La giustizia “case-by-case” nell'accertamento delle condotte violente e moleste sul lavoro: analisi di tre recenti pronunce giurisprudenziali

22 Dicembre 2021

Tre recenti pronunce, rispettivamente del Tribunale di Monza, della Corte di Cassazione e della Corte Europea dei diritti dell'uomo, ci ricordano come l'attività “maieutica di formazione del diritto vivente” proceda spesso attraverso impercettibili mutamenti: eppur si muove...
Premessa

Tre recenti pronunce, rispettivamente del Tribunale di Monza, della Corte di Cassazione e della Corte Europea dei diritti dell'uomo, ci ricordano come l'attività “maieutica di formazione del diritto vivente” (1) proceda spesso attraverso impercettibili mutamenti: eppur si muove.

Parliamo della materia relativa alle condotte persecutorie sul lavoro, da oltre un ventennio oggetto di elaborazione giurisprudenziale nella cronica assenza di un intervento legislativo. Intervento, questo, ormai non più procrastinabile considerata soprattutto la prossima entrata in vigore, anche nell'ordinamento giuridico italiano, della Convenzione 190 ILO sull'eliminazione della violenza e delle molestie nel mondo del lavoro ratificata il 29 ottobre 2021 (2), la quale detta standard minimi comuni e vincolanti per tutti i Paesi membri, al fine di prevenire e contrastare ogni forma di violenza fisica o morale sul lavoro.

In attesa che il legislatore italiano, dunque, adempia agli obblighi internazionali predisponendo finalmente una disciplina organica e complessiva delle condotte violente e moleste nei luoghi di lavoro, dovremo rifarci per la regolamentazione ed il contrasto di tali fenomeni alle fattispecie coniate dalla giurisprudenza del lavoro nella propria pluridecennale opera di supplenza.

Violenza lavorativa: violenza interna e violenza esterna (3)

Riprendendo dunque brevemente ed in modo necessariamente sommario un tema oggetto di studio da oltre un ventennio, possiamo dire in primo luogo che il conio utilizzato dalla giurisprudenza è di derivazione codicistica, avendo la sua fonte nell'art. 2087 c.c., norma generale di chiusura del sistema italiano di sicurezza sul lavoro.

Da tale norma, in particolare, sono germinate le seguenti fattispecie di diritto vivente:

- Mobbing (bossing, bullying);

- Straining;

- Altre condotte vessatorie;

- Attività criminose di terzi.

Riprendendo una terminologia presente nel dibattito internazionale (4), possiamo classificare queste fattispecie nell'ambito delle più ampie categorie della violenza esterna e della violenza interna (5), individuabili a seconda del fatto che il soggetto attivo sia all'interno o all'esterno dell'organizzazione lavorativa in cui si trova la vittima.

Pertanto, se l'aggressore è all'interno dell'organizzazione aziendale (sia esso il datore di lavoro, il superiore gerarchico, il collega o il dipendente), allora potremo avere alternativamente una condotta mobbizzante, una dinamica straniante o altre condotte vessatorie, espressive tutte di violenza interna; al contrario l'attività criminosa di terzi ai danni di un lavoratore o di una lavoratrice (quali possono essere, ad esempio, una rapina in banca o un'aggressione al pronto soccorso) configurerà la categoria della violenza esterna.

E' opportuno evidenziare come, in questa sede, utilizziamo il termine violenza in modo generale, conformemente al lessico internazionale (6), che vi ricomprende tanto la violenza fisica (physical violence) (7) quanto quella morale (psycological violence) (8).

Ripercorriamo ora brevemente la definizione giurisprudenziale dei singoli tipi di condotte lavorative ostili.

La violenza interna

A) il mobbing e le sue sottocategorie (bossing, bullying)

Con il termine mobbing (9) l'ormai consolidata giurisprudenza italiana, mutuando una fortunata definizione creata dalla scienza psicologica (10), individua quella condotta realizzata dal datore di lavoro o dal superiore gerarchico (cosiddetto mobbing verticale o dall'alto verso il basso), dal collega (mobbing orizzontale o tra pari) o da un sottoposto (mobbing ascendente o dal basso verso l'alto), “sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell'ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione e l'emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità” (11).

Più precisamente, ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro ai sensi dell'art. 2087 c.c. e della sua sussumibilità nella fattispecie giurisprudenziale del mobbing sono rilevanti (12):

a) una serie di comportamenti di carattere persecutorio (illeciti o anche leciti se considerati singolarmente) (13) che, con intento vessatorio, siano posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo (14), direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto (15) o anche da parte di dipendenti (16), sottoposti al potere direttivo dei primi;

b) l'evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente;

c) il nesso eziologico (17) tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psico-fisica e/o nella propria dignità;

d) l'elemento soggettivo, cioè l'intento persecutorio unificante tutti i comportamenti lesivi (18).

L'elemento qualificante, il vero e proprio quid pluris della fattispecie è l'intento persecutorio, che deve unificare i singoli atti o comportamenti e che implica non solo l'integrale onere della prova a carico del lavoratore ai sensi dell'art. 2697 c.c. ma soprattutto la necessità da parte del giudice di una “valutazione rigorosa della sistematicità della condotta e della sussistenza dell'intento emulativo o persecutorio che deve sorreggerla” (Cass. civ., sez. lav., ordinanza, 04.03.2021, n. 6079) (19).

L'utilità della figura del mobbing è pertanto quella di consentire “uno sguardo teleologico di condotte disparate, stringendole in unità e facendone così emergere la complessiva illiceità, anche quando tale illiceità non sarebbe stata predicabile all'esito di una valutazione separata, atomistica e statica dei singoli comportamenti. Quel che il mobbing consente è, dunque, di legare insieme condotte che possono essere tipologicamente diverse, mediante una loro lettura dinamico-diacronica” (20).

Nell'alveo di un'incessante opera di elaborazione ermeneutica, la giurisprudenza in diverse pronunce ha individuato alcune sotto-categorie che costituiscono delle specificazioni del mobbing sul piano fenomenico.

Ci riferiamo in primo luogo al bossing, menzionato peraltro raramente dalla giurisprudenza con diversità di sfumature, a seconda che sia esaminato solo dal punto di vista del soggetto attuatore delle condotte vessatorie (il datore di lavoro o il superiore gerarchico, nel qual caso sarà un sinonimo del cosiddetto mobbing “verticale discendente” o “dall'alto”) (21) o che invece sia riguardato anche sotto il profilo dello scopo del soggetto agente, connotato dalla “precisa strategia aziendale finalizzata all'estromissione del lavoratore dall'azienda” (22) o dalla specifica finalità diridurre il personale, ringiovanire o riorganizzare uffici o reparti” (23).

Viene in rilievo, in secondo luogo, il fenomeno del bullyingi cui contorni –nelle rarissime sentenze in cui è citato- sono incerti, lontani dalla definizione coniata dalla psicologia del lavoro (24) e, spesso, si confondono con quelli del bossing (25), differenziandosi unicamente per la circostanza dell'abuso della posizione gerarchica (26).

B) Lo straining

Si tratta di una categoria tipicamente italiana coniata da un noto studioso dei fenomeni di conflittualità lavorativa (27), che è costituita da “una situazione di stress forzato sul posto di lavoro, in cui la vittima subisce almeno un'azione che ha come conseguenza un effetto negativo nell'ambiente lavorativo, azione che oltre ad essere stressante, è caratterizzata da una durata costante. La vittima è rispetto alla persona che attua lo Straining in persistente inferiorità. Pertanto, mentre il Mobbing si caratterizza per una serie di condotte ostili e frequenti nel tempo, per lo Straining è sufficiente una singola azione con effetti duraturi nel tempo (come nel caso del demansionamento)”.

Abbiamo ripreso la prima definizione di straining rinvenibile nella giurisprudenza di merito, enunciata nell'ormai nota sentenza del Tribunale di Bergamo, sezione lavoro, del 20 giugno 2005, n. 286, est. Bertoncini, a cui hanno fatto seguito nel corso degli anni una serie di pronunce di segno analogo (28), anche da parte della giurisprudenza di legittimità.

Tale precisa nozione ha consentito di attrarre nell'alveo dell'art. 2087 c.c., e conseguentemente nell'ambito della responsabilità contrattuale risarcitoria, anche quelle condotte - quali ad esempio i demansionamenti, i mutamenti del luogo di lavoro, l'inattività lavorativa forzosa - che, pur risolvendosi in un singolo atto, hanno tuttavia una rilevante incidenza sulla professionalità, sulla personalità e sull'integrità fisica dei lavoratori e delle lavoratrici, a causa degli effetti lesivi permanenti. Condotte che, difettando del requisito della reiterazione e della sistematicità, non sarebbero state ricomprese nella fattispecie del mobbing, generando dunque un grave vuoto di tutela.

Come abbiamo accennato anche la giurisprudenza di legittimità, similmente a quella di merito, ha da tempo incanalato lo straining nell'alveo dell'art. 2087 c.c., definendolo “una forma attenuata di mobbing” (29),così risolvendo la questione processuale sul rapporto tra mobbing e straining: per il principio di continenza, quindi, non integra violazione dell'art. 112 c.p.c. la condanna al risarcimento del danno da straining in luogo dell'originaria domanda di condanna risarcitoria per mobbing. Per la Corte di Cassazione, pertanto, lo straining è una species del più ampio genus del mobbing.

L'evoluzione giurisprudenziale tuttavia ha portato ad un mutamento di senso della nozione di straining, che nel diritto vivente ha iniziato ad assumere contorni differenti rispetto a quelli individuati dalla psicologia del lavoro; a partire infatti dalla pronuncia della Cassazione civile, sezione lavoro, 29 marzo 2018, n. 7844, è venuto meno l'elemento soggettivo dell'intento persecutorio, requisito fondante della fattispecie, che ora si identifica in tutte quelle “situazioni "stressogene" che diano origine ad una condizione che, per caratteristiche, gravità, frustrazione personale o professionale, altre circostanze del caso concreto possa presuntivamente ricondurre a questa forma di danno anche in caso di mancata prova di un preciso intento persecutorio”.

Secondo questo orientamento giurisprudenziale, pertanto, lo straining quale stress forzato non si manifesterebbe soltanto in singole condotte vessatorie con effetti permanenti intenzionalmente realizzate dal datore di lavoro ai danni della vittima ma “può anche derivare, tout court, dalla costrizione della vittima a lavorare in un ambiente di lavoro ostile, per incuria e disinteresse nei confronti del suo benessere lavorativo con conseguente violazione da parte datoriale del disposto di cui all'art. 2087 cod. civ.(30). In concreto quindi, anche la colposa disorganizzazione lavorativa (ovvero “l'incuria e disinteresse nei confronti del suo benessere lavorativo”) che abbia cagionato effetti dannosi al lavoratore o alla lavoratrice (si pensi al superlavoro o all'adibizione ad una postazione lavorativa priva delle misure minime di sicurezza) rientrerebbe nella figura dello straining, ovverosia dello stress forzato sul posto di lavoro.

C) Le altre condotte vessatorie

Un'ulteriore e distinta categoria rispetto a quelle ora analizzate è costituita dalle “altre condotte vessatorie”, germinate anch'esse sul solco dell'interpretazione giurisprudenziale sviluppatasi intorno all'art. 2087 c.c.

Si tratta di una categoria residuale ed atipica utilizzabile allorché il giudice, pur nell'accertata insussistenza di un intento persecutorio idoneo ad unificare tutti gli episodi addotti dall'interessato e quindi nell'inconfigurabilità di una specifica fattispecie di mobbing o di straining, ravvisi tuttavia nei comportamenti considerati singolarmente, di per sé, un contenuto oggettivamente vessatorio e mortificante per il lavoratore.

In questo caso, quindi, il singolo provvedimento datoriale oggettivamente illegittimo (quale ad esempio può essere una sanzione disciplinare non rispettosa dell'art. 7 Stat. Lav. o un trasferimento posto in violazione dell'art. 2103 c.c.) potrà comunque essere ascritto alla responsabilità risarcitoria del datore di lavoro, nei limiti dei danni eventualmente a lui imputabili (31).

Violenza esterna: gli atti criminosi di terzi

Questa tipologia di condotte violente è venuta in rilievo allorché la giurisprudenza si è dovuta misurare con casi di aggressione, ai danni dei dipendenti, da parte di soggetti terzi rispetto all'organizzazione aziendale. In particolare, il caso “classico” nei repertori giurisprudenziali è quello della rapina in banca, all'ufficio postale o al casello autostradale.

In queste ipotesi, dunque, la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto che la funzione suppletiva dell'art. 2087 c.c. sia tale da imporre al datore di lavoro la tutela dell'integrità psico-fisica del dipendente anche rispetto alle attività criminose di terzi specie laddove, come nelle banche, il livello di rischio è potenzialmente elevato, considerato che l'art. 2087 c.c. è norma di chiusura del sistema antinfortunistico estensibile a situazioni ed ipotesi non ancora espressamente considerate e valutate dal legislatore al momento della sua formulazione. Ne deriva pertanto l'obbligo dell'imprenditore di tutelare l'integrità fisio-psichica dei dipendenti attraverso l'adozione - ed il mantenimento - di misure atte, secondo le comuni tecniche di sicurezza, a preservare i lavoratori da lesioni nell'ambiente o in costanza di lavoro in relazione ad eventi anche non direttamente collegati, come le aggressioni conseguenti all'attività criminosa di terzi, considerata la frequenza assunta da tale fenomeno rispetto a determinate imprese (in particolare, banche) ed alla probabilità di verificazione del relativo rischio (Cassazione 6 giugno 1988, n. 5048, che rappresenta la prima pronuncia intervenuta in materia) (32).

L'obbligo di adozione delle misure di sicurezza “innominate” ed “atipiche” ex art. 2087 c.c. per la tutela dei lavoratori e delle lavoratrici da violenze esterne, deve dunque essere valutato con riferimento a condizioni lavorative obbiettivamente (anche solo potenzialmente) pericolose, in cui la prevedibilità del verificarsi di episodi di aggressione a scopo di lucro sia insita nella tipologia di attività esercitata dal dipendente in ragione, ad esempio, della movimentazione di somme di denaro da parte del medesimo (33).

Principi, questi, che ben si possono adattare a tutti i casi di violenza esterna che si verificano nella realtà lavorativa e che sono quotidianamente documentate dalla cronaca giornalistica, quali le aggressioni dei pazienti al personale del Pronto Soccorso, quelle dei genitori agli insegnanti nelle scuole o le violenze dei tifosi ai danni degli atleti delle società sportive (34).

La violenza esterna è venuta in rilievo in giurisprudenza anche in un'altra tipologia di casi, connessi alla questione dell'indennizzabilità o meno da parte dell'INAIL, ai sensi dell'art. 2 del D.P.R. 1124/1965, delle conseguenze dannose patite dal lavoratore o dalla lavoratrice: si tratta delle aggressioni subite in itinere da parte di soggetti terzi. Più precisamente il lavoratore aggredito da terzi lungo la strada per recarsi a lavoro o per farvi ritorno, ha diritto all'indennità temporanea e alla relativa rendita a titolo di infortunio lavorativo ”in itinere”, da ritenersi indennizzabile anche in presenza di eventi dannosi imprevedibili ed atipici, indipendenti dalla condotta volontaria dell'assicurato.

Il rischio inerente il percorso fatto dal lavoratore e dalla lavoratrice per recarsi a lavoro o per far ritorno da lavoro, infatti, deve assumersi come protetto e ricollegabile, sebbene in maniera indiretta, allo svolgimento dell'attività lavorativa prestata dal dipendente, con il mero limite del rischio elettivo ricorrente solo laddove il comportamento del lavoratore sia risultato abnorme, volontario ed arbitrario, ossia tale da condurlo ad affrontare rischi diversi da quelli inerenti la normale attività lavorativa, pur latamente intesa, e tale da determinare una causa interruttiva di ogni nesso tra lavoro, rischio ed evento secondo l'apprezzamento di fatto riservato al giudice di merito (35).

Fatta questa breve premessa di ordine teorico generale, veniamo ora ad esaminare le tre pronunce che riguardano condotte ascrivibili, secondo la classificazione testé enunciata, alla violenza lavorativa interna.

La pronuncia del Tribunale di Monza, sez. lav., 19 ottobre 2021, est. Rotolo

Una lavoratrice a tempo determinato conveniva in giudizio la propria azienda deducendo di aver subito per circa tre mesi una pluralità di condotte mobbizzanti che – a suo dire- avevano causato la successiva assenza dal lavoro per malattia oltre il periodo di comporto e, conseguentemente, il suo licenziamento, chiedendo pertanto l'accertamento dell'illegittimità del recesso datoriale e, al contempo, il risarcimento di tutti i danni patrimoniali e non patrimoniali patiti.

Il giudice monzese, a seguito della costituzione della società datrice la quale svolgeva una serie di eccezioni in ordine all'infondatezza e all'inammissibilità delle domande della ricorrente, decideva la causa senza nemmeno disporre l'istruttoria, sull'assunto che:

- L'esistenza di documentazione medica prodotta dalla stessa lavoratrice ed attestante “labilità emotiva” ed “elevata sensibilità interpersonale” erano la prova che “I fatti lamentati dalla lavoratrice appaiono più da ascrivere a difficoltà relazionali, che sono connaturate a prestazioni lavorative rese in contesti organizzati secondo criteri gerarchici, e non costituiscono puntuali indici significativi di mobbing”;

- L'asserito mobbing era durato, secondo le allegazioni attoree, circa tre mesi, ovverosia per un lasso di tempo insufficiente a configurare il requisito della durata della condotta mobbizzante.

Questi, dunque, i punti cardine della sentenza che si colloca nel filone (peraltro consistente) di quelle pronunce che disconoscono l'esistenza del mobbing allorché i contrasti lavorativi siano dovuti alla normale conflittualità dell'ambiente lavorativo (36) o addirittura a problemi caratteriali e di rapporto della stessa ricorrente (37).

Ciò che più interessa in questa pronuncia, tuttavia, è l'affermazione del principio della valutazione case by case in ordine alla rilevanza del requisito della durata della condotta mobbizzante, che “va di volta in volta esaminata alla luce del caso concreto, che può caratterizzarsi per atti di maggiore aggressività psicologica, che possono eventualmente determinare i medesimi effetti anche in periodi di tempo inferiore, o viceversa”, collocandosi dunque nell'alveo di quella giurisprudenza (38) che non traspone rigidamente i parametri elaborati dalla scienza psicologica (39), bensì li adatta in modo flessibile alle peculiarità della fattispecie concreta.

E' l'inizio di un fil rouge che ci porta direttamente alla seconda decisione oggetto di analisi.

La pronuncia della Corte Europea dei diritti dell'Uomo, 9 novembre 2021, n. 31549/18, S vs Montenegro

Viene portato all'attenzione della Corte Europea un caso di mobbing “orizzontale” poi degenerato in work stalking, caratterizzato da condotte (aggressioni e danneggiamenti all'auto, nello specifico tre condotte violente tra gennaio e giugno 2013) poste in essere dai colleghi di una guardia carceraria montenegrina, la quale aveva segnalato le molestie sessuali dei colleghi nei confronti di alcune detenute. Nel caso di specie, la Corte ha ritenuto che il modo in cui è stata data applicazione da parte dell'autorità pubblica nazionale (il Montenegro) agli strumenti di diritto civile e penale sia stato, nel caso di specie, inadeguato e non rispettoso dell'art. 8 della Cedu, ossia inidoneo a tutelare la vita privata e familiare della lavoratrice, considerata anche la circostanza che la stessa vittima fosse una whistleblower.

In particolare, è stata censurata la rigida applicazione giurisprudenziale della normativa montenegrina in materia di workplace bullying, volta a richiedere per l'integrazione della fattispecie la realizzazione di una condotta molesta a settimana per almeno sei mesi (40); al contrario, secondo la corte di Strasburgo, un approccio effettivamente tutelante per le vittime deve prevedere l'esame case-by-case della specifica fattispecie concreta, avendo riguardo alle particolari circostanze del singolo caso e considerando il contesto in cui si colloca (41). In altre parole, possono ben darsi dinamiche mobbizzanti con una frequenza di gran lunga inferiore rispetto al requisito scientifico di un atto a settimana per almeno sei mesi e, viceversa, condotte di fatto non vessatorie aventi una frequenza addirittura superiore.

Il contrasto delle condotte vessatorie nel mondo del lavoro, in definitiva, non può soggiacere a nessun rigido automatismo applicativo, ma deve essere oggetto di un esame empirico, condotto di volta in volta alla luce della situazione concreta: è il medesimo principio, se ci facciamo caso, espresso dalla sentenza del Tribunale di Monza.

Seguiamo ancora questo filo rosso, che ci porta ora all'esame di una recente pronuncia della Corte di Cassazione.

La sentenza della Corte di Cassazione, sez. lav., 2 dicembre 2021, n. 38123

Il caso riguarda una dipendente comunale che era stata vittima per tre anni di plurimi atti di emarginazione, isolamento e demansionamento, rivendicando conseguentemente il risarcimento di tutti i danni subiti.

Nel confermare la pronuncia di merito, la Cassazione –ribadendo l'invalsa nozione giurisprudenziale del mobbing - ha enunciato un interessante principio di diritto relativamente alla liquidazione equitativa del danno alla professionalità subito dalla lavoratrice nel corso degli anni, riconoscendo la legittimità della riduzione operata dalla Corte d'Appello in misura del 50% della retribuzione mensile, considerando le “circostanze del caso concreto”, ovverosia:

- la durata del demansionamento (tre anni);

- la non completa privazione della professionalità desumibile dalle mansioni proprie dell'ufficio di preposizione (si trattava, infatti, di una riduzione qualitativa, non di un'inattività lavorativa totale);

- l'atteggiamento di chiusura della lavoratrice stessa (che aveva acuito il conflitto);

- la gravità complessiva della condotta datoriale.

Diremmo niente di nuovo sotto il sole: nel citare il principio della valutazione case-by-case anche ai fini liquidativi del risarcimento, la Cassazione riprende un orientamento ormai invalso nella determinazione del cosiddetto “danno alla professionalità” (42).

Ciò che però appare inedito è il fatto che i problemi caratteriali della vittima (nella specie l'atteggiamento di chiusura), che generalmente vengono considerati come indice sintomatico dell'insussistenza del fenomeno mobbizzante (incidenti dunque direttamente sull'an), in questo caso sono stati invece rilevanti ai soli fini della riduzione del compendio risarcitorio (quindi con effetto negativo soltanto sul quantum).

E' una soluzione abbastanza ragionevole ispirata al principio dell'accertamento caso per caso, che rifugge da alcuni facili schematismi che, al contrario, hanno condotto in passato la giurisprudenza ad una rigida separazione tra conflitto e vessazione, ovverosia tra situazioni in cui vi è uno sconfitto è situazioni in cui al contrario “vi è soltanto una vittima sostanzialmente non in grado di difendersi o di difendersi con un minimo di adeguatezza” (43), quasi a figurare – per il riconoscimento della qualifica di vittima - una sorta di immobile bersaglio delle altrui persecuzioni.

Abbiamo parlato di soluzione “abbastanza ragionevole” non a caso: la fattispecie in oggetto, infatti, sconta probabilmente (soprattutto nei gradi di merito) la mancata considerazione del fatto che non di rado determinati atteggiamenti psicologici della vittima sono “reattivi”, cioè direttamente causati dalle condotte traumatiche dei mobber o degli strainer derivandone così, oltre al danno psicologico, anche la beffa della riduzione quantitativa del risarcimento (nei casi migliori, come abbiamo visto).

Conclusioni

Siamo giunti al termine della nostra breve analisi, che ha posto in luce l'emergere con forza della valutazione case-by-case anche nella materia delle condotte lavorative persecutorie. Si tratta, è il caso di precisarlo a chiare lettere, non solo di un principio di diritto vivente idoneo a disciplinare i singoli casi ma, di più ed oltre, di un importante parametro di politica del diritto, che servirà ad orientare il legislatore nella prossima opera di attuazione delle citate disposizioni internazionali.

In particolare, pensare di trasporre in un disegno di legge i modelli elaborati dalla scienze psicologiche per finalità diagnostico-terapeutiche potrebbe rivelarsi un grave errore, suscettibile di censura a livello CEDU, come abbiamo visto.

Ne deriva, con ogni evidenza, l'opportunità che il legislatore operi una prudente trasposizione nel diritto interno degli standard internazionali, mantenendo la struttura elastica ed atipica soprattutto della fattispecie definitoria (44) che, ricordiamo, introduce per la prima volta nel diritto del lavoro una nozione omnicomprensiva di violenza e di molestie nel mondo del lavoro, con un termine “ombrello” tale da coprire ogni possibile fenomeno ostile.

La tolleranza zero contro ogni condotta violenta e molesta parte anche e soprattutto da qui.

Note

(1) Facciamo riferimento ad una felice espressione coniata dalla Corte Costituzionale (sentenza 139/2019) la quale, interrogata sulla questione di legittimità costituzionale dell'articolo 96 terzo comma del codice di procedura civile rispetto alla riserva di legge dettata dall'art. 23 Cost. (relativamente alla quantificazione equitativa del danno da lite temeraria), ha affermato che “il legislatore, esercitando la sua discrezionalità particolarmente ampia nella conformazione degli istituti processuali (ex plurimis, sentenza n. 225 del 2018), ha fatto affidamento sulla giurisprudenza che, nell'attività maieutica di formazione del diritto vivente, soprattutto della Corte di cassazione (sentenza n. 102 del 2019), può specificare – così come ha già fatto – il precetto legale”.

(2) Il processo di ratifica nell'ordinamento italiano della Conv. 190 ILO è infatti iniziato con la legge di autorizzazione alla ratifica del 15 gennaio 2021, n. 4 e si è concluso a Roma il 29 ottobre 2021 con la consegna dello strumento di ratifica da parte del Ministro del Lavoro Orlando al direttore generale Guy Rider. La Convenzione, pertanto, ai sensi dell'art. 14 comma 3 Conv. 190 ILO, entrerà in vigore per l'Italia a partire dal 29 ottobre 2022.

(3) Riprendiamo in questa sede le considerazioni più ampiamente svolte nel contributo Eliminare la violenza e le molestie nel mondo del lavoro: un itinerario all'interno dell'ordinamento giuridico italiano, ILO, Ginevra, 2021, in corso di pubblicazione.

(4) Si rimanda in particolare a ILO, Background paper for discussion at the Meeting of Experts on Violence against Women and Men in the World of Work, Ginevra, 2016; ILO, Ending violence and harassment against women and men in the world of work, Geneve, 2017; ILO, Violence and harassment in the world of work: A guide on Convention No. 190 and Recommendation No. 206, Ginevra, 2021; DE STEFANO V., DURRI I., STYLOGIANNIS C., WOUTERS M., System needs update: upgrading protection against cyberbullying and ICT-enabled violence and harassment in the world of work, ILO, 2020.

(5) Facciamo riferimento in particolare alla prefazione di Herman Steensma, professore associato di Psicologia Sociale e dell'Organizzazione presso l'Università di Leida, Paesi Bassi allo studio di H. EGE, Oltre il mobbing. Straining, stalking e altre forme di conflittualità sul posto di lavoro, Milano, 2005, Franco Angeli, pp. 7-11. Analogamente, DE STEFANO, DURRI, STYLOGIANNIS, WOUTERS, System needs update: upgrading protection against cyberbullying and ICT-enabled violence and harassment in the world of work, ILO, 2020, p. 8-9, distinguono tra external bullying ed internal bullying, per cui “External bullying can, for example, be experienced by persons who have extensive contact with the public, such as workers in call centres, doctors, or journalists” e Internally, perpetrators can bully horizontally against colleagues relatively at the same level, or vertically, against persons belonging to a different level within the company's hierarchy

(6) Infatti “The term “violence” itself may sometimes appear in legislation, either as an umbrella term encompassing harassment or as a separate concept”, come evidenziato da ILO, Background paper for discussion at the Meeting of Experts on Violence against Women and Men in the World of Work, Ginevra, 2016, p. 5, par. 126.

(7) Secondo ILO, Background paper for discussion at the Meeting of Experts on Violence against Women and Men in the World of Work, Ginevra, 2016, p. 5, par. 17, la violenza fisica corrisponde athe use of physical force against another person or group, that results in physical, sexual or psychological harm. It includes among others, beating, kicking, slapping, stabbing, shooting, pushing, biting and pinching”.

(8) Sempre secondo ILO, Background paper for discussion at the Meeting of Experts on Violence against Women and Men in the World of Work, cit., p. 5, par. 17, la violenza psicologica corrisponde a “intentional use of power, including threat of physical force, against another person or group, that can result in harm to physical, mental, spiritual, moral or social development. It includes verbal abuse, bullying/mobbing, harassment and threats … Psychological violence is often perpetrated through repeated behaviour, of a type, which alone may be relatively minor but which cumulatively can become a very serious form of violence”.

(9) In dottrina, si citano H. EGE, La valutazione peritale del danno da mobbing, Giuffrè, 2002; M. BONA, P.G. MONATERI, U. OLIVA, Mobbing. Vessazioni sul luogo di lavoro, Giuffrè, 2000; M. BONA, P.G. MONATERI, U.OLIVA, La responsabilità civile nel mobbing, Ipsoa, 2007; B. TRONATI, Mobbing e Straining nel rapporto di lavoro, Ediesse, 2007; B. TRONATI, Il disagio lavorativo – Mobbing, Straining e stress lavoro correlato nel rapporto di lavoro, Ediesse, 2016; TOSI (a cura di), Il mobbing, Giappichelli, 2004; R. DEL PUNTA, Il mobbing: l'illecito e il danno, in Scritti in onore di Giuseppe Suppiej, Cedam, 2005, pp. 287-320; R. DEL PUNTA, Diritto del lavoro, Giuffrè Francis Lefevbre, 2020, pp. 614 e ss.; S. MAZZAMUTO, Il mobbing, Giuffrè, 2004; A.a. V.v., Mobbing, Organizzazione, Malattia professionale, in Quaderni di diritto del lavoro e delle relazioni Industriali, 2006, n. 29; M. MEUCCI, Danni da mobbing e loro risarcibilità, Ediesse, Roma, 2013.

(10) Il riferimento è alla pionieristica opera di ricerca portata avanti negli anni '90 del secolo scorso da Heinz Leymann, il quale per primo ne ha fornito una definizione, mutuando il termine dall'etologia (dall'inglese to mob, circondare, accerchiare per l'attacco) individuandolo come una forma di terrorismo psicologico, perpetrato nel contesto lavorativo, connotato da una comunicazione ostile e non etica –anche di natura verbale- che è diretta, in modo sistematico, da parte di uno o più individui verso un soggetto che, a causa di queste continue attività, viene spinto in una situazione di impotenza e di mancanza di difese rispetto a tali attacchi; in particolare, si rimanda a H. LEYMANN, The content and development of mobbing at work, in European Journal of Work and Organizational Psychology, cit., pp. 165-184; Mobbing and psychological terror at workplaces, in Violence and Victims, 1990, cit., pp. 119-126; Il modello di Leymann è stata introdotto ed approfondito in Italia dall'opera del noto studioso tedesco Harald Ege, che ha perfezionato il LIPT (Leymann Inventory of Psycological Terror) creando il LIPT EGE; si veda in particolare H. EGE, La valutazione peritale del danno da mobbing, Giuffrè, 2002; H. EGE, La valutazione peritale del danno da mobbing e da straining, Milano, Giuffrè Lefebvre, 2019; H. EGE, D. TAMBASCO, Il lavoro molesto, Giuffrè Lefebvre, 2021.

(11) Cass. civ. sez. lav., 4 giugno 2015, n. 11547; ex plurimis cfr. Cass. 6 agosto 2014 n. 17698; Cass. 17 febbraio 2009 n. 3785; Cass. 9 settembre 2008 n. 22893; Cass. 6 marzo 2006 n. 4774.

(12) Ex plurimis, Cass. civ., sez. lav., 2 dicembre 2021, n. 38123; Cass. civ., sez. lav., ordinanza, 04.03.2021, n. 6079; Cass. sez. lav., ordinanza, 29.12.2020, n. 29767; Cass. civ. sez. lav., ordinanza, 11.12.2019, n. 32381.

(13) Ex plurimis,Corte Cost. 19 dicembre 2003, n. 359; Cass. 12 dicembre 2018, n. 32151; Cass. 21 maggio 2018, n. 12437; Cass. 10 novembre 2017, n. 26684; Cass. 24 novembre 2016, n. 24029; Cass. 6 agosto 2014, n. 17698; Cass. civ. Sez. lav. ord., 16 ottobre 2017, n. 24358; Cons. Stato Sez. IV, 1° luglio 2019, n. 4471.

(14) Gli attacchi devono protrarsi per un lasso di tempo ragionevole, individuato da una parte della giurisprudenza – su indicazione della psicologia del lavoro – in almeno 6 mesi (vide ex multis Cass. sez. lav., 9 settembre 2008, n. 22858, Cass. sez. lav., 17 settembre 2009, n. 20046; Trib. Santa Maria Capua Vetere, 10.02.2015, cit.; Tribunale Roma Sez. lavoro, Sent., 09.07.2020); per un'altra parte della giurisprudenza di merito in almeno 3 mesi solo allorché sia ravvisabile il quick mobbing (Tribunale di Roma Sez. lavoro, Sent., 02.06.2020; Tribunale Ascoli Piceno, Sez. lav., Sent., 18.05.2018); infine un orientamento giurisprudenziale più flessibile ed aperto al caso concreto rifugge da parametri temporalmente determinati, avendo coniato la formula della “condotta sistematica e protratta nel tempo(Cass. civ. sez. lav., 31 maggio 2011, n. 12048; Trib. Bologna, sez. lav., 15 dicembre 2011, n. 1068; Trib. Firenze, sez. lav., 7 luglio 2016) specificando in alcune pronunce la necessità della “permanenza per un apprezzabile lasso di tempo” (Cass. 20046/2009, 22858/2008; Trib. Milano, sez. lav., 30 settembre 2006, n. 2949).

(15) È il cosiddetto mobbing dall'alto verso il basso o bossing, realizzato dal datore di lavoro o dal superiore gerarchico (ex plurimis Cons. Stato, sez. III, 27 febbraio 2019, n. 1371; da ultimo Trib. Roma, sez. lav., 23.08.2021, n. 6313, est. Falato); diametralmente opposto è il mobbing dal basso verso l'alto o “ascendente”, che si configura allorché siano i sottoposti a porre in essere le condotte vessatorie nei confronti del superiore gerarchico (si veda Trib. Pescara, sez. lav., 15 gennaio 2016, n. 31). Nell'ipotesi di condotte mobbizzanti realizzate dal dipendente o preposto, anche il datore di lavoro potrà rispondere in concorso con l'autore materiale delle condotte, alternativamente ai sensi dell'art. 2087 c.c. se colpevolmente inerte (Cass. sez. lav., 4 dicembre 2020, n. 27913; Cass. sez. lav., 22 marzo 2018, n. 7097; Trib. Aosta, sez. lav., 30 settembre 2014) o in via oggettiva ex art. 2049 c.c. in presenza dei presupposti della fattispecie (rapporto di preposizione, fatto illecito e nesso di occasionalità necessaria tra fatto illecito e rapporto di lavoro, vide ex multis Cass. sez. lav., 15 maggio 2015, n. 10037; Cass. sez. lav., 4 gennaio 2017, n. 74).

(16) Siamo nel caso del mobbing “tra pari” o orizzontale, allorquando sia realizzato dai colleghi della vittima (ex plurimis, Cass., sez. lav., 4 dicembre 2020, n. 27913).

(17) Sulla sufficienza dell' “elevata probabilità del collegamento causale tra il fatto umano scatenante e la successiva persistenza dello squilibrio psichico, e che non sia stato provato l'intervento di un fattore successivo tale da disconnettere la sequenza causale così accertata”, vide Cass., sez. III, 11.06.2009, n. 13530; conf. Cass. civ., sez. lav., 17.6.2011, n. 13356; Trib. Civitavecchia, sez. lav., 16 novembre 2006; Trib. Milano, sez. lav., 28 febbraio 2003.

(18) Ex plurimis, Cass. civ. sez. lav., ord., 20.1.2020, n. 1109; Cass. civ. sez. lavoro, 10.11.2017, n. 26684; Cass. 24.11.2016, n. 24029.

(19) Si veda anche, ex plurimis, Cass. civ., sez. lav., ord. 20 gennaio 2020, n. 1109; Cass. civ. sez. lav., 20 novembre 2017, n. 27444; Cass. sez. lav., 24 novembre 2016, n. 24029.

(20) Trib. Brescia, sez. lav., 3 settembre 2020, n. 154, est. Corazza.

(21) Si veda Cons. Stato, sez. III, 27 febbraio 2019, n. 1371; conf. Trib. Foggia, sez. lav., 26 febbraio 2014, n. 1847; Trib. Pescara, sez. lav., 15 gennaio 2016, n. 31. Una recente sentenza del Trib. Roma, sez. lav., 23 agosto 2021, n. 6313, est. Falato, specifica che il superiore gerarchico (nel caso di specie un dirigente sovraordinato) deve aver operato contravvenendo alle disposizioni del preposto della direzione del lavoro. Distingue invece tra “persecuzione”, caratteristica del mobbing, e “sottomissione” propria del bossing il Tar Abruzzo Pescara, sez. I, 20 giugno 2012, n. 300.

(22) Trib. Pinerolo, sez. lav., 3 marzo 2004; Trib. Bologna, sez. lav., 13 aprile 2010, n. 250.

(23) Trib. Milano, sez. lav., 23 luglio 2004.

(24) Per una chiara definizione del bullying (definibile come aggressione concentrata in un unico momento singolo, connotata più per la violenza fisica che per quella psicologica, fatta principalmente di aggressioni e minacce dirette), si rimanda a H. EGE, La valutazione peritale del danno da mobbing e da straining, cit., pp. 30-31. Tuttavia, soprattutto nei paesi anglosassoni tale termine, accompagnato alla specificazione del contesto lavorativo, viene utilizzato come sinonimo del mobbing: si parla infatti di “workplace bullying o alternativamente di “bullying at workper indicare il fenomeno del mobbing.

(25) Trib. Forlì, sez. lav., 15 marzo 2001, est. Sorgi; Corte dei Conti, sez. giur. Reg. Emilia Romagna, 22 novembre 2018, n. 267.

(26) Così, nel caso di un dirigente che aveva recato molestie a sfondo sessuale alle dipendenti, approfittando della sua posizione gerarchica (c.d. bullyng), Trib. Napoli, 22 aprile 2002, est. Santangelo.

(27) H. EGE, Oltre il mobbing. Straining, stalking e altre forme di conflittualità sul posto di lavoro, Milano, Franco Angeli, 2005; H. EGE, La valutazione peritale del danno da mobbing e da straining, cit., pp. 94 e ss.

(28) Nella giurisprudenza di merito, sul solco della pronuncia del Tribunale di Bergamo, si sottolineano tra le numerose sentenze Trib. Sondrio, sez. lav., 7 giugno 2007, est. Azzolini; Trib. Aosta, sez. lav., 30 settembre 2014; Corte App. Brescia, sez. lav., 8 gennaio 2021; Trib. Vibo Valentia, sez. lav., 26 maggio 2021, n. 346, est. Nasso.

(29) Vide ex plurimis, Cass. 4 novembre 2016, n. 3291; Cass., sez. lav., 10 luglio 2018, n. 18164; Cass. 19 febbraio 2018, n. 3977, secondo cui: “Lo straining è una forma attenuata di Mobbing per la cui configurabilità sono necessari sette parametri: l'ambiente lavorativo, la frequenza anche isolata con effetti duraturi, la durata di almeno sei mesi, il tipo di azioni rientranti in una determinata catalogazione, il dislivello tra gli antagonisti in cui la vittima è in una posizione di inferiorità gerarchica con il suo carnefice, l'andamento secondo fasi successive, l'intento persecutorio o l'obiettivo discriminatorio”.

(30) Cass. 29 marzo 2018, n. 7844, cit; conf. Cass. civ. sez. lav. 4 ottobre 2019, n. 24883; Trib. Pavia, sez. lav., 22 maggio 2020, n. 85; Tribunale Tivoli, sezione lavoro, 6 ottobre 2020; Trib. Milano, sez. lav., 24.07.2019; Trib. Milano, sez. lav., 23.04.2019 n. 1047; Trib. Brescia, sez. lav., 7 febbraio 2020, n. 66, est. Ferrari. Tuttavia, per una recente riaffermazione della necessaria presenza anche dell'intento vessatorio nella fattispecie, si veda Cass. sez. lav., ord., 4.02.2021, n. 2676; da ultimo Corte d'Appello di Milano, sez. lav., 22 marzo 2021, n. 475, secondo cui nel caso in esame si deve “escludere anche la sussistenza della più attenuata fattispecie dello straining, che , appunto, è un mobbing in cui le condotte non sono caratterizzate da continuità, ma che, in quanto appartenente alla fattispecie del mobbing, deve appunto manifestare lo stesso intento persecutorio”.

(31) Ex multis, Cassazione sez. lav., 18927 del 5.11.2012; Cassazione sez. lav., n. 4222 del 3.03.2016; Cassazione sez. lav., n. 16256 del 28.02.2018; Cass. civ. sez. lav., 20.06.2018, n. 16256; Cass. civ. sez. VI, 3 maggio 2019, n. 11739; nel merito, si segnala da ultimo Trib. Milano, sez. lav., 29.01.2018, n. 2832, est. Dossi e Corte Appello Milano, sez. lav., 22 marzo 2021, n. 475, nel caso di una ex prima ballerina del Teatro La Scala di Milano in cui, pur non essendo stato accertato il mobbing per difetto di prova dell'intento persecutorio, tuttavia le singole condotte – ed in particolare le esclusioni immotivate e dovute solo ad idiosincrasia personale del direttore artistico- sono state considerate oggettivamente vessatorie per contrasto all'art. 2087 c.c. ed agli artt. 1175 e 1375 c.c.

(32) Ex multis, Cass. civ., 5 gennaio 2016, n. 34 (caso di lavoratore addetto al casello dell'autostrada colpito da infarto a seguito di una rapina con armi, in cui la società datrice di lavoro è stata condannata al risarcimento dei danni ex art. 2087 c.c. sulla base del fatto che non aveva adottato le adeguate misure per preservare l'integrità dei dipendenti, quali l'utilizzo di vetri blindati, di telecamere a circuito chiuso etc.); Cass. 13 aprile 2015, n. 7405 (rapina alle Poste), con nota di L.M. DENTICI, Sull'efficacia preventiva, dissuasiva e protettiva delle misure antirapina, in Giurisprudenza italiana, 11/2015, pp. 2428-2431.

(33) Cass. civ., sez. lav., 18 novembre 2019, n. 29879, per la responsabilità ex art. 2087 c.c. del datore di lavoro in caso di uccisione, avvenuta per mano di ignoti, di una portiera-custode di un collegio studentesco durante un turno di lavoro notturno, sulla base della considerazione che l'adozione delle misure di sicurezza antirapina era richiesta nel caso concreto dal fatto che la lavoratrice era stata incaricata di custodire le quote di pernottamento degli studenti.

(34) Sulla violenza nel mondo del calcio, si rimanda al recente contributo di H. EGE, D. TAMBASCO, Il calcio molesto, in Rivista di Diritto Sportivo, 2/2021.

(35) Cass. civ. 10 luglio 2012, n. 11545, nel caso di lavoratrice vittima di scippo nel tragitto di ritorno dal lavoro verso casa; conf., ex multis, Cass. 26 novembre 2019, n. 30874; Cass. civ., 6 febbraio 2018, n. 2838; Cass. 22 febbraio 2012, n. 2642; Cass. 18 maggio 2009, n. 11417; Cass. 8 giugno 2005, n. 11950; Cass. 27 luglio 2006, n. 17167; Cass. 4 aprile 2005, n. 6929; Cass. 1° settembre 2004, n. 17544; Cass. 18 marzo 2004, n. 5525; Cass. 6 agosto 2003, n. 11885.

(36) Tra le molteplici pronunce, viene in considerazione ad esempio un caso di conflittualità accentuato dalle recriminazioni reciproche scaturite dalla rottura della relazione sentimentale, Cass. civ. sez. lav., 19.01.2018, n. 1381; conf. Cons. Stato sez. VI, 4.11.2014, n. 5419; Sulla base di tale rilievo, si è giunti nella pratica a disconoscere l'esistenza di condotte mobbizzanti o strainizzanti allorché si accerti “l'esistenza tra le parti di una situazione conflittuale protrattasi per lungo tempo, non riferibile in via esclusiva a comportamenti tenuti dal solo datore di lavoro e che traeva origine da un complesso contenzioso che aveva inasprito gli animi”, tale da condurre all'irrogazione di molteplici sanzioni disciplinari –riconosciute legittime in sede giudiziale- dovute alla situazione di tensione accentuatasi a causa delle condotte disciplinarmente rilevanti tenute dal lavoratore, Cass. civ., sez. lav., 5.12.2018, n. 31485; conf. Trib. Pavia, sez. lav., 22.05.2020.

(37) Cass. sez. lav., 21 aprile 2009, n. 9477. Analogamente, in Cass. sez. lav., 28 agosto 2013, n. 19814, non è stato ravvisato il mobbing nel caso in cui si è escluso, con dettagliato esame dei singoli episodi, l'esistenza di atti a contenuto vessatorio, ma si è altresì rilevato che i fatti denunciati, molti dei quali comunque irrilevanti o rimasti indimostrati, avevano assunto solo nella percezione soggettiva della ricorrente una valenza lesiva della sua personalità; le risultanze della prova testimoniale, unitamente a quelle medico-legali espresse nella c.t.u., infatti, avevano tratteggiato un atteggiamento tendente a personalizzare come ostile ogni avvenimento (cd “manie di persecuzione”) e tale da creare tensione nei rapporti di lavoro. In tale contesto dovevano interpretarsi le iniziative assunte dalla direttrice, che in taluni casi costituivano veri e propri atti dovuti in presenza di comportamenti tenuti dalla ricorrente contrari alle regole organizzative dell'Istituto o che costituivano condotte non consone al ruolo ricoperto; in ogni caso, non erano emersi elementi idonei ad avvalorare la tesi di un intento vessatorio.

(38) L'orientamento giurisprudenziale più flessibile ed aperto al caso concreto, infatti, rifugge da parametri temporalmente determinati, avendo coniato la formula della “condotta sistematica e protratta nel tempo” (Cass. civ. sez. lav., 31 maggio 2011, n. 12048; Trib. Bologna, sez. lav., 15 dicembre 2011, n. 1068; Trib. Firenze, sez. lav., 7 luglio 2016) specificando in alcune pronunce la necessità della “permanenza per un apprezzabile lasso di tempo” (Trib. Milano, sez. lav., 30 settembre 2006, n. 2949; Trib. Brescia, sez. lav., 3 settembre 2020, n. 154, est. Corazza). Al contrario, secondo una parte della giurisprudenza – su indicazione della psicologia del lavoro – è necessaria la protrazione della condotta mobbizzante per una durata di almeno 6 mesi (vide ex multis Cass. sez. lav., 9 settembre 2008, n. 22858; Cass. sez. lav., 17 settembre 2009, n. 20046; Trib. Santa Maria Capua Vetere, 10.02.2015, cit.; Tribunale Roma sez. lav., 9.07.2020); il requisito della durata tuttavia si riduce a 3 mesi allorché sia ravvisabile il quick mobbing, secondo un'altra parte della giurisprudenza di merito (Tribunale di Roma sez. lav., 2.06.2020; Tribunale Ascoli Piceno, sez. lav., 18.05.2018).

(39) Per un'analitica descrizione del modello di accertamento del mobbing e dello straining “a sette parametri”, si rimanda a H. EGE, La valutazione peritale del danno da mobbing e straining, cit., pp. 65 e ss.; un'evoluzione di questo modello è il metodo ECCO (Ege Conflict Code Organization), che consente l'applicazione dei sette parametri a tutti i fenomeni di conflittualità lavorativa, esposto per la prima volta in H. EGE, D. TAMBASCO, Il lavoro molesto, cit., pp. 7-24.

(40) “On 19 February 2015 the Court of First Instance (Osnovni sud) in Podgorica ruled against the applicant in civil proceedings (see paragraph 22 above). The court considered her submissions to be true, and observed that the respondent party had offered no evidence to the contrary. It found, on the basis of the expert witness opinion, that the applicant's psychological problems were related to conflict at work. However, it considered, in substance, that the events complained of did not amount to bullying as they had lacked the necessary frequency. In particular, bullying was a form of systematic psychological ill-treatment, rather than being sporadic and individual, and as such required repetition of the actions over a certain period. According to most academics in this field, that meant at least once a week for at least six months. That position was also accepted in the domestic case-law, notably in judgments P.br.2226/11and P.br.768/11”.

(41) “The Court considers that complaints about bullying should be thoroughly examined on a case-by-case basis, in the light of the particular circumstances of each case and taking into account the entire context. In other words, there may be circumstances in which such incidents are less frequent than once a week over a period of six months and still amount to bullying, or circumstances in which such incidents are more frequent and yet do not amount to bullying”.

(42) L'orientamento della giurisprudenza di legittimità, infatti, è quello di valorizzare le molteplici circostanze del caso concreto al fine di determinare la percentuale mensile della retribuzione liquidabile, quali ad esempio: la perdita di opportunità di carriera, anche presso altre realtà produttive, nei casi di qualifiche a livello medio-alto, la posizione gerarchica perduta, la durata della dequalificazione professionale, l'età del lavoratore, l'elemento psicologico della condotta del datore di lavoro (Cass., sez. lav., 8 novembre 2003, n. 16792); l'ampiezza del periodo di durata della dequalificazione, la gravità della dequalificazione alla luce della delicatezza dei compiti in precedenza assegnati al ricorrente e poi sottratti, la reiterazione del demansionamento in segno evidente di dispregio della professionalità del lavoratore (Trib. Genova, sez. lav., 27 settembre 2004); la durata dell'inattività lavorativa forzosa (4 anni), la sua sistematicità, l'elevata qualificazione del lavoratore, gli esiti della dequalificazione che avevano portato ad uno svuotamento quotidiano della professionalità del ricorrente ed alla sua estromissione dalla nuova pianta organica dell'Amministrazione (Trib. Vibo Valentia, sez. lav., est. Nasso, 26.05.2021, n. 346); la forzosa e totale inattività lavorativa del dipendente protratta per un lungo periodo, senza coinvolgerlo in programmi di formazione e riqualificazione professionale, senza adibirlo a mansioni anche inferiori, senza metterlo in qualche modo in condizione di poter esercitare il proprio diritto-dovere di lavoratore (Cass. civ., sez. lav., ord., 13.12.2019, n. 32982; conf. Corte d'Appello Roma, Sez. III, 23.10.2020; Tribunale Roma, Sez. lav., 9.06.2020); la qualità e quantità dell'attività lavorativa svolta, il tipo e la natura della professionalità coinvolta, la durata del demansionamento, la diversa e nuova collocazione lavorativa assunta dopo la prospettata dequalificazione (Cass. civ., sez. lav., 8.07.2021, n. 19522; Cass. civ., sez. lav., 5.01.2021, n. 15; Cass. 32982/2019; 25743/2018; Cass. 2.10.2019 n. 24585, Cass. 20.4.2018 n. 9901); lo svolgimento di operazioni meccaniche, elementari e ripetitive per un notevole lasso di tempo, ovverosia per 105 mesi (Cass. civ., sez. lav., 4.12.2020, n. 27910). Di recente, tuttavia, una pronuncia di merito (Corte d'Appello di Catanzaro, sezione lavoro, 16 settembre 2021, est. Murgida) ha liquidato il danno alla professionalità (definito dal giudice di merito quale “compromissione dell'identità professionale”) utilizzando un altro parametro di riferimento, basato sull'importo previsto per il danno biologico da inabilità temporanea assoluta ex art. 139, c. 1, d.lgs. n. 209 del 2005, scorporando la componente già assorbita dal risarcimento da riconoscere a titolo di danno biologico permanente e tenendo conto della durata del periodo di demansionamento.

(43) Trib. Bologna, sez. lav., 28.04.2010. Ovviamente, secondo questa giurisprudenza la distinzione tra vessazione e conflitto è funzionale a discernere tra vero e falso mobbing.

(44) Il riferimento è all'art 1, lett. a) della Convenzione ILO 190, secondo il cui disposto “l'espressione “violenza e molestie” nel mondo del lavoro indica un insieme di pratiche e di comportamenti inaccettabili, o la minaccia di porli in essere, sia in un'unica occasione, sia ripetutamente, che si prefiggano, causino o possano comportare un danno fisico, psicologico, sessuale o economico, e include la violenza e le molestie di genere”.

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