La traduzione degli atti nei confronti dell'imputato alloglotta: i casi problematici negli orientamenti della Suprema Corte

Giancarlo Caruso
04 Novembre 2021

Il presente lavoro ha ad oggetto l'analisi della disciplina di cui all'art. 143 c.p.p. Diritto all'interprete e alla traduzione di atti fondamentali, come modificata dal d.lgs. n. 32/2014. L'analisi considera gli interventi giurisprudenziali in materia, grazie ai quali si è creato una sorta di “elenco” degli atti che devono essere tradotti, nonché un recente orientamento della cassazione (Cass. pen. sez. VI, n. 30143/2021) che ha ritenuto l'obbligo di traduzione degli atti in favore dell'imputato alloglotta...
Abstract

Il presente lavoro ha ad oggetto l'analisi della disciplina di cui all'art. 143 c.p.p. Diritto all'interprete e alla traduzione di atti fondamentali, come modificata dal d.lgs. n. 32/2014.

L'analisi considera gli interventi giurisprudenziali in materia, grazie ai quali si è creato una sorta di “elenco” degli atti che devono essere tradotti, nonché un recente orientamento della cassazione (Cass. pen. sez. VI, n. 30143/2021) che ha ritenuto l'obbligo di traduzione degli atti in favore dell'imputato alloglotta, non irreperibile né latitante, sussistente a pena di nullità anche nel caso in cui egli abbia eletto domicilio presso il difensore, non avendo quest'ultimo l'obbligo di procedere alla traduzione.

Infine, si affronta l'istituto della rescissione del giudicato nei confronti dell'imputato alloglotta ove si sia proceduto in sua assenza e a cui non sia stata effettuata la traduzione degli atti, per, infine, concludere sulla traduzione degli atti quale meccanismo di attuazione del principio del processo equo ai sensi dell'art. 6 Cedu.

L'istituto della traduzione degli atti disciplinato dall'art. 143 c.p.p. nella nuova formulazione operata dal d.lgs. n. 32/2014, in attuazione della direttiva 2010/64/UE

Il d.lgs.n.32 del 4 marzo 2014 ha attuato la direttiva n. 2010/64 Ue del 20 ottobre 2010 del Parlamento europeo e del Consiglio sul diritto all'interpretazione e alla traduzione nei procedimenti penali. Con l'attuazione della normativa comunitaria viene, in primo luogo, modificata la rubrica della norma di cui all'art. 143 c.p.p.: Diritto all'interprete e alla traduzione di atti fondamentali in luogo a Nomina dell'interprete.

Nonostante l'art. 143 c.p.p. al comma 1 si riferisca soltanto all'imputato, la norma risulta applicabile, senza ombra di dubbio, anche alla persona indagata nonché al condannato che non conoscano la lingua italiana. Indipendentemente dall'esito del procedimento, l'assistenza linguistica è gratuita. La Consulta, infatti, già con la sentenza n. 10 del 19 gennaio 1993, aveva considerato l'istituto della traduzione degli atti e della presenza dell'interprete per l'imputato «clausola generale di ampia applicazione, destinata ad espandersi e a specificarsi, nell'ambito dei fini normativamente riconosciuti, di fronte al verificarsi delle varie esigenze concrete che lo richiedano, quali il tipo di atto cui la persona sottoposta al procedimento deve partecipare ovvero il genere di ausilio di cui la stessa abbisogna» (in dottrina si veda: D. PERUGIA, Processo penale allo straniero: alcune osservazioni sul diritto all'interprete e alla traduzione degli atti,in DPC, 7/2018, 118;A. CAPUTO, Diritto e procedura penale dell'immigrazione,Giappichelli, 2006, 334).

L'art. 143 c.p.p., per come modificato, garantisce dunque il diritto all'assistenza gratuita di un interprete per le comunicazioni con il difensore prima di rendere un interrogatorio, ovvero al fine di presentare una richiesta o una memoria nel corso del procedimento, nel dovere di assicurare un'assistenza linguistica e gratuita e al fine di salvaguardare appieno i diritti della difesa e di tutelare l'equità del procedimento penale. In questo contestosi colloca anche l'art. 104, comma 4-bis, c.p.p. (introdotto con il d.lgs. n.32/2014) il quale sancisce per l'arrestato, il fermato e l'imputato in stato di custodia cautelare il medesimo diritto all'assistenza gratuita di un interprete per conferire con il difensore anche se, di fatto, nella pratica giudiziaria tale assistenza risulta di difficile applicazione, quanto meno nella fase iniziale del procedimento penale.

Su questo argomento preme ricordare che la Consulta - già prima dell'adozione della citata direttiva 2010/64/Ue - con la sentenza n. 254 del 6 luglio 2007 ha dichiarato costituzionalmente illegittimo, in riferimento all'art. 24 cost., l'art. 102 d.P.R. 30 maggio 2002 n. 115 (T.U Spese di giustizia), nella parte in cui non prevede la possibilità, per lo straniero ammesso al patrocinio a spese dello Stato che non conosce la lingua italiana, di nominare un proprio interprete. Le restrizioni limitative della libertà personale e l'eventuale irrogazione di una misura cautelare applicati a un indagato che non comprende la lingua italiana, richiedono di accertare con urgenza la mancata conoscenza della lingua italiana anche per consentire una corretta strategia difensiva allo stesso. L'art. 143 comma 4 c.p.p. prevede che l'accertamento della conoscenza della lingua italiana è compiuto dall'autorità giudiziaria. L'indicazione di autorità giudiziaria in luogo di quella di autorità precedente sembra escludere che tale accertamento possa essere effettuato dalla polizia giudiziaria; in tal caso, quest'ultima dovrebbe contattare il PM affinché provveda a fare effettuare tale accertamento (A. VENEGONI, in Lattanzi-Lupo, Codice di procedura penale, Rassegna di giur. e di dottrina, Vol. II, pag. 225, Giuffré Editore 2017). E ancora, sempre il comma 4 dell'art. 143 c.p.p. prevede la presunzione di conoscenza della lingua italiana per il cittadino italiano, pertanto, a contrario, deve considerarsi presunta per il cittadino straniero la non conoscenza della lingua italiana e spetta al magistrato accertarne l'ignoranza.

La giurisprudenza sul punto è oramai consolidata nel ritenere che il diritto all'assistenza dell'interprete non discende automaticamente, come atto dovuto e imprescindibile, dal mero status di straniero o apolide, ma richiede l'ulteriore presupposto, in capo a quest'ultimo, dell'accertata ignoranza della lingua italiana (v. Cass., sez. III, 27 febbraio 2017 n. 11514).

Il legislatore con il d.lgs. n. 212/2015 ha introdotto gli articoli 90-bis e 143-bis c.p.p. che prevedono il diritto all'interprete quando occorre procedere all'audizione della persona offesa che non conosce la lingua italiana, nonché nei casi in cui la stessa intenda partecipare all'udienza e abbia fatto richiesta di essere assistita dall'interprete.

La traduzione degli atti nei confronti dell'imputato alloglotta, latitante o irreperibile

Per quanto riguarda il diritto alla traduzione degli atti del procedimento penale, il comma 2 dell'art. 143 c.p.p. dispone la traduzione scritta, entro un “termine congruo”, per una serie di atti espressamente elencati: «informazione di garanzia, informazione del diritto di difesa, provvedimenti che dispongono una misura cautelare personale, avviso di conclusione delle indagini preliminari, decreti che dispongono l'udienza preliminare e la citazione a giudizio, sentenze e decreti penali di condanna».

Nella pratica giudiziaria, con il continuo aumento dei processi aventi imputati soggetti stranieri, l'eccezione sulla traduzione degli atti resta tra le più comuni e a individuare quali atti devono essere tradotti, laddove non è intervenuto il legislatore, ci ha pensato la giurisprudenza.

Nei reati previsti dal codice della strada, in cui si deve procedere con urgenza all'accertamento dello stato di ebbrezza a mezzo di alcoltest, è stato ritenuto che, fermo restando l'obbligo di avvisare l'interessato del diritto farsi assistere da un difensore di fiducia ai sensi dell'art. 114 disp. att. c.p.p., non vi è l'obbligo di traduzione del contenuto dell'avviso e dello scopo dell'atto, ai sensi dell'art. 143 c.p.p., per coloro che dichiarano di non comprendere la lingua italiana, in quanto l'attesa per trovare l'interprete o il traduttore rischia di compromettere definitivamente l'esito dell'accertamento legato al decorso del tempo (Cass. pen., sez. IV, 21 febbraio 2019, n. 22081).

L'ordinanza di aggravamento della misura cautelare nei confronti dell'indagato alloglotta deve essere tradotta nella lingua a quest'ultimo nota, atteso che la finalità di assicurare il compiuto esercizio del diritto di difesa, cui è preordinata detta traduzione, presuppone la conoscenza sia degli elementi indiziari, valorizzati ai fini dell'adozione della misura, che delle esigenze cautelari e delle loro modifiche per effetto di circostanze di fatto sopravvenute (Cass. pen.sez. VI, 17 ottobre 2017 n.51951).

In tema di mandato di arresto europeo, l'imputato alloglotta che non conosce la lingua italiana, qualora ne faccia espressa e motivata richiesta, ha diritto di ottenere la traduzione dei documenti fondamentali per il corretto funzionamento della procedura di consegna; un analogo diritto non sussiste, invece, con riferimento alla traduzione scritta di atti compiuti nell'ambito del procedimento estero, che può essere richiesta esclusivamente alla competente Autorità giudiziaria dello Stato di emissione del MAE (Cass.pen., sez. IV, 24 novembre 2016 n. 50814).

Sull'obbligo di traduzione degli atti processuali in favore dell'imputato alloglotta, che si sia reso per causa propria irreperibile o latitante, la giurisprudenza ha escluso l'obbligo di traduzione degli atti (Cass. pen., sez. II, 17 febbraio 2015, n.12101).

La mancata traduzione degli atti determina una nullità generale a regime intermedio ex artt. 178 lett. c) e 179 c.p.p.

Ci potrà essere una nullità assoluta insanabile e rilevabile in ogni stato e grado anche d'ufficio, invece, quando l'omessa traduzione non permetta la vocatio in iudicium e qualora dovessero mancare gli elementi essenziali per garantire la sua consapevole presenza al giudizio (Procedura Penale, a cura di A. Gaito, Milano, 2018, 229).

L'ordine di esecuzione della pena detentiva emesso nei confronti di straniero irreperibile alloglotta, la cui ignoranza della lingua italiana risulti comprovata, va tradotto, a pena di nullità, in un idioma a lui noto (Cass. pen., sez.I, 10 gennaio 2018 n.40733).

Sul punto la giurisprudenza ha ritenuto che la mancata traduzione degli atti comporta una nullità sanabile qualora trattandosi di provvedimento soggetto ad impugnazione, questa sia stata proposta e non si basi sul solo motivo costituito da detta nullità (Cass. pen., sez. VI, 28 novembre 2017 n.195).

Recentemente la Cassazione ha statuito, in tema di traduzione degli atti in mancanza di elementi specifici indicativi di un pregiudizio in ordine alla completa esplicazione del diritto difesa, che l'omessa traduzione della sentenza di appello in lingua nota all'imputato alloglotta non integra una causa di nullità, in quanto dopo la modifica dell'art. 613 c.p.p., l'imputato non ha più facoltà di proporre personalmente ricorso in cassazione (Cass. pen. sez. V, 11 marzo 2019 n.15056).

La traduzione degli atti nei confronti dell'imputato alloglotta che abbia eletto domicilio presso il difensore di fiducia

La giurisprudenza di legittimità è ormai costante nell'affermare che «l'obbligo di traduzione degli atti in favore dell'imputato alloglotta è escluso ove lo stesso si sia posto nella condizione processuale per cui gli atti devono essergli notificati mediante consegna al difensore, non verificandosi in tale ipotesi alcuna lesione concreta dei suoi diritti»(ex multis Cass. pen., sez. VI, 11 giugno 2009, A.D., in Mass. Uff., 244429; Ramadan, Rv. 271860).

Questo principio è stato massimamente declinato nelle ipotesi in cui l'indagato/imputato straniero aveva conferito al proprio difensore un mandato fiduciario ovvero una procura speciale al compimento di determinati atti processuali.

La base teorica sui cui poggia una siffatta impostazione ermeneutica è stata individuata nelle riflessioni espresse dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 136/2008 in materia di rapporto fiduciario tra il difensore ed il proprio assistito. Nel rigettare la questione di legittimità costituzionale dell'art. 157 comma 8-bis del codice di procedura penale, i giudici delle leggi avevano affermato che «la nomina del difensore di fiducia implica l'insorgere di un rapporto di continua e doverosa informazione da parte di quest'ultimo nei confronti del suo cliente, che riguarda ovviamente, in primo luogo, la comunicazione degli atti e delle fasi del procedimento, allo scopo di approntare una piena ed efficace difesa».

L'obbligo che grava sul difensore di fiducia di corretta e tempestiva informazione dell'imputato sugli atti processuali che lo riguardano avrebbe pertanto, come suo corollario, anche l'obbligo-onere di tradurre gli atti nella eventuale diversa lingua del cliente alloglotta o, quantomeno, di farne comprendere allo stesso, comunque, il significato (Cass. pen., sez. V, 6 novembre 2017, n. 57740, Ramadan, cit.).

Il nucleo argomentativo sposato dalle suddette pronunce è stato progressivamente “puntellato” da successive decisioni della Suprema Corte che hanno contribuito a precisare i caratteri e le finalità della dichiarazione di elezione di domicilio nel sistema del processo penale.

Si è sul punto osservato che la dichiarazione di elezione di domicilio, pur presupponendo l'esistenza di un rapporto fiduciario fra il domiciliatario e l'imputato, fa sorgere in capo al primo esclusivamente l'obbligo di ricevere gli atti al primo destinati e di tenerli a sua disposizione (Cass. pen., sez. III, 26 maggio 2003n.22844, Barbiera, Rv. 224870).

Da escludere in toto la possibilità per il domiciliatario di accollarsi – a fortiori se ha assunto la veste di difensore d'ufficio e non già di fiducia - anche l'obbligo-onere di traduzione degli atti nella diversa lingua del cliente alloglotta.

Da questo ragionamento consegue che la mancata traduzione degli atti processuali notificati nel domicilio eletto presso il difensore d'ufficio integra una causa di nullità̀ a norma dell'art. 178 lett. c) c.p.p. (Cass. pen., sez. V, 28 settembre 2016, n. 48916, in proc. Dutu, Rv. 268371).

Con tale pronuncia, i Supremi Giudici hanno affermato che: «attenendo l'elezione di domicilio presso il difensore solo alle modalità̀ di notificazione degli atti processuali, per effetto di essa, l'indagato alloglotta non rinuncia affatto alla lettura ed all'esame degli atti che lo riguardano (necessari per la predisposizione di una più̀ efficace difesa), svolgendo tale elezione, soprattutto ove si tratti di individuo privo di recapiti stabili, la funzione opposta di garantirgli una più̀ sicura conoscenza degli stessi».

I principi affermati dalla suddetta sentenza sono stati ribaditi da recenti arresti della Suprema Corte che, collocandosi nel medesimo solco interpretativo, ne hanno ulteriormente ampliato la portata.

Il riferimento è innanzitutto alla pronuncia (Cass. pen. sez. I, 23 marzo 2017, n. 23347, Ebrima) che, in tema di notifica dell'avviso di conclusione delle indagini preliminari, ha statuito che: «l'imputato alloglotta, non irreperibile o latitante, che risulti non conoscere la lingua italiana, ha diritto alla traduzione, in una lingua da lui compresa, dell'avviso ex art. 415-bis c.p.p., anche nelle ipotesi in cui questo debba essere notificato al difensore domiciliatario».

Da ultimo, la questione è stataaffrontata in altra sentenza (Cass. pen. sez. VI, 7 luglio 2021, n. 30143 del 7.7.2021) che ha ritenuto che: «l'obbligo di traduzione degli atti in favore dell'imputato alloglotta, non irreperibile né latitante, sussiste - a pena di nullità ex art. 178 lett. c) c.p.p.- anche nel caso in cui egli abbia eletto domicilio presso il difensore, avendo quest'ultimo solo l'obbligo di ricevere gli atti destinati al proprio assistito, ma non anche quello di procedere alla loro traduzione».

La portata innovativa della suddetta decisione si coglie sotto due principali profili, intrinsecamente correlati:

  • risulta arbitraria l'assimilazione delle ipotesi in cui l'imputato alloglotta sia latitante ovvero irreperibile a quelle in cui la domiciliazione presso il difensore (di fiducia o d'ufficio) scaturisca da una dichiarazione di volontà, formulata ex art. 161 c.p.p.;
  • al difensore domiciliatario dell'indagato/imputato alloglotta non si può mai attribuire l'obbligo/onere di tradurre gli atti ricevuti nell'interesse del proprio assistito, sia che si tratti di una nomina fiduciaria che di una designazione avvenuta d'ufficio.
La rescissione del giudicato nell'ipotesi di incolpevole mancata conoscenza della celebrazione del processo da parte dell'imputato alloglotta a cui non sia stata offerta la traduzione degli atti

L'istituto della rescissione del giudicato è stato introdotto con la l. n. 67/2014 e riguarda tutti i casi in cui si chiede la revoca di una sentenza di condanna o sentenza (di proscioglimento) che abbia applicato una misura di sicurezza, qualora si sia proceduto in assenza dell'imputato che sia rimasto ignaro della celebrazione del processo a suo carico senza sua colpa.

L'elezione di domicilio da parte della persona sottoposta alle indagini o imputata costituisce un indice preclusivo del ricorso alla rescissione del giudicato - poiché integra un'ipotesi di colpevole mancata conoscenza del processo tutte le volte in cui:

  • la persona sottoposta alle indagini o imputata, che abbia eletto domicilio e sia stata ritualmente avvisata dell'obbligo di comunicare ogni mutamento di quest'ultimo, ai sensi dell'art. 161 comma 2 c.p.p., abbia omesso di comunicare all'autorità procedente il proprio sopravvenuto stato di detenzione per altra causa, con la conseguente notificazione degli atti processuali al difensore d'ufficio ai sensi del comma 4 del predetto art. 161 (Cass. pen. sez. II, 15 aprile 2016, n. 21069, in senso conforme, anche Cass. pen. sez.II, 14 luglio 2016, n. 33574, ivi, n. 267499);
  • la persona sottoposta alle indagini o imputata, che abbia nominato un difensore di fiducia ed eletto domicilio presso di questi, non solo abbia omesso di comunicare all'autorità procedente il proprio sopravvenuto stato di detenzione per altra causa, ma neppure si sia attivata autonomamente per mantenere con il difensore di fiducia domiciliatario i contatti informativi necessari per la conoscenza dello sviluppo del procedimento (Cass. pen. sez.II, 14 luglio 2016, n. 33574, cit.);
  • la persona sottoposta alle indagini, o imputata, dopo aver nominato un difensore di fiducia in un procedimento penale, non si attiva autonomamente per mantenere con lo stesso i contatti periodici essenziali per la conoscenza dello sviluppo di tale procedimento (v., ex plurimis, Sez. II, 25 gennaio 2017, n. 14787, in C.E.D. Cass., n. 269554; Cass. pen., 24 febbraio 2017, n. 14862).

Se è vero che dall'elezione di domicilio deriva una presunzione di conoscenza del processo che legittima il giudice a procedere in assenza dell'imputato, sul quale grava l'onere di attivarsi per tenere contatti informativi con il proprio difensore sullo sviluppo del procedimento, è pur vero che non può̀ affermarsi che l'imputato abbia avuto contezza della nomina di un difensore d'ufficio e dell'elezione di domicilio presso costui, nell'ipotesi in cui sia stata accertata la mancata conoscenza della lingua italiana.

In una recente sentenza (Cass. pen., sez. II, 3 maggio 2017, n. 36166), la Corte, disponendo la revoca della sentenza emessa nei confronti dell'imputato dichiarato assente, ha affermato che, «in tema di rescissione del giudicato, è configurabile un'ipotesi di incolpevole mancata conoscenza della celebrazione del processo da parte dell'imputato alloglotta ove si sia proceduto in sua assenza sul presupposto di un verbale di identificazione e dichiarazione di elezione di domicilio presso il difensore d'ufficio non tradotto nella lingua a lui conosciuta, nonostante dagli atti emergesse che lo stesso non comprendeva la lingua italiana».

In conclusione

La tesi secondo cui l'elezione di domicilio presso il difensore comporti la rinuncia dell'indagato/imputato alla traduzione degli atti nella propria lingua conduce non solo alla violazione del diritto previsto dall'art. 143 c.p.p. nella rinnovata formulazione prevista dal d.lgs. n. 32/14, ma anche e soprattutto del principio dell'equo processo contenuto nella Convenzione europea dei diritti dell'uomo.

All'art. 6, paragrafo 3, lett. a) della Convenzione, si prevede infatti che ogni accusato ha diritto di «essere informato, nel più breve tempo possibile, in una lingua a lui comprensibile e in modo dettagliato, della natura e dei motivi dell'accusa formulata a suo carico».

Il diritto dell'indagato di conoscere in ogni fase processuale il tenore delle imputazioni a suo carico nella propria lingua è funzionale all'esercizio del diritto di difesa, tanto è vero che l'art. 143 comma 3 c.p.p. consente al Giudice di disporre la traduzione, oltre a quelli indicati nel comma 2, anche di altri atti o solo parte di essi ritenuti essenziali per consentire all'imputato di conoscere le accuse a suo carico.

Occorre ricordare, inoltre, che, ai sensi della direttiva 2010/64/Ue (vedi art. 3 punto n. 8), «qualsiasi rinuncia al diritto alla traduzione dei documenti di cui al presente articolo è soggetta alle condizioni che gli indagati o gli imputati abbiano beneficiato di una previa consulenza legale o siano venuti in altro modo pienamente a conoscenza delle conseguenze di tale rinuncia e che la stessa sia inequivocabile e volontaria».

Appare quantomeno una forzatura immaginare che una dichiarazione di elezione di domicilio degli atti processuali – specie se fatta in occasione del primo atto del procedimento penale instauratosi a proprio carico (come, ad esempio, il verbale di identificazione redatto dalla P.G.) – possa essere preceduta da un contatto effettivo tra l'imputato ed il proprio difensore, a fortiori quando la nomina di quest'ultimo sia avvenuta non già attraverso l'indicazione di un professionista di fiducia bensì attraverso la designazione di un avvocato d'ufficio da parte della stessa polizia giudiziaria.

Parimenti, affinché possa ritenersi una rinuncia “inequivocabile e volontaria”, è necessario che una siffatta volontà risulti espressamente da una specifica dichiarazione proveniente dall'indagato/imputato che rimanga separata e distinta da quella relativa alla domiciliazione delle carte processuali, ancorché eventualmente compresa all'interno del medesimo atto.

È evidente che la rafforzata tutela procedimentale prevista dalla Direttiva in esame sia orientata a dedicare un'attenzione particolare a indagati o imputati che si trovino in posizione di potenziale debolezza e vulnerabilità, come quella derivante dall'incapacità di comunicare efficacemente ovvero di seguire il procedimento e di farsi capire e, in definitiva, di intraprendere le azioni necessarie per garantire il proprio diritto di difesa.

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