Presunzione di innocenza e comunicazione giudiziaria. Il d.lgs. n. 188/2021
17 Gennaio 2022
Abstract
Il decreto legislativo n. 188 dell'8 novembre 2021, entrato in vigore il 14 dicembre successivo, recepisce l'art. 4 della Direttiva UE 2016/343 sulla presunzione di innocenza. In particolare il principio viene declinato con riferimento alla comunicazione giudiziaria di tipo istituzionale ed alla tecnica di redazione dei provvedimenti giudiziari. Certamente la nuova normativa costituisce un ulteriore passo in avanti nell'effettiva tutela del principio di non colpevolezza che nel nostro sistema assurge a rango costituzionale attraverso la previsione dell'art. 27 della Carta. Tuttavia la tecnica di normazione seguita non consente di definire in modo chiaro ed univoco quali siano i limiti introdotti dalla novella. Tale aspetto, unito al carattere farraginoso dei rimedi previsti in caso di violazione rischiano di approntare una tutela inefficace e suscettibile di forti strumentalizzazioni e collide, in parte, con il diritto di libertà di informazione che pure trova affermazione nell'art. 21 della Costituzione oltre che dall'art. 10 della CEDU e dall'art. 11 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea. Premessa
Il 14 dicembre è entrato in vigore il decreto legislativo n. 188, dell'8 novembre 2021, sulla presunzione di innocenza. Il testo, è stato pressoché ignorato durante la sua gestazione parlamentare, ad eccezione di pochi isolati commentatori, ma dopo la sua entrata in vigore è diventato oggetto di un acceso dibattito pubblico, tanto da determinare una tardiva richiesta di modifica ad opera di alcune forze politiche. Tale attenzione è determinata dalla forte interferenza della nuova normativa con il diritto – dovere alla comunicazione giudiziaria e alla conseguente conoscibilità, ad opera degli organi di informazione, delle attività giudiziarie. Il decreto legislativo costituisce adeguamento della normativa nazionale alla direttiva UE 2016/343 del Parlamento europeo e del Consiglio, in tema di rafforzamento della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali. In particolare il Parlamento ha ritenuto di introdurre nel nostro sistema, per altri aspetti già conforme alla direttiva, un corpo di norme che riguardano principalmente la riaffermazione del principio di non colpevolezza nella comunicazione giudiziaria e nella tecnica di redazione dei provvedimenti giudiziari. In tal modo è stato dato recepimento all'art. 4 della direttiva relativo al “riferimento in pubblico alla colpevolezza”. Tale norma europea afferma, in sintesi, che gli Stati membri devono garantire, fino a quando la colpevolezza dell'imputato non sia affermata da sentenza definitiva, che le dichiarazioni rilasciate dalle autorità pubbliche e le decisioni giudiziarie diverse da quelle che statuiscono sulla colpevolezza, non presentino la persona come colpevole. Da tale onere sono esentate gli atti della pubblica accusa volti a dimostrare la colpevolezza dell'indagato e dell'imputato e le decisioni preliminari di natura procedurale, adottate dall'autorità giudiziaria e fondate sul sospetto o su indizi di reità (paragrafo 1). Al paragrafo 2 è previsto che gli Stati membri adottino misure appropriate al fine di garantire l'osservanza del principio e sanzionarne le violazioni; mentre il terzo ed ultimo paragrafo fa salva la possibilità che l'autorità pubblica fornisca informazioni sui procedimenti penali ma pone il limite costituito dalla sussistenza di motivazioni connesse alle indagini in corso o dalla sussistenza di un interesse pubblico circa i fatti oggetto del procedimento. Il legislatore italiano ha inteso dare attuazione a tali principi attraverso tre articoli del decreto legislativo, che ne costituiscono il corpo centrale: l'art. 2 volto a disciplinare le dichiarazioni delle autorità pubbliche e a definire il relativo procedimento di tutela contro eventuali violazioni; l'art. 3 destinato all'attività di informazione sulle attività giudiziarie svolte dalle procure della Repubblica, che introduce alcune integrazioni all'art. 5 del decreto legislativo n. 106 del 2006, già dedicato a disciplinare tale delicata funzione; l'art. 4, che contiene modifiche al codice di procedura penale in tema di redazione dei provvedimenti giudiziari e, anche per tale contesto, definisce gli strumenti di tutela contro le relative violazioni.
Alle dichiarazioni delle autorità pubbliche è dedicato l'art. 2 del decreto legislativo che afferma, al primo comma, che, alle stesse, è fatto divieto di indicare pubblicamente come colpevole la persona sottoposta ad indagini o l'imputato, fino a quando la sua colpevolezza non sia stata accertata con decisione giudiziaria irrevocabile. Il principio, che discende direttamente dall'art. 27 della Costituzione, viene declinato sul piano della comunicazione e proprio in tale contesto avrebbe meritato, volendo legiferare sul punto, una maggiore definizione. Infatti non risulta percepibile quanto sia ampio il precetto posto del legislatore ed in particolare quale sia la sua latitudine. Infatti se ci si dovesse fermare alla dizione letterale, il divieto di “indicare pubblicamente come colpevole” la persona ancora sottoposta a giudizio, troverebbe un ambito di applicazione fortemente circoscritto. È ben raro, infatti, rinvenire nella comunicazione istituzionale relativa alle vicende giudiziarie una esplicita e anticipata stigmatizzazione di colpevolezza in danno di chi non abbia visto riconosciute le sue responsabilità in modo definitivo. La cultura delle garanzie e del rispetto per i diritti della persona sottoposta a procedimento penale è ben radicata nelle istituzioni repubblicane, tanto da far ritenere eccessivo e sovrabbondante un precetto normativo che giunge all'esito di una pratica già ampiamente condivisa. Se tuttavia si volesse dara al precetto una portata più ampia di quella letterale si scivolerebbe nella assoluta indeterminatezza. Infatti attribuire rilievo a dichiarazioni che potessero implicitamente dare il senso di una anticipazione di pubblico giudizio a fronte di una loro formale correttezza espressiva, sposterebbe il precetto nella dimensione della valutazione meramente soggettiva e per ciò mutevole ed influenzata da elementi non suscettibili di univoca valutazione giuridica. E ciò è obiettivamente incompatibile con il rimedio giurisdizionale che, come vedremo è definito dalla norma nelle forme dell'art. 700 c.p.c.. Si tratta, quindi, di un principio, che per la comunicazione istituzionale, è destinato a sancire l'esistente, mentre meriterebbe di trovare applicazione in altri contesti comunicativi che, tuttavia ne sono esclusi. Ci si riferisce alla comunicazione giornalistica e alla comunicazione politica, ove i principi fondamentali di rispetto per la persona sottoposta al procedimento penale non sono sempre e comunque praticati e, sovente, si assiste ad affermazioni e giudizi impropri, per la fase processuale in corso di svolgimento, troppo spesso scientemente finalizzati alla pubblica esecrazione di comportamenti non ancora definiti ed accertati. Tuttavia, come si diceva, il precetto dell'art. 2 non sembra applicarsi a tali ricorrenti eccessi comunicativi. Infatti, se la stampa è esplicitamente esclusa dalla nozione di autorità pubblica, quanto alla comunicazione politica sembra opportuno trarre criteri interpretativi dal considerando n. 17 della Direttiva UE. Secondo tale precisazione, sono da ricomprendere tra le dichiarazioni di autorità pubbliche quelle provenienti “da un'autorità coinvolta nel procedimento penale (…) quali le autorità giudiziarie, di polizia o le altre autorità preposte all'applicazione della legge o da un'altra autorità pubblica, quali ministri ed altri funzionari pubblici, fermo restando che ciò lascia impregiudicato il diritto nazionale in materia di immunità”. Il riferimento da un lato ai ministri e dall'altro al regime delle immunità sembra, quindi, disegnare una limitazione soggettiva che ricomprende per intero la comunicazione istituzionale relativa alle vicende giudiziarie, ivi compresa quella sempre più spesso assunta personalmente dei Ministri degli Interni e della Giustizia, ma lascia fuori la comunicazione politica svolta dai parlamentari ai quali si fa implicito riferimento attraverso il richiamo all'insindacabilità delle opinioni (e dei voti) espresse nell'esercizio del loro mandato. Ovviamente si tratta di un ambito dai confini non facilmente definibili, ad esempio quando il ministro assuma anche la qualifica di parlamentare o di leader politico; circostanza che rende certamente meno facile la distinzione tra le dichiarazioni assunte nell'una o nell'altra veste e, conseguentemente l'ambito della la relativa insindacabilità. Con riferimento alle dichiarazioni rese dai parlamentari, invece, come già avviene per la diffamazione, si tratterà di tracciare, volta per volta, il confine tra dichiarazioni rese all'interno o al di fuori dell'ambito delle funzioni parlamentari. Dal considerando n. 17 si ricava, inoltre, una seconda limitazione soggettiva, laddove con riferimento all'autorità giudiziaria e di polizia, il divieto è limitato esclusivamente a quelle coinvolte nel procedimento penale oggetto delle dichiarazioni. Sono esclusi quindi gli appartenenti all'ordine giudiziario e alle forze di polizia che, estranee allo specifico procedimento, dovessero rilasciare dichiarazioni pubbliche non rispettose del divieto. A questi si applicheranno le norme sull'ordinaria responsabilità penale e civile per l'eventuale offesa alla reputazione dell'indagato o dell'imputato, che attraverso la nuova normativa può essere, più facilmente che in passato, determinata anche dalla violazione del suo diritto alla presunzione di innocenza. I commi successivi dell'art. 2 sono dedicati a definire la procedura per la tutela del diritto in caso di violazione. In primo luogo si stabilisce che, salve le ipotesi di responsabilità penale e disciplinare, in capo all'autore delle dichiarazioni che violano il divieto, l'interessato può chiedere la rettifica della dichiarazione alla stessa autorità che la ha emessa. Quest'ultima, se ritiene fondata la richiesta, provvede alla rettifica nelle 48 ore successive, dandone pubblicità con le stesse modalità della dichiarazione iniziale e, se non è possibile, con modalità idonee a garantirne la medesima diffusione. Se la rettifica non viene adottata o le modalità non ne garantiscono la idonea diffusione, l'interessato può adire il Tribunale, con procedura ex art. 700 c.p.c., onde ottenere la rettifica non concessa o la sua più ampia diffusione. Si tratta, anche in questo caso, di una disciplina apparentemente piana e di facile applicazione, che tuttavia, ad un esame più attento, rivela una serie di ambiguità e di insidie. In primo luogo c'è da chiedersi se la richiesta, rivolta alla medesima autorità che ha espresso la dichiarazione, non possa instaurare un contraddittorio inappropriato tra chi ha emesso il provvedimento giudiziario, che solitamente offre occasione per la dichiarazione, e il soggetto che ne è sottoposto; con la possibilità di operare una sorta di impropria riconvenzionale, attraverso la quale, contestando la dichiarazione, si persegua di fatto l'obiettivo di contrastare il merito del provvedimento sgradito o screditare la stessa indipendenza ed imparzialità dell'autorità che lo ha emesso. Questo effetto deviante potrebbe essere ulteriormente amplificato dalla risonanza mediatica che, della propria iniziativa, intenda dare la persona sottoposta al procedimento, raggiungendo l'effetto di un capovolgimento di ruoli tra l'autorità che esercita il controllo giudiziario sulla condotta del singolo e il singolo che, tramite la rettifica e poi il ricorso ex art. 700 c.p.c., attiva un immediato e pressoché contestuale controllo giudiziario sull'attività dell'autorità che procede nei suoi confronti, seppur limitato formalmente ai profili comunicativi. Tale effetto rischia di essere ulteriormente amplificato dalla mancata indicazione normativa del soggetto legittimato passivo del ricorso d'urgenza. Nel silenzio della legge si dovrebbe ritenere che legittimata passiva è l'amministrazione dalla quale dipende l'autore delle dichiarazioni e non il singolo, ma si tratta di un aspetto troppo delicato per essere lasciato ad una definizione successiva in sede giudiziaria. Senza tacere il fatto che, allorquando l'autore delle dichiarazioni fosse ad esempio il Presidente del Tribunale o della Corte di Appello o suoi magistrati delegati, questi potrebbero trovarsi chiamati in giudizio di fronte ad un giudice dello stesso Tribunale, non essendo stato previsto un coordinamento tra la norma introdotta e quella che regola la competenza per i procedimenti relativi ai magistrati (art. 30-bis c.p.c.). La comunicazione degli uffici requirenti e il diritto di accesso alle informazioni giudiziarie
L'art. 3 del decreto legislativo è dedicato a disciplinare la comunicazione giudiziaria svolta dagli uffici del pubblico ministero. Il tema era già disciplinato dall'art. 5 del Decreto legislativo n. 106 del 2006, secondo il quale il Procuratore è il titolare dei rapporti con la stampa e può delegare tale funzione ad un componente dell'ufficio. Per gli altri magistrati requirenti, invece, è vietato rilasciare dichiarazioni e fornire notizie a pena di sanzione disciplinare, attivabile su segnalazione dallo stesso Procuratore capo, nell'esercizio dei suoi poteri di vigilanza dell'ufficio. Quanto ai contenuti della comunicazione giudiziaria, l'art. 5 si limita a prevedere che, nel fornire le informazioni, le attività giudiziarie compiute debbano essere attribuite impersonalmente e genericamente all'ufficio, omettendo ogni riferimento ai singoli magistrati titolari del relativo procedimento. Su tale base normativa intervengono le modifiche apportate dall'art. 3 del decreto legislativo in esame. In particolare si dispone, quanto alla forma, che le comunicazioni del Procuratore possano essere veicolate esclusivamente attraverso comunicati ufficiali e, nei casi di particolare rilevanza, tramite conferenza stampa. Inoltre la determinazione di procedere a conferenza stampa dovrà essere assunta con atto motivato nel quale verranno esposte le specifiche ragioni di interesse pubblico che la giustificano. Più in generale si dispone, differentemente dal passato, che la diffusione di informazioni sui procedimenti penali è consentita soltanto quando questa sia necessaria per la prosecuzione delle indagini o quando ricorrano specifiche ragioni di interesse pubblico. In ogni caso le informazioni sono diffuse in modo da chiarire la fase in cui pende il procedimento e da assicurare il diritto della persona indagata o imputata a non essere indicata quale colpevole fino a accertamento irrevocabile della sua responsabilità. Le stesse regole si applicano alle informazioni rese dalla polizia giudiziaria che, peraltro, dovranno essere autorizzate con atto motivato del Procuratore che specifichi le ragioni di pubblico interesse che ne giustificano la diffusione. Inoltre alla polizia giudiziaria è fatto divieto di assegnare, alle rispettive indagini, denominazioni che siano lesive della presunzione di innocenza. Dalla lettura coordinata delle norme esaminate nel paragrafo precedente con quelle qui illustrate consegue che la comunicazione delle Procure è disciplinata dai divieti prescritti dall'articolo 2 e dalle relative procedure in caso di infrazione, nonché dalle modalità tassativamente indicate nell'art. 3. Per queste ultime non è prevista una specifica procedura in caso di violazione ma, il costante richiamo alla motivazione espressa, lascia intendere che le varie attività possano essere sottoposte ad un controllo postumo ed eventualmente sanzionate disciplinarmente ai sensi dell'art. 2 lettera v) del d.lgs. n. 109 del 2006 relativo al procedimento ed alle sanzioni disciplinari dei magistrati. Secondo la norma indicata, infatti, costituiscono illecito disciplinare le “pubbliche dichiarazioni o interviste che riguardino i soggetti coinvolti negli affari in corso di trattazione, ovvero trattati e non definiti (…) quando sono dirette a ledere indebitamente diritti altrui”. Che la comunicazione giudiziaria delle procure dovesse essere particolarmente attenta ad “evitare ogni rappresentazione delle indagini idonea a determinare nel pubblico la convinzione della colpevolezza delle persone indagate” era già un dato acquisito e formalmente sancito dalle Linee Guida per l'organizzazione degli uffici giudiziari ai fini di una corretta informazione istituzionale adottate dal Consiglio superiore della Magistratura con delibera dell'11 luglio 2018. Nulla però era previsto in precedenza in ordine all'an ed al quomodo di tale comunicazione che oggi vengono definiti in modo particolarmente stringente. Sotto il primo profilo, in adesione alla Direttiva UE, si prevede quindi che la comunicazione debba essere limitata ai casi in cui sia necessaria per la prosecuzione delle indagini o per ragioni di pubblico interesse. Sotto il secondo profilo, non già disciplinato dalla normazione sovranazionale e, quindi, frutto esclusivamente della determinazione del legislatore nazionale, la comunicazione delle procure e della polizia giudiziaria può avvenire soltanto attraverso comunicato ufficiale e, in casi eccezionali e previa adozione di provvedimento motivato, tramite conferenza stampa. Entrambe le limitazioni presentano delle criticità. In particolare appare insidiosa la previsione che condiziona alla sussistenza di un interesse pubblico sia l'opportunità di diramare informazioni sia la scelta del mezzo della conferenza stampa. La valutazione circa la sussistenza o meno di tale presupposto si presta, con tutta evidenza, a giudizi differenziati, fortemente soggettivi e quindi controvertibili. La previsione di una formalizzazione scritta di tale valutazione, in vista di future verifiche e con lo spauracchio dell'accertamento disciplinare, quando non della sanzione, produrrà l'inevitabile effetto di interrompere ogni comunicazione, con grave pregiudizio della libertà di informazione, anch'essa presidiata dal dettato costituzionale. Non si deve inoltre dimenticare che la conoscibilità delle attività giudiziarie, specialmente in relazione alle delicatissime funzioni inquirenti, costituisce il presupposto indefettibile del controllo democratico, esercitato dall'opinione pubblica e dalle altre istituzioni, tramite i canali di informazione, circa il corretto esercizio delle funzioni giudiziarie; la interruzione del circuito di circolazione delle informazioni giudiziarie può arrecare, quindi, un vulnus agli equilibri fissati dalla carta costituzionale. Per altro verso non si può certo immaginare che la chiusura dei canali istituzionali di informazione possa arrestare la continua ricerca di notizie, anche in campo giudiziario, attuata degli organi di informazione. Con la conseguenza pressoché inevitabile, che la chiusura ovvero la forte riduzione della comunicazione ufficiale amplierà il campo della circolazione clandestina delle informazioni, con un forte rischio sia relativo alla loro correttezza ed attendibilità, sia relativo alla creazione o al rafforzamento di canali occulti e privilegiati di comunicazione tra autorità giudiziaria e singoli giornalisti o singole testate. Per evitare questa ulteriore e negativa torsione dei rapporti tra magistratura requirente e mezzi di informazione, che il Decreto legislativo vorrebbe arginare e, invece rischia di alimentare, è assolutamente indispensabile che, nel quadro normativo modificato, vengano adottate dal CSM nuove linee guida, o analoghi strumenti di indirizzo, che tipizzino, almeno in via generale, i parametri in base ai quali riscontrare e motivare la sussistenza di un interesse pubblico alla comunicazione giudiziaria. Solo tale iniziativa potrà superare l'ambiguità della formulazione scelta dal legislatore e restituire agli uffici uno spazio chiaro, per quanto delimitato, nel quale esercitare la funzione, per alcuni versi doverosa, della informazione sulle attività svolte. Tra questi criteri è inoltre necessario che venga indicata, quale determinata da pubblico interesse, l'informazione volta a ripristinare la verità dei fatti in merito alle attività svolte e alle determinazioni effettivamente assunte. Infatti non è raro che gli organi di informazione veicolino notizie non rispondenti al vero che presentano un potenziale lesivo o della reputazione dei soggetti indicati per essere attinti da indagini o da provvedimenti o della credibilità dell'azione giudiziaria svolta dalle procure o dalle forze di polizia che avrebbero omesso attività necessarie o posto in essere attività immotivatamente lesive dei diritti dei cittadini. In un senso e nell'altro è necessario riconoscere un primario interesse pubblico e generale nel ripristino della verità dei fatti a tutela dei cittadini e dell'istituzione giudiziaria. Gli interventi sulla tecnica di redazione dei provvedimenti giudiziari
L'ultimo intervento normativo contenuto nel decreto legislativo in esame riguarda la tecnica di redazione dei provvedimenti giudiziari in relazione al rispetto rigoroso del principio di innocenza. In particolare l'art. 5 del decreto interviene sul codice di procedura penale introducendo l'art. 115-bis. Secondo tale nuova disposizione, nei provvedimenti giudiziari, le persone imputate ed indagate non possono essere indicate come colpevoli, fino a che non si giunga ad un accertamento irrevocabile sulla loro responsabilità. Fanno eccezione a questa regola generale: a) gli atti del pubblico ministero volti a dimostrare la colpevolezza; b) i provvedimenti volti alla decisione in merito alla responsabilità penale dell'imputato; c) i provvedimenti che prevedono la valutazione di prove, elementi di prova e indizi di colpevolezza, nei quali tuttavia l'autorità giudiziaria limita i riferimenti alla colpevolezza alle sole indicazioni necessarie a soddisfare i presupposti, i requisiti e le altre condizioni richieste dalla legge per l'adozione dei provvedimenti. In caso di violazione è anche qui previsto un procedimento finalizzato ad ottenere la correzione del provvedimento che contenga affermazioni in violazione del divieto. Sull'istanza di correzione provvede il giudice che procede, con decreto motivato entro 48 ore. Nel corso delle indagini preliminari provvede, invece, sempre il GIP. Il provvedimento di correzione o di rigetto dell'istanza, comunicato a tutte le parti, è opponibile davanti al presidente del Tribunale o della Corte di Appello che decide nei 10 giorni successivi. Già la prima lettura della norma offre spunti critici. In fatti tra le categorie di provvedimenti esclusi dal divieto, solo quella delle sentenze che definiscono il grado di giudizio appare chiaramente desumibile, anche se il legislatore avrebbe potuto utilizzare una terminologia più rigorosa ad aderente al dettato codicistico. Rimangono, invece, evanescenti le altre due categorie di provvedimenti. Quanto a quelli del P.M., non è facile stabilire quali siano quelli volti a dimostrare la colpevolezza. A rigore neanche le richieste cautelari avrebbero questa finalità, essendo sottese a dimostrare, non la colpevolezza, ma la sussistenza di gravi indizi e di esigenze cautelari. Tali non potrebbero essere neanche quelli con i quali viene esercitata l'azione penale, che si limitano, attraverso la formulazione della contestazione, a definire il tema del giudizio che viene contestualmente richiesto ma non certo a dimostrare la colpevolezza. L'unico atto del PM riconducibile alla categoria appare essere, quindi, la requisitoria con la quale l'accusa, effettivamente, tende a dimostrare la colpevolezza dell'imputato argomentando in relazione agli esiti della fase di giudizio in corso. Se invece dovessimo tenere in conto un elevato grado di a tecnicità della definizione adottata dal legislatore, ci troveremmo privi di qualsiasi chiaro riferimento agli atti del P.M. per i quali vige il divieto. Sono solo quelli relativi alle richieste cautelari e quelli che comportano l'esercizio dell'azione penale o devono essere ritenuti esenti anche gli atti di indagine relativi a perquisizione e sequestro e alle richieste di autorizzazione alle intercettazioni telefoniche? Si tratta di atti per i quali non è richiesta alcuna anticipazione di giudizi di colpevolezza, essendo sufficienti gli elementi desumibili degli indizi gravi o sufficienti e dalla prospettazione delle esigenze volta per volta prospettate dalla normativa che disciplina l'atto. D'altro canto ad essi è sotteso un implicito convincimento in favore della responsabilità dell'indagato, quanto meno allo stato degli atti. Certamente sarebbe stata indispensabile una più attenta definizione normativa, anche perché il rimedio della correzione presuppone la tassativa indicazione del divieto. La stessa esigenza si riscontra in relazione alla terza categoria di atti esentati, quelli che prevedono la valutazione di prove, elementi di prova e indizi di colpevolezza e, per i quali l'autorità giudiziaria è tenuta a limitare i riferimenti alla colpevolezza alle sole indicazioni strettamente necessarie. È intuibile che rientrino in tale categoria e provvedimenti cautelari ed anche quelli che si pronunciano sui relativi ricorsi ed appelli ma il difetto di tecnicismo e di tassatività del legislatore appare qui davvero eclatante. E non fornisce chiave di chiarificazione l'individuazione del GIP quale unica autorità competente a decidere sulla richiesta di correzione degli atti emessi nella fase delle indagini. Infatti se è ben concepibile un potere di correzione da parte del GIP sugli atti del P.M., sempre che ve ne siano soggetti al divieto, molto meno ragionevole è ipotizzare un potere di correzione di questo giudice sulle ordinanze del Tribunale del riesame o della Corte di Cassazione in materia di ricorso cautelare. Il quadro offerto dall'esame di queste norme, in mancanza di una necessaria precisazione, che in questo caso non potrebbe che venire dal legislatore, è, quindi, assolutamente confusionario e mal si coniuga con le intenzioni manifestate dal legislatore di rafforzare l'effettività di un principio cardine del nostro sistema giudiziario quale quello della presunzione di innocenza. In conclusione
La disciplina introdotta dal decreto legislativo n. 188, dell'8 novembre 2021, in attuazione della direttiva UE 2016/343 del Parlamento europeo e del Consiglio, costituisce un atto dal significativo valore culturale. Il principio di innocenza, che nel nostro sistema giudiziario assurge al primario rango costituzionale, è uno dei capisaldi del sistema delle garanzie democratiche. La sua affermazione, anche in relazione alla comunicazione giudiziaria, costituisce un momento di ulteriore avanzamento nella tutela del principio. È tuttavia illusorio ritenere che una conformazione più rigorosa dei comportamenti comunicativi di tipo istituzionale possa influire positivamente anche negli altri segmenti della comunicazione pubblica; in particolare nella comunicazione giornalistica e nella comunicazione politica, ove, in modo ben più grave e frequente che non nella comunicazione giudiziaria di tipo istituzionale, si assiste a continue gravi violazioni di tale principio che, con la novella legislativa non si è inteso in alcun modo arginare. Rimangono grandi perplessità sulle soluzioni tecniche adottate che presentano momenti di grave lacunosità e confusionarietà e che, attraverso la creazione di nuovi incidenti procedurali e momenti di tutela giurisdizionale, comporteranno un appesantimento complessivo della speditezza dei processi ed un conseguente allungamento dei tempi di definizione, proprio in un momento nel quale tutti gli sforzi riformisti dovrebbero tendere all'accelerazione dei tempi e all'incremento dell'efficienza. Inoltre gli interventi sulla comunicazione istituzionale delle procure della Repubblica sembrano orientati non al miglioramento della qualità della comunicazione ma alla forte riduzione della stessa, ponendo il principio di non colpevolezza in impropria contrapposizione con quello, di pari rango costituzionale, della libertà di informazione e contravvenendo anche agli orientamenti europei che favoriscono la più ampia e trasparente, purché corretta, informazione giudiziaria riconoscendo ad essa un insostituibile valore democratico. |