappresenta un mero affare interno alle due parti della relazione contrattuale, ma – in particolare per la notoria professionalità ed affidabilità del soggetto finanziatore – è esso stesso fenomeno che intercetta una pluralità di interessi con ricadute in termini di “particolare affidamento” che tale contegno può ingenerare rispetto ai terzi, con speciale rilievo per i creditori dell'impresa cui il credito sia abusivamente elargito o mantenuto, i quali, proprio in forza del comportamento della banca possono ritenersi, per così dire, “rassicurati” circa lo stato di salute del debitore, omettendo di esercitare le azioni per la tutela del proprio credito, oppure continuando a contrattare ed assumere obbligazioni nei confronti dell'imprenditore finanziato ma orami insolvente (ampia ricostruzione in DI MARZIO, Concessione abusiva di credito, in Enc. Diritto, Annali VI, Milano, 2013; ID., L'abuso nella concessione del credito, in Contr. Impr., 2015, 318; vds. anche BALESTRA, Responsabilità per abusiva concessione del credito e legittimazione del curatore, in AA.VV., Le azioni di responsabilità nelle procedure concorsuali (a cura di L. Balestra), Milano, 2016, 191). La negligente concessione del credito – fattispecie che, come si è avvertito, abbraccia sia l'elargizione di nuova finanza che il mantenimento di precedenti linee di credito pur a fronte di una situazione ormai di decozione del mutuatario – può in particolare cagionare un danno ai terzi creditori dell'imprenditore sovvenzionato. Per questi appare peraltro sempre attuale la distinzione fra creditori precedenti all'atto abusivo, i quali confidando sulla apparente solidità finanziaria dell'imprenditore omettano di esigere l'immediata riscossione del proprio credito così da subire un pregiudizio che altrimenti non avrebbero sofferto, dai creditori posteriori, per i quale può più propriamente parlarsi di violazione della libertà contrattuale (giacchè gli stessi sono indotti a concludere ulteriori relazioni contrattuali con l'imprenditore insolvente proprio in forza dell'apparente solidità di quest'ultimo indotta dal comportamento dell'istituto di credito). Più discusso è il tema se - di per sé considerata - l'abusiva concessione del credito possa cagionare un danno direttamente al patrimonio dell'imprenditore, circostanza di cui la dottrina ed anche la giurisprudenza ha lungamento dubitato, vuoi in forza di una ritenuta neutralità dell'operazione per l'impresa finanziata, in quanto l'incremento del passivo è specularmente compensato dall'incremento delle disponibilità liquide, sempre che si tratti di un'operazione compiuta a condizioni di mercato, vuoi per l'operatività dell'art. 1227 comma 1 c.c., in forza del quale sarebbe piuttosto l'utilizzo improprio che della disponibilità finanziaria ottenuta compiono gli amministratori dell'impresa a cagionare il pregiudizio in capo a quest'ultima. A tal proposito, non può non ricordarsi, sia pure con la sintesi richiesta da queste pagine, come al problema appena citato, che si riflette direttamente sulla questione della legittimazione del curatore, le Sezioni Unite (con le tre pronunce “gemelle” del 2006) avessero dato una riposta negativa. Si era infatti ritenuto che la legittimazione attiva non potesse riconoscersi al curatore, in quanto la stessa gli spetta unicamente per le azioni di massa, da identificarsi con quelle che mirano a ricostituire il patrimonio del fallito con riferimento alla garanzia generica che esso esprime e, quindi, purchè ne derivi un indiscriminato beneficio a favore di tutti i creditori unitariamente considerati; secondo le S.U. – al contrario – nell'azione per abusiva concessione del credito, al pari della domanda giudiziale ex art. 2395 c.c., si avrebbe invece di mira la reintegrazione del patrimonio del singolo creditore ed in relazione al pregiudizio che lo stesso, caso per caso possa aver subito, in quanto la posizione dei creditori non potrebbe mai in questa fattispecie predicarsi in termini di omogeneità, dovendosi perlomeno distinguere fra creditori anteriori e quelli posteriori, cioè divenuti tali dopo l'erogazione illecita del finanziamento. Pertanto, le S.U. sul punto fondano la loro decisione negativa su due passaggi fondamentali: a) la natura tipica delle azioni di massa così come sopra definite (alle quali in prima approssimazione possono ricondursi l'azione revocatoria, l'azione surrogatoria e le azioni di responsabilità esercitate dal curatore ex art. 146 l.fall.); b) l'impossibilità di ricondurre a tale novero l'azione risarcitoria per abusiva concessione del credito effettuata nei confronti dell'imprenditore poi fallito a causa, come rilevato, della situazione differenziata in cui si trovano i creditori di quest'ultimo, in particolare per quelli che sono divenuti tali dopo il verificarsi della fattispecie, i quali subiscono in qualche misura l'aggravamento del dissesto che l'artificiosa protrazione dell'attività di una impresa irreversibilmente insolvente subisce proprio in forza del finanziamento “abusivo” (cfr. Cass. S.U., 28 marzo 2006, nn. 7029, 7030, 7031, in Giur. It., 2006, 1191: “Il curatore fallimentare non è legittimato a proporre, nei confronti del finanziatore responsabile (nella specie, una banca), l'azione da illecito aquiliano per il risarcimento dei danni causati ai creditori dall'abusiva concessione di credito diretta a mantenere artificiosamente in vita una impresa decotta, suscitando così nel mercato la falsa impressione che si tratti di impresa economicamente valida. Nel sistema della l.fall., difatti, la legittimazione del curatore ad agire in rappresentanza dei creditori è limitata alle azioni c.d. di massa - finalizzate, cioè, alla ricostituzione del patrimonio del debitore nella sua funzione di garanzia generica ed aventi carattere indistinto quanto ai possibili beneficiari del loro esito positivo - al cui novero non appartiene l'azione risarcitoria in questione, la quale, analogamente a quella prevista dall'art. 2395 c.c., costituisce strumento di reintegrazione del patrimonio del singolo creditore, giacché, per un verso, il danno derivante dall'attività di sovvenzione abusiva deve essere valutato caso per caso nella sua esistenza ed entità (essendo ipotizzabile che creditori aventi il diritto di partecipare al riparto non abbiano ricevuto pregiudizio dalla continuazione dell'impresa), e, per altro verso, la posizione dei singoli creditori, quanto ai presupposti per la configurabilità del pregiudizio, è diversa a seconda che siano antecedenti o successivi all'attività medesima”). Tale impostazione è stata condivisa dalla successiva giurisprudenza di legittimità, sia pure dovendosi ricordare come Cass. 23/07/2010, n. 13413 (in Fall., 2011, 116 e Foro it., 2011, I, 856), con un obiter dictum collegato all'avvenuta condanna in sede penale per concorso in bancarotta fraudolenta dell'amministratore della società sovvenzionata e del direttore della filiale bancaria erogante il credito, avesse ritenuto che in tal caso il curatore – in virtù delle norme che disciplinano le obbligazioni solidali, avrebbe potuto far valere le proprie pretese risarcitorie anche nei confronti della banca, senza essere obbligato ad agire contemporaneamente anche contro l'amministratore infedele. Approfondendo tale intuizione, l'ancora successiva Cass. 20/04/2017, n. 9983 (in Giur. comm., 2018, 262, con nota di IORIO), ha invece espressamente ritenuto che ben possa il curatore, utendo iuribus del fallito, richiedere il risarcimento ad amministratori e banche per il danno subito dal patrimonio sociale in conseguenza del credito erogato allorché la società avesse già da lungo tempo interamente perduto il capitale sociale, trovandosi pertanto già in stato di scioglimento, avendo gli stessi concorso al ritardo nell'emersione del dissesto.
Il nuovo orientamento della Cassazione
La pronuncia resa da Cassazione, sez. I, 30 giugno 2021, n. 18610 (n giustiziacivile.com, 2021, con nota di FAROLFI, nonché in questo portale con nota di SELVINI), immediatamente ribadita da Cass., sez. I, 14 settembre 2021, n. 24725, ha affermato che: “L'erogazione del credito che sia qualificabile come "abusiva", in quanto effettuata, con dolo o colpa, ad impresa che si palesi in una situazione di difficoltà economico-finanziaria ed in mancanza di concrete prospettive di superamento della crisi, integra un illecito del soggetto finanziatore, per essere egli venuto meno ai suoi doveri primari di una prudente gestione, che obbliga il medesimo al risarcimento del danno, ove ne discenda l'aggravamento del dissesto favorito dalla continuazione dell'attività d'impresa. Non integra abusiva concessione di credito la condotta della banca che, pur al di fuori di una formale procedura di risoluzione della crisi dell'impresa, abbia assunto un rischio non irragionevole, operando nell'intento del risanamento aziendale ed erogando credito ad un'impresa suscettibile, secondo una valutazione ex ante, di superamento della crisi o almeno di proficua permanenza sul mercato, sulla base di documenti, dati e notizie acquisite, da cui sia stata in buona fede desunta la volontà e la possibilità del soggetto finanziato di utilizzare il credito ai detti scopi. Il curatore fallimentare è legittimato ad agire contro la banca per la concessione abusiva del credito, in caso di illecita nuova finanza o di mantenimento dei contratti in corso, che abbia cagionato una diminuzione del patrimonio del soggetto fallito, per il danno diretto all'impresa conseguito al finanziamento e per il pregiudizio all'intero ceto creditorio a causa della perdita della garanzia patrimoniale ex art. 2740 c.c. La responsabilità in capo alla banca, qualora abusiva finanziatrice, può sussistere in concorso con quella degli organi sociali di cui all'art. 146 l.fall., in via di solidarietà passiva ai sensi dell'art. 2055 c.c., quali fatti causatori del medesimo danno, senza che, peraltro, sia necessario l'esercizio congiunto delle azioni verso gli organi sociali e verso il finanziatore, trattandosi di mero litisconsorzio facoltativo“.
L'importante decisione in esame si occupa di un caso che può essere sinteticamente riassunto nei termini che seguono. Con domanda proposta dal Curatore avanti al Tribunale di Frosinone, il fallimento di una società aveva imputato a più banche che la propria consistenza patrimoniale si fosse progressivamente ridotta a causa dei prestiti concessi e dei relativi oneri finanziari, con gravi perdite, sino all'azzeramento del capitale sociale. La curatela aveva pertanto domandato la condanna delle convenute, in via solidale, alla restituzione degli interessi pagati o, in subordine, al risarcimento del danno da concessione abusiva del credito, indicato in Euro 23.367.245,34 pari al depauperamento del patrimonio netto della società. Tale domanda era stata giudicata inammissibile in primo grado, in quanto la procedura non aveva proposto un'azione di responsabilità anche nei confronti degli amministratori della fallita, ma solo un'azione di responsabilità aquiliana contro le banche che sarebbe risultata estranea all'area di applicazione dell'art. 146 l.fall. in quanto esclusivamente riconducibile, per come prospettata, ad un'autonoma e distinta attività imputata direttamente (ed esclusivamente) ai singoli istituti di credito coinvolti nel giudizio. Tale decisione era stata in seguito confermata dalla sentenza del 4 settembre 2014, n. 5389, della Corte d'appello di Roma, la quale aveva ulteriormente ritenuto che solo in appello la curatela avesse inteso far emergere anche l'azione per i fatti illeciti degli amministratori, in violazione dell'art. 345 c.p.c. Avverso tale statuizione ha proposto ricorso in Cassazione il fallimento soccombente, sostenendo che: a) la sentenza di secondo grado avrebbe violato l'art. 345 c.p.c., in quanto erroneamente si sarebbe ritenuta la novità della domanda volta al risarcimento del danno patito dalla società alla sua consistenza patrimoniale in concorso con gli amministratori, in quanto, in realtà, sin dall'atto di citazione la procedura aveva agito per ottenere la reintegrazione del patrimonio della società fallita depauperato per fatti imputabili agli amministratori in concorso con le banche, attesa l'abusiva concessione di credito; b) si sarebbe configurata una violazione o falsa applicazione degli artt. 2055 c.c., 102 c.p.c. e 146 l.fall., in quanto il mancato coinvolgimento degli amministratori non sarebbe stato tale da mutare la natura dell'azione proposta verso le banche, essendo i primi meri litisconsorti facoltativi rispetto alle pretese risarcitorie dedotte in giudizio; c) la statuizione conterrebbe, inoltre, la violazione o falsa applicazione degli artt. 2 Cost., 1175, 1375 e 2043 c.c., nonché artt. 43, 146, 217, 218 e 240 l.fall., in quanto anche nel caso di specie il curatore attenderebbe alla propria funzione di conservazione del patrimonio del debitore, quale garanzia del diritto della massa dei creditori, attraverso l'esercizio delle c.d. azioni di massa dirette, nell'interesse dei creditori, a ricostituire il patrimonio del fallito; secondo la ricorrente, infatti, la concessione di finanziamenti abusivi avrebbe recato danno direttamente al patrimonio dell'imprenditore, in quanto l'erogazione di nuova finanza o la conservazione delle linee di credito preesistenti ne avrebbe permesso la permanenza in attività e l'ulteriore aggravamento del dissesto dell'imprenditore, di cui il curatore – ex art. 43 e 240 l.fall. – ben potrebbe richiedere il ristoro.
La S.C. ha affrontato congiuntamente i suddetti motivi di doglianza e, all'esito di un'ampia ricostruzione della natura e dei presupposti costitutivi dell'abusiva concessione di credito, ha accolto il ricorso affermando i seguenti principi di diritto: “l'erogazione del credito che sia qualificabile come "abusiva", in quanto effettuata - con dolo o colpa - ad impresa che si palesi in una situazione di difficoltà economico-finanziaria ed in mancanza di concrete prospettive di superamento della crisi, integra un illecito del soggetto finanziatore, per essere egli venuto meno ai suoi doveri primari di una prudente gestione, che obbliga il medesimo al risarcimento del danno, ove ne discenda l'aggravamento del dissesto favorito dalla continuazione dell'attività d'impresa”, concludendo che il curatore fallimentare è legittimato ad agire contro la banca per la concessione abusiva del credito, in caso di illecita nuova finanza o di mantenimento dei contratti in corso, che abbia cagionato una diminuzione del patrimonio del soggetto fallito, per il danno diretto all'impresa conseguito al finanziamento e per il pregiudizio all'intero ceto creditorio a causa della perdita della garanzia patrimoniale ex art. 2740 c.c. e che, ulteriormente, la responsabilità della banca può eventualmente sussistere in concorso con quella degli organi sociali senza che sia necessario l'esercizio congiunto delle azioni, trattandosi di mero litisconsorzio facoltativo.
Il riferimento alla “sana e prudente gestione dei soggetti vigilati” (così l'art. 5 del D.Lgs. 01/09/1993, n. 385, c.d. T.U.B.), come pure la necessità che la Banca d'Italia intervenga al fine di assicurare, fra l'altro, “a) l'adeguatezza patrimoniale; b) il contenimento del rischio nelle sue diverse configurazioni” (art. 53 T.U.B.), l'estensione degli obblighi di verifica del “merito creditizio” persino al settore del credito al consumo (art. 124 bis T.U.B.) non rappresentano, ad avviso dello scrivente, mere disposizioni interne all'ordinamento bancario operanti nella sola relazione fra autorità di vigilanza e soggetti bancari vigilati, ma sono espressione di regole di condotta più generali la cui violazione può determinare effetti diretti in capo ai terzi (su tale conclusione del resto – per fare un esempio solo indirettamente collegato a quello in esame – poggia la più recente ricostruzione del S.C. in termini di nullità contrattuale dell'operazione di credito fondiario che abbia superato i limiti di finanziabilità di cui all'art. 30 comma 2 dello stesso T.U.B. così come attuato con delibera 22 aprile 1995 del CICR: cfr. sul punto Cass., 13/07/2017, n. 17352; conformi Cass., 16/03/2018, n. 6586; Cass., 12/04/2018, n. 9079; Cass., 09/05/2018, n. 11201; Cass., 26/05/2018, n. 13286; Cass., 24/09/2018, n. 22446; Cass., 19/11/2018, n. 29745, nonché Cass., 28/06/2019, n.17439, quest'ultima anche in termini di possibile riqualificazione contrattuale piuttosto che di vera e propria invalidità negoziale). Tale conclusione, peraltro, è espressamente affermata – sulla scorta di molteplici ulteriori disposizioni, anche sovranazionali – dalla decisione in commento, in particolare in ordine alla ricostruzione della responsabilità della banca per violazione dei doveri di diligenza professionali, ex artt. 1176 comma 2 e 2082 c.c. Ai fini della delimitazione dei confini della fattispecie di responsabilità, in disparte l'ammessa natura dolosa o colposa della stessa - la decisione della S.C. parte dal rilievo – ampiamente condiviso dalla dottrina – secondo cui la legislazione di settore auspica ormai, in molteplici disposizioni della legge fallimentare ed anche nella stessa Direttiva c.d. Insolvency – il sostegno finanziario alle imprese in crisi, giungendo così ad affermare che la liceità dell'intervento bancario non può essere messa in dubbio quando riguardi una “impresa suscettibile, secondo una valutazione ex ante, di superamento della crisi o almeno di razionale permanenza sul mercato, sulla base di documenti, dati e notizie acquisite, da cui sia stata in buona fede desunta la volontà e la possibilità del soggetto finanziato di utilizzare il credito allo scopo del risanamento aziendale, secondo un progetto oggettivo, ragionevole e fattibile”. Tutto ciò richiede – prosegue la motivazione - che “nella formulazione delle proprie valutazioni, la banca proceda secondo lo standard di conoscenze e di capacità, alla stregua della diligenza esigibile da parte dell'operatore professionale qualificato, e ciò sin dall'obbligo ex ante di dotarsi dei metodi, delle procedure e delle competenze necessari alla verifica del merito creditizio”. Appare evidente che l'applicazione di tale principio nel caso concreto, da parte del giudice del merito, non è scevra da talune difficoltà. Tale analisi, infatti, se appare mitigata nelle vicende nelle quali l'intervento finanziario si colloca nell'ambito di una procedura concorsuale per la quale sussistono obblighi di pubblicità legale e l'intervento autorizzativo o comunque l'omologazione dell'autorità giudiziaria (essenzialmente concordato preventivo ed accordi di ristrutturazione dei debiti), appare certamente più complessa per quelle operazioni di turnaround aziendale inserite nell'ambito di un piano attestato di risanamento (nel quale si pone il problema di apprezzare secondo una logica ex ante la persuasività del giudizio di fattibilità reso dall'attestatore, in presenza di oneri di pubblicità soltanto facoltativi, come previsto dall'ultimo periodo dell'art. 67 comma 3 lett. d) l.fall., inserito dal d.l. n. 83/2012 convertito in l. n. 134/2021). Per raggiungere poi un grado di complessità ancora ulteriore in quelle situazioni in cui il finanziamento si collochi al di fuori di una procedura concorsuale vera e propria, con un possibile effetto, certamente del tutto indiretto, che potrebbe comportare una complessiva restrizione del credito, cui pure anche il recente legislatore dell'emergenza da Covid-19 ha inteso ovviare e stimolare (si pensi per fare un esempio al d.l. “Liquidità”, 08/04/2020, n. 23, convertito con Legge 05/06/2020, n 40). Così ricostruito, il tema si sposta a questo punto sulla questione relativa alla legittimazione attiva del curatore e, ancor prima, al tema degli interessi lesi dall'abusivo comportamento della banca. La sentenza in esame, proprio partendo da quanto affermato con la decisione resa da Cass. n. 9983/2017, arriva a sostenere che se pure è vero che il curatore non può sostituirsi ai singoli creditori che abbiano subito un proprio danno, diretto e specifico, dall'attività di finanziamento abusiva, nondimeno lo stesso può senza dubbio agire per tutelare l'interesse di tutti i creditori alla ricostituzione del patrimonio dell'impresa ed al ripristino della garanzia patrimoniale che lo stesso rappresenta, ex art. 2740 c.c., per tutti i creditori. In altri termini il curatore, agendo a tutela dell'interesse della società, agirebbe al contempo per la salvaguardia di tutti i creditori che potrebbero poi soddisfarsi sul patrimonio così ricostruito secondo le regole del concorso, dovendosi riconoscere quale presupposto comune la diminuzione del patrimonio sociale a causa dell'artificiosa prosecuzione dell'attività di impresa con aggravamento del dissesto. Peraltro, il revirement in esame afferma espressamente la plurioffensività del comportamento della banca, da cui il possibile concorso di diverse fattispecie di responsabilità che il curatore dovrà individuare distintamente allorchè svolga le proprie pretese in giudizio, come pure il giudice saper correttamente interpretare e delimitare quando tale deduzione non sia propriamente specifica e sorga questione circa la natura ed il titolo dell'azione esercitata.
Secondo la decisione di giugno 2021 (come detto già ribadita da una ulteriore decisione speculare della S.C.), infatti, possono delinearsi distinte e concorrenti ipotesi di responsabilità: a) può in primo luogo continuare a verificarsi il caso, già storicamente delineato, in cui uno specifico creditore lamenti un danno individualmente subito proprio a causa della concessione abusiva di credito: si tratta di un'azione extracontrattuale, concettualmente simile a quella esercitabile dal terzo ex art. 2395 c.c., rispetto alla quale il curatore è certamente estraneo e privo di legittimazione attiva; b) può in secondo luogo ancora ipotizzarsi una responsabilità dell'istituto di credito derivante dal concorso fra il comportamento del proprio “infedele” funzionario e la violazione dei doveri dell'amministratore, riconducibile alla figura del concorso del fatto illecito del terzo nell'inadempimento degli organi gestori, eventualmente rilevante anche sul piano penale nell'ipotesi in cui si configuri un concorso nel reato di bancarotta: nulla di nuovo anche in questo caso, in quanto la decisione di Cass. n. 13413/2010 aveva già prefigurato tale situazione pur non potendosene in concreto occupare per la violazione del principio di autosufficienza del ricorso che in tale giudizio si era verificato; inoltre, anche la successiva Cass. n. 9983/2017 aveva poi espressamente applicato tale conclusione; c) può ancora predicarsi un pregiudizio all'integrità patrimoniale dell'imprenditore e quindi alla garanzia generica che lo stesso offre a tutti i suoi creditori, con l'ulteriore specificazione che in tal caso potrà concorrere sia un titolo di responsabilità contrattuale (per violazione dei doveri della banca ai principi di prudenza e di valutazione del merito creditizio nella contrattazione in corso con l'impresa poi finanziata) che il curatore “rinviene” nel patrimonio del fallito, sia una fattispecie di responsabilità extracontrattuale che pure il curatore può azionare nella misura in cui si lamenti la diminuzione patrimoniale subita dall'impresa proprio a causa del finanziamento elargito in una situazione nella quale erano ormai venute meno la continuità e la reversibilità dello stato di crisi in cui versava l'impresa, la quale ha così potuto continuare la propria attività aumentando il proprio dissesto e provocando perciò un danno riflesso, ma eziologicamente collegato, su tutti i creditori nel loro complesso, per diminuzione della garanzia patrimoniale, ex art. 2740 c.c.; con l'ulteriore conseguenza, secondo la decisione in commento, che a questa seconda azione neppure potrebbe applicarsi – quale fattore volto a circoscrivere la responsabilità o il danno – il concorso di cui all'art. 1227 c.c.; d) può infine parlarsi – secondo l'autorevole sentenza dello scorso giugno - non solo di abusiva concessone, ma anche di abusivo mantenimento del credito, quando il finanziamento fosse stato concesso in una situazione non ancora di insolvenza dell'impresa sovvenzionata e, tuttavia, verificatasi tale circostanza la banca - che potesse ragionevolmente percepire tale peggioramento delle condizioni – abbia mantenuto in essere il credito senza revocarlo, compiendo così una violazione ai doveri contrattualmente assunti, ex artt. 1218 e 1375 c.c., non eseguendo il contratto secondo buona fede. Osservazioni conclusive
Il titolo di responsabilità fondamentalmente individuato nel caso dell'abusiva concessione del credito, con un'assoluta novità della decisione richiamata, viene ricondotto a quella precontrattuale, ex art. 1337 c.c., per violazione delle prescrizioni generali e speciali che presidiano l'agire del bonus argentarius, attraverso la concessione del credito ad un soggetto altrimenti destinato ad uscire dal mercato, ovvero a quella contrattuale laddove il caso riguardi l'abusiva protrazione di linee di credito già esistenti. Ed a fondamento di tale ricostruzione si richiamano le note Sezioni Unite n. 26724 e 26725 che nel 2007 di occuparono del fenomeno – peraltro diverso – della responsabilità dell'intermediario finanziario rispetto all'investitore non reso edotto dei rischi collegati allo strumento finanziario prescelto. Tali Sezioni Unite deve immediatamente aggiungersi, avevano inoltre ricondotto la violazione dei doveri in sede di conclusione del contratto ad una forma di responsabilità precontrattuale ritenuta quale species di quella contrattuale, così da consentire la risarcibilità non solo del c.d. interesse contrattuale negativo, ma anche di quello positivo, dando perciò luogo ad un possibile ristoro del pregiudizio completo e non limitato alle spese ed alle c.d. “occasioni perdute” (vds. Cass., S.U., 19/12/2007, nn. 26724 e 26725, in Foro it., 2008, I, 784, con nota di Scoditti e in Giust. Civ., 2008, I, 1175, con nota di Nappi). E' perciò evidente che tale “apparentamento” si riflette sulla stessa area del danno risarcibile. Con l'estensione di tali conclusioni alla materia dell'abusiva concessione di credito, affermata dal nuovo indirizzo del S.C., a parere dello scrivente si pongono forse le premesse per un necessario intervento chiarificatore delle Sezioni Unite in quanto, oltre alla questione della legittimazione del curatore (che in motivazione viene comunque giustificata anche in relazione al dato che il fallimento aveva già di fatto agito verso gli amministratori con costituzione di parte civile in sede penale e, quindi, con modalità sovrapponibile a quanto già osservato dalla S.C. nel 2017 e con il richiamato obiter del 2010), viene oggi affermata una diversa ricostruzione della natura della responsabilità della banca, consentendo di essere fatta valere dal curatore con l'esercizio di un'azione innovativamente ritenuta di massa. La dottrina prevalente e le stesse precedenti decisioni della S.C. sembravano invece opinare nel senso di una nozione extracontrattuale della responsabilità qui affrontata, fondata cioè sul neminem laedere, secondo il paradigma accordato all'azione ex art. 2395 c.c., oppure – secondo l'alternativa teoria della corresponsabilità con gli organi sociali – nel quadro del concorso del fatto illecito del terzo nell'inadempimento contrattuale dell'amministratore. Sotto altro profilo, e quale più evidente conseguenza processuale, la proposta natura precontrattuale (ma nei termini esposti dalle S.U. del 2007 che ne ricostruivano la figura quale species del genus da contratto o da “contatto sociale”) o contrattuale tout court della responsabilità, porta con sé le inevitabili conseguenze in termini di onere della prova, spettando a quel punto all'istituto di credito convenuto dimostrare di aver correttamente adempiuto ai doveri di prudenza e “adeguata verifica” del merito creditizio sullo stesso incombente, essendo invece l'onere della parte asseritamente danneggiata di tipo essenzialmente assertivo. Tale diverso atteggiarsi dell'onus probandi che ne potrebbe derivare, pur mitigato dal necessario assolvimento di oneri di allegazione specifica da parte del curatore e dalla necessità per il medesimo di offrire una prova specifica del danno che sia causalmente derivato dall'inadempimento, appare conseguenza forse eccessiva rispetto ad un quadro normativo che, come esaustivamente ricordato nelle premesse motivazionali del dictum della S.C. in commento, non solo considera lecito di per sé il finanziamento alle imprese in crisi (che non abbiano già irrimediabilmente perduto le proprie chances di ristrutturazione) ma giunge anche con recenti interventi emergenziali ad incentivarlo, offrendo al riguardo un'ampia serie di garanzie pubbliche tramite il Fondo per le P.M.I. e l'intervento di SACE. Una ulteriore conseguenza che è agevole individuare, inoltre, comporta la riconduzione della così ridefinita nozione di responsabilità della banca sotto il termine di prescrizione ordinaria decennale, così consentendo alle curatele fallimentari di poter rimettere in discussione vicende anche assai lontane nel tempo, ed anche laddove le stesse non potessero più essere azionate nei confronti degli amministratori. L'eventuale prescrizione della domanda nei confronti di questi ultimi, infatti, non potrà giovare all'istituto di credito, posto che – come pure ad altri fini afferma la decisione qui annotata sulla scita di un orientamento peraltro consolidato – in caso di più condebitori solidali non sussiste una ipotesi di litisconsorzio necessario, ma facoltativo, potendo il soggetto asseritamente danneggiato proporre le proprie richieste risarcitorie per l'intero danno subito anche solo nei confronti di uno o più dei responsabili (solitamente quello più solvibile), pur se la stessa sia fondata su titoli di responsabilità eterogenei. Importanti appaiono inoltre le ricadute sul piano strettamente concorsuale. Si deve qui partire dall'affermazione del S.C., certamente importate, secondo cui è ben possibile che il finanziatore possa risultare ad un tempo debitore per l'azione risarcitoria esercitata dal curatore e creditore per la restituzione delle somme finanziate. Ma è evidente che, applicandosi l'istituto della compensazione sia ordinaria (art. 1241 e ss. c.c.) che fallimentare (art. 56 l.fall.), e dovendo la banca sottostare al concorso formale, con la necessità di insinuarsi previamente allo stato passivo del fallimento al fine di poter poi eventualmente concorrere ai riparti effettuati in sede concorsuale, sarà a questo punto molto più agevole per molti curatori – invece di esercitare ex novo l'azione risarcitoria con i conseguenti costi, durata ed alea del giudizio - limitarsi ad attendere l'iniziativa della banca ed eccepire l'inadempimento contrattuale e la conseguente responsabilità della stessa, così da escludere direttamente o limitare il credito insinuato allo stato passivo attraverso l'invocata compensazione con il credito risarcitorio derivante alla società fallita dall'indebito finanziamento ricevuto. In tal modo la complessità delle presenti questioni e degli accertamenti connessi potrebbe trasferirsi in sede di opposizione allo stato passivo, dove è evidente che – anche in relazione all'onere della prova conseguente ed alle decadenze processuali più stringenti – l'istituto di credito non di rado potrebbe incontrare maggiori difficoltà a dimostrare la correttezza del proprio operato. Per non parlare del fatto che, in tal caso, il merito del giudizio finirebbe per svolgersi – di fatto – in un unico grado, con una compressione dei diritti di difesa delle parti coinvolte forse preoccupante. Ulteriore conseguenza, che pure la importante decisione del giugno 2021 cerca di circoscrivere, è una possibile restrizione complessiva del credito a favore delle imprese in crisi o semplicemente “a corto” di liquidità. Le banche e gli operatori finanziari sono infatti chiamati da queste regole di imputazione della responsabilità ad organizzarsi in modo virtuoso, dotandosi di strutture per la verifica scrupolosa del merito creditizio del soggetto sovvenzionato non soltanto al momento della concessione del credito ma, almeno periodicamente, anche durante tutta la vita del finanziamento stesso, al fine di accertare – sia pure in un eventuale giudizio con una verifica fondata sul criterio della prognosi postuma – se l'impresa da finanziare abbia un semplice problema di liquidità oppure si trovi in uno stato di crisi o, addirittura, di insolvenza non più reversibile. Proprio tali difficoltà, i costi organizzativi, il timore di possibili future azioni risarcitorie, potrebbero comportare un restringimento del credito alle imprese che – come sopra si è avvertito richiamando anche recenti interventi legislativi emergenziali – il Legislatore vuole invece scongiurare. In tale ottica, potrebbero venire in considerazione e risultare d'aiuto non soltanto le tradizionali soluzioni alternative al fallimento – come, ad esempio, il piano attestato ex art. 67 comma 3 lett. d) l.fall. – ma anche il nuovissimo istituto della composizione negoziata, previsto dal recente d.l. 24 agosto 2021, n. 118 (in G.U. n. 202 del 24/08/2021), posto che la presenza dell'esperto indipendente, l'inserimento del finanziamento all'interno di accordi raggiunti all'esito delle trattative con i creditori e la presenza di un piano industriale che in tale sede sia stato ritenuto attendibile e concretamente praticabile, ben potrebbero successivamente rilevare in un eventuale giudizio risarcitorio al fine di poter dimostrare, da parte della banca convenuta, che al momento della elargizione della “nuova finanza” vi erano ancora concrete possibilità di risanamento dell'impresa e non era conseguentemente prevedibile il suo successivo tracollo, da cui – ulteriormente – la natura non abusiva della concessione di credito e l'assenza di responsabilità. La sentenza resa dalla Cassazione lo scorso 30 giugno appare, in definitiva, un precedente importantissimo ed in parte distonico rispetto al panorama giurisprudenziale evolutivo che si è sinteticamente tratteggiato ma che, proprio per l'importanza delle sue ricadute, alcune delle quali qui solo prefigurate, necessita da un lato di un'opera di più profondo approfondimento sistematico e – probabilmente – richiede, dall'altro, un nuovo intervento delle Sezioni unite, posto che quelle del 2006 dianzi ricordate, se pure è vero che non avevano avuto modo di potersi occupare del tema del danno eventualmente subito dallo stesso contraente finanziato per la novità della domanda svolta in quel giudizio, avevano tuttavia espressamente ritenuto la natura extracontrattuale della eventuale responsabilità connessa e l'impossibilità di ricondurne la tutela ad un'azione di massa esercitabile dal curatore, aspetti invece che rappresentano il fulcro di questo nuovo indirizzo giurisprudenziale.
In termini necessariamente sintetici, per un primo approfondimento, vds. BALESTRA, Responsabilità per abusiva concessione del credito e legittimazione del curatore, in AA.VV., Le azioni di responsabilità nelle procedure concorsuali (a cura di L. Balestra), Milano, 2016, 191; DI MARZIO, Concessione abusiva di credito, in Enc. Diritto, Annali VI, Milano, 2013; ID., L'abuso nella concessione del credito, in Contr. Impr., 2015, 318; GALLETTI, La ripartizione del rischio dell'insolvenza, Bologna, 2006; FAROLFI, Sulla concessione abusiva di credito e la legittimazione del curatore, in giustiziacivile.com; INZITARI, L'azione del curatore per abusiva concessione di credito, in ildirittodellacrisi.it; IORIO, Concessione abusiva di credito, fallimento, responsabilità della banca e legittimazione del curatore, in Giur. comm., 2018, 262, nonché l'ulteriore bibliografia ivi richiamata. In giurisprudenza, senza pretese di esaustività, cfr. Cass., S.U., 28/03/2006, n. 7029,7030,7031, in Giur. It., 2006, 1191; Cass. 23/07/2010, n. 17284, in Fallimento, 2010, 305; Cass. 01/06/2010, n. 13413, ivi, 306; Cass. 20/04/2017, n. 9983, in Giur. comm., 2018, 262; Cass. 14/05/2018, n. 11695, in Guida dir., 2018, 24, 37; nella giurisprudenza di merito si ricordano, quali meri esempi degli opposti orientamenti rinvenibili, Trib. Monza, 12/09/2007, in Danno e resp., 2008, 1159 e Trib. Parma, 10/01/2013. Più recentemente cfr. anche Corte app. Perugia, 22/11/2019; Trib. Bologna, 13/07/2017 e Trib. Prato, 15/02/2017, in Giur. comm., 2018, II, 236.
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