Stop al processo Regeni: manca la prova della conoscenza del processo da parte degli imputati egiziani, la Corte d'Assise restituisce gli atti al Gup

26 Ottobre 2021

Dopo cinque anni di indagini, faticose e accidentate, dati anche i ripetuti tentativi di depistaggio e l'ostruzionismo del Governo egiziano, il processo Regeni, giunto alle soglie del dibattimento, ha subito una battuta d'arresto. La Corte d'Assise di Roma ha dichiarato la nullità della declaratoria di assenza e del conseguente decreto che ha disposto il giudizio nei confronti dei quattro egiziani accusati della morte del giovane ricercatore determinando, nell'immediato, la paralisi del giudizio...
Abstract

Dopo cinque anni di indagini, faticose e accidentate, dati anche i ripetuti tentativi di depistaggio e l'ostruzionismo del Governo egiziano, il processo Regeni, giunto alle soglie del dibattimento, ha subito una battuta d'arresto.

La Corte d'Assise di Roma ha dichiarato la nullità della declaratoria di assenza e del conseguente decreto che ha disposto il giudizio nei confronti dei quattro egiziani accusati della morte del giovane ricercatore determinando, nell'immediato, la paralisi del giudizio. Gli atti sono stati, infatti, restituiti al giudice per l'udienza preliminare, il quale dovrà fissare una nuova udienza e ritrasmettere gli atti in Procura per una nuova rogatoria in Egitto, volta ad acquisire le informazioni utili a rendere effettiva e non solo presunta la conoscenza del processo in capo agli interessati. In difetto di ciò e, dunque, nell'impossibilità di reperire gli imputati, il processo dovrà essere sospeso e periodicamente rinnovate le ricerche degli stessi.

Data la gravità dei fatti, non è strano che tale provvedimento abbia suscitato tanto clamore nell'opinione pubblica.

Come si cercherà di evidenziare si tratta, però, di una decisione che nasce dalla corretta applicazione della disciplina del giudizio in assenza, disciplina che richiede, per poter procedere nei confronti di un soggetto non presente, la certezza in ordine alla sua conoscenza del processo, pena un insanabile pregiudizio per il diritto di difesa e la violazione dei principi del giusto processo.

Il quadro normativo di riferimento

Per comprendere come sia maturata la decisione assunta dalla Corte d'Assise di Roma, occorre ricostruire brevemente il quadro normativo di riferimento.

La riforma del 2014, con la quale il nostro sistema ha sostituito alla figura del contumace quella dell'assente, ha confermato l'impostazione tradizionale per cui la partecipazione al processo è un diritto dell'imputato, e non un obbligo. La non presenza dell'imputato al processo non è, dunque, di per sé ostativa allo svolgimento del giudizio, purché sia espressione di una scelta difensiva. Occorre, dunque, che l'imputato sia stato posto nella condizione di poter decidere se parteciparvi o meno e ciò postula la conoscenza della vocatio in iudicium.

Orbene, la certezza della conoscenza della data dell'udienza preliminare si ha in due situazioni:

  • quando l'imputato abbia ricevuto personalmente la notifica dell'avviso di fissazione dell'udienza;
  • oppure quando abbia rinunciato espressamente a comparire all'udienza (art. 420-bis comma 1 c.p.p.).

Il processo può, poi, svolgersi in assenza in una serie di situazioni in cui, secondo il legislatore, si può ritenere che l'imputato sia al corrente del procedimento. In particolare, a norma del comma 2 dell'art. 420-bis c.p.p., qualora l'imputato «nel corso del procedimento abbia dichiarato o eletto domicilio, ovvero sia stato arrestato, fermato o sottoposto a misura cautelare, ovvero abbia nominato un difensore di fiducia». Si tratta, nel complesso, di situazioni in cui si continua a permettere che il processo si svolga in forza di presunzioni di conoscenza. Invero, le ‘‘ipotesi di conoscenza tipizzata'', altro non sono che situazioni in cui si valorizza il contatto con l'autorità o l'attivazione del soggetto ‘‘per superare l'obbligo di citazione al processo'', senza che risulti in alcun modo dimostrato che da esse discenda sempre e comunque quella conoscenza ‘qualificata' del processo su cui tanto insistono il giudice di Strasburgo e il legislatore europeo. Sebbene non si possa escludere che tali indici possano essere talvolta sintomatici di conoscenza, sicuramente è stata di dubbia ragionevolezza la scelta del legislatore di generalizzarne il valore, imponendo al giudice rigidi automatismi. Sarebbe stato, infatti, preferibile rimettere alla libera valutazione dell'organo giudicante l'individuazione delle situazioni, in cui è possibile presumere la conoscenza del processo da parte dell'interessato.

Non a caso sia la dottrina, sia la giurisprudenza (Cass. sez. unite, 28 novembre 2019, n. 23948, RV 279420; Cass. sez. III 24 novembre 2020, n. 11813, RV 281483) hanno suggerito una lettura correttiva dell'attuale disciplina, ritenendo che, pur in presenza di uno degli indici sintomatici, il giudice debba comunque accertare la sussistenza nel caso concreto di elementi da cui desumere, con certezza, l'acquisita conoscenza del processo da parte dell'imputato. Una diversa lettura, tradirebbe gli insegnamenti della Corte di Strasburgo, poi recepiti dal legislatore europeo nella direttiva (UE) 343/2016, secondo cui è possibile che un giudizio si svolga in assenza purché ciò rappresenti il frutto di una scelta e, dunque, solo se l'accusato è stato posto nelle condizioni per esercitare il diritto alla presenza, il che postula la conoscenza effettiva dell'imputazione e della data e del luogo dell'udienza.

Si può, infine, procedere in assenza, anche se l'imputato non ha ricevuto il decreto di citazione a mani proprie, quando «risulti con certezza che [il medesimo] si è volontariamente sottratto alla conoscenza del procedimento o di atti del medesimo».

La possibilità di procedere in quest'ultimo caso - che è poi quello che rileva nella vicenda in esame - trova fondamento nelle regole della risoluzione n. (75) 11 che autorizza a limitare i diritti partecipativi dell'imputato qualora «si sia accertato che egli ha deliberatamente cercato di sottrarsi alla giustizia». Occorre precisare che in forza di tali regole (n. 1 e n. 6), non è possibile instaurare rigidi automatismi tra latitanza e/o irreperibilità e possibilità di procedere in assenza, poiché ciò sarebbe in contrasto con gli insegnamenti della Corte Edu. Il giudice europeo, infatti, ha spesso ricordato che la semplice qualità di latitante o irreperibile non basta a fondare presunzioni di rinuncia a comparire e che non spetta all'imputato dimostrare che non intendeva sottrarsi alla giustizia ma allo Stato fornire la prova della condotta elusiva (Corte europea dei diritti dell'uomo, 1-3-2006, Sejdovic c. Italia, § 87 e 88), prova che non può desumersi dal fatto che il soggetto si sia allontanato dalla dimora abituale. Infatti, un tale atteggiamento, qualora non risulti dimostrata la ricezione da parte dell'interessato di una comunicazione formale di un processo a proprio carico, dovrebbe essere considerato neutro, ossia espressione della originaria autonomia di movimento di cui gode ogni individuo e non indice di volontaria sottrazione al giudizio.

Il provvedimento del Gup e le ragioni dell'annullamento

La decisione del Gup che ha disposto il rinvio a giudizio dei quattro egiziani nasce dalla valorizzazione di diversi indici che, secondo il giudice, valutati cumulativamente, consentivano di affermare con assoluta certezza la conoscenza da parte degli imputati della pendenza e degli sviluppi terminativi del procedimento instaurato a loro carico e del giorno fissato per la celebrazione dell'udienza preliminare, dal quale essi si sarebbero volontariamente sottratti.

Nello specifico, nel suo provvedimento egli fa leva sul fatto che gli indagati fossero stati sentiti reiteratamente dalle autorità nel corso delle indagini, sul ruolo di apicali dagli stessi ricoperto negli apparati investigativi egiziani, che li rendeva sicuramente al corrente degli sviluppi del procedimento, nonché sulla “straordinaria e capillare” copertura mediatica che ebbero le notizie relative a tale procedimento e alla qualità di indagati ricoperta dai soggetti poi imputati.

Gli stessi elementi, sono stati, invece, ritenuti, dalla Corte di Assise di Roma, inidonei a dimostrare con certezza che gli imputati fossero a conoscenza della vocatio in iudicium.

Intanto, per i giudici del collegio ha assunto valore dirimente il fatto che gli imputati non fossero mai stati raggiunti da alcun atto ufficiale, data l'impossibilità di notificare presso un indirizzo determinato gli atti giudiziari a loro destinati. Invero, sebbene individuati quali appartenenti alla NSA e alle Investigazioni Giudiziarie del Cairo, non furono acquisite informazioni in merito alla residenza, al domicilio, alla dimora o altre informazioni oltre a quelle relative alla loro data di nascita. Le richieste inoltrate dall'Italia all'autorità giudiziaria egiziana, non ebbero, infatti, alcun esito nonostante i reiterati solleciti per via diplomatica e giudiziaria e gli appelli ufficiali di risonanza internazionale effettuati dalle massime autorità dello Stato italiano.

In secondo luogo, secondo la Corte d'Assise di Roma, dagli atti di indagine e dai verbali delle informazioni assunte dagli attuali imputati, poteva emergere che essi avevano una conoscenza dello stato delle indagini, quindi dell'esistenza del procedimento, ma non anche una conoscenza specifica dei contenuti dell'accusa a ciascuno di essi successivamente mossa, considerato che i loro nomi soltanto in epoca successiva furono iscritti dal pubblico ministero nel registro delle notizie di reato.

Infine, anche il tema del clamore mediatico del procedimento non poteva considerarsi risolutivo. Infatti, se è innegabile che la vicenda abbia avuto una notevole risonanza mediatica è altrettanto vero che solo i media internazionali (e non quelli arabi) avevano riportato richiami anche nominativi alle persone degli imputati come soggetti attinti dalle indagini della magistratura italiana. Senza contare che, in ogni caso, una conoscenza vaga e non ufficiale del processo, non autorizzava a ritenere provata con certezza la volontà degli imputati di sottrarsi alla giustizia.

Insomma, per la Corte d'Assise di Roma, tutti gli elementi valutati dal Gup avevano valore di meri dati presuntivi, dai quali sarebbe stato possibile inferire, «con ragionevole certezza, la sola conoscenza da parte degli imputati della esistenza di un procedimento penale a loro carico, ma non certo quella più pregnante conoscenza – che rileva ai fini della instaurazione di un corretto rapporto processuale – relativa alla vocatio in iudicium davanti al GUP (e poi davanti a questa Corte) con riferimento alle specifiche imputazioni elevate a loro carico».

E se non era possibile affermare che fosse dimostrato con ragionevole grado di certezza che gli imputati avevano una conoscenza sufficiente dell'azione penale e delle accuse a loro carico, non era possibile neanche concludere che essi abbiano tentato di sottrarsi alla giustizia o che abbiano rinunciato in maniera non equivoca al loro diritto di partecipare al giudizio.

Del resto, ad avviso della Corte di Assise, anche se alcuni degli argomenti evidenziati dalla Procura dimostravano senza dubbio una assenza di leale collaborazione delle autorità giudiziarie egiziane, tuttavia, non vi era prova che alcuno degli imputati avesse avuto un ruolo, anche solo sul piano morale, nelle determinazioni assunte dallo Stato egiziano nel prestare una collaborazione sleale ovvero nel negare la collaborazione. In ogni caso, a fronte di una insufficiente prova della conoscenza dei contenuti dell'accusa da parte degli imputati «nessun comportamento avrebbe potuto essere valutato come espressione di una volontaria sottrazione», non potendo affermarsi che gli imputati abbiano voluto sottrarsi da un processo, i cui contenuti non erano loro sufficientemente noti.

In conclusione

Il processo Regeni ha subito una battuta d'arresto da molti considerata una sconfitta delle istituzioni.

Ma se questo è un giudizio che può forse formularsi sul piano politico, data l'incapacità del nostro Governo di ottenere una seria collaborazione dall'Egitto, necessariamente diversa e più pacata deve essere la valutazione se si guarda alla vicenda da un punto di vista strettamente giuridico.

I giudici della Corte d'Assise di Roma si sono, infatti, limitati ad applicare il principio - che trova il suo fondamento nel dettato costituzionale (art. 24 e 111 Cost.) e convenzionale (art. 6 Cedu e art. 14 patto internazionale dei diritti civile e politici) - secondo cui per procedere nei confronti di un soggetto non presente, occorre la certezza in ordine alla sua conoscenza del processo.

Si tratta di un principio cardine del nostro sistema, come evidenziato in diverse occasioni dalla Corte costituzionale, la quale, ancor prima della riforma del giusto processo scriveva che «garanzia del contraddittorio [...] significa che la legge deve assicurare alle parti e […] all'imputato la possibilità di partecipare al dibattimento per l'esercizio dell'attività difensiva consentita, con la conseguenza che soltanto la volontaria rinuncia dell'imputato a presenziare al dibattimento, in quanto espressione di una sua libera e incoercibile scelta difensiva, può giustificare sul piano costituzionale, la limitazione del contraddittorio che in tal modo si attua» (Corte cost., sent., 1 febbraio 1982, n. 9), e che «il giudice […] non può non ritenere necessaria la presenza dell'imputato all'udienza, essendo tale presenza imposta a tutela dei diritti della difesa e anche, caso per caso, a fini di giustizia, per la ricerca della verità» (Corte cost., sent., 9 luglio 1974, n. 213).

Insomma, la compatibilità costituzionale del giudizio in assenza dipende dalla capacità dell'ordinamento di garantire all'interessato la conoscenza della vocatio in iudicium, l'unico atto che possiede qualità tali da fornire all'imputato la consapevolezza necessaria al perfetto esercizio del diritto alla presenza, in ipotesi, anche attraverso una rinuncia ad esso.

Orbene, nel caso di specie la prova della conoscenza dell'accusa e della data e del luogo dell'udienza difettava, essendo emerso dagli atti che gli imputati non furono mai raggiunti dalla notificazione di un atto ufficiale. Il decreto che disponeva il giudizio fu notificato agli imputati non presenti in udienza, mediante consegna di copia dell'atto ai difensori d'ufficio, sul presupposto «che gli stessi si fossero sottratti volontariamente alla conoscenza di atti del procedimento». Sennonché nessun elemento agli atti dimostrava che gli imputati fossero a conoscenza dei contenuti dell'accusa e della data e del luogo dell'udienza, potendo solo presumersi che essi fossero al corrente dell'esistenza di un procedimento penale a loro carico. In considerazione di ciò nessun comportamento avrebbe potuto essere valutato come espressione di una volontaria sottrazione ad un giudizio di cui gli interessati non erano stati in alcun modo notiziati.

Del tutto correttamente l'ordinanza ha, dunque, annullato il provvedimento del giudice per l'udienza preliminare perché ciò ha impedito che il giudizio si instaurasse sulla base di una mera presunzione di conoscenza del procedimento.

Una decisione diversa, che avesse consentito l'incardinarsi del processo non avrebbe tutelato l'interesse dello Stato, né le legittime aspettative delle parti lese. Si sarebbe, infatti, trattato di un giudizio affetto da un vizio (nel caso di specie una nullità di carattere assoluto, in quanto tale rilevabile in ogni stato e grado del procedimento) che avrebbe potuto invalidarne lo svolgimento in qualunque momento, allontanando la possibilità di giungere a un accertamento della verità.

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