Un coniuge che divide equamente il proprio tempo tra due Stati membri non può avere due residenze abituali

Paolo Bruno
19 Gennaio 2022

La questione di diritto affrontata dalla Corte attiene alle caratteristiche della residenza abituale del coniuge, ed in particolare su come interpretare l'articolo 3, paragrafo 1, lettera a), del regolamento n. 2201/2003.
Massima

L'articolo 3, paragrafo 1, lettera a), del regolamento (CE) n. 2201/2003 del Consiglio, del 27 novembre 2003, relativo alla competenza, al riconoscimento e all'esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e in materia di responsabilità genitoriale, che abroga il regolamento (CE) n. 1347/2000, deve essere interpretato nel senso che un coniuge che divide la propria vita tra due Stati membri può avere la propria residenza abituale in uno solo di tali Stati membri, cosicché solo i giudici dello Stato membro nel cui territorio è situata tale residenza abituale sono competenti a statuire sulla domanda di scioglimento del vincolo matrimoniale.

Il caso

Nel dicembre 2018 un cittadino francese presenta domanda di divorzio dalla moglie cittadina irlandese davanti al Tribunale di Parigi, assumendo di esercitare la propria attività professionale in Francia dal 2010 e in modo stabile e permanente dal mese di maggio 2017, e di dividere il suo tempo tra Parigi (durante la settimana) e l'Irlanda (nel fine settimana) per far visita ai figli. Preso atto della contestazione della competenza territoriale avanzata dalla moglie – che ritiene competente il giudice irlandese, non essendo mai stata modificata la residenza del nucleo familiare e non essendo sufficiente che il ricorrente produca i suoi redditi in un altro Stato membro per dimostrare un mutamento significativo della sua precedente residenza abituale – il Tribunale parigino chiede alla Corte di Giustizia di fornire dei criteri interpretativi di tale ultimo concetto, alla luce del fatto che gli elementi dedotti in causa consentirebbero di ritenere che il ricorrente risieda abitualmente in due Stati membri.

La questione

La questione di diritto affrontata dalla Corte attiene alle caratteristiche della residenza abituale del coniuge, ed in particolare alla necessità di chiarire se l'articolo 3, paragrafo 1, lettera a), del regolamento n. 2201/2003 debba essere interpretato nel senso che un coniuge che divide la propria vita tra due Stati membri possa avere la propria residenza abituale in entrambi, cosicché i giudici di questi ultimi potrebbero essere competenti a statuire sulla domanda di scioglimento del vincolo matrimoniale.

Le soluzioni giuridiche

La Corte di Giustizia ricorda di essersi già pronunciata sulla possibilità che più giudici siano competenti rispetto ad una domanda di scioglimento del matrimonio, ma rileva preliminarmente che il Reg. (CE) n.2201/2003 (c.d. Bruxelles II-bis) non contiene una definizione di residenza abituale, che dunque costituisce una nozione autonoma del diritto UE, e che dal punto di vista letterale essa è sempre riportata nel testo nella forma singolare. Osserva in secondo luogo che dall'impiego dell'aggettivo “abituale” si può dedurre che la residenza deve avere una certa stabilità o regolarità, e che l'assimilazione della residenza abituale di una persona al centro permanente o abituale in cui si trovano i suoi interessi non depone nel senso di accettare che una pluralità di residenze possano, contemporaneamente, presentare un siffatto carattere.

I giudici rilevano, in terzo luogo, che l'obiettivo perseguito dalle regole di competenza stabilite dal regolamento n. 2201/2003 consiste nell'assicurare un equilibrio tra la mobilità delle persone all'interno dell'Unione europea e la certezza del diritto, la prima essendo facilitata dalla previsione di criteri di competenza alternativi ma la seconda potendo essere messa a rischio dall'ammettere la sussistenza di multiple residenze abituali. Ed invero, la Corte osserva che al concetto di residenza abituale ed alla sua interpretazione sono legate quelle di altri regolamenti europei in materia di famiglia: segnatamente, quelli in tema di obbligazioni alimentari (Reg. CE n.4/2009) e di regimi patrimoniali del matrimonio (Reg. UE n.1103/2016), sui cui criteri di collegamento si rifletterebbe l'incertezza della definizione e l'imprevedibilità del giudice competente se si ammettesse appunto che più residenze possono essere abituali.

Da ultimo, la Corte rileva come la nozione di residenza abituale sia intrinsecamente composta da due elementi – da un lato, la volontà dell'interessato di fissare il centro abituale dei suoi interessi in un luogo determinato e, dall'altro, una presenza che denota un grado sufficiente di stabilità nel territorio dello Stato membro interessato – cosicché la sussistenza di entrambi nel caso di specie deve essere accertata dal giudice rimettente, tenuto conto del fatto che un coniuge non può essere abitualmente residente in due Stati membri.

Osservazioni

La pronuncia in commento si caratterizza per il tentativo, a giudizio di chi scrive non del tutto riuscito, di chiarire ulteriormente i contorni di una delle nozioni che – nell'ambito del diritto di famiglia europeo – maggiormente hanno impegnato dottrina e giurisprudenza: quella della residenza abituale.

Sul tema molto è stato scritto e numerose sono le pronunce giurisprudenziali, anche della Corte di Lussemburgo, che – tuttavia – si era sino ad ora concentrata maggiormente sulla residenza abituale del minore, tratteggiandone gli elementi principali con riguardo alle varie fasce di età, piuttosto che su quella del coniuge.

Nella decisione in commento i giudici europei affermano che anche laddove le circostanze del caso concreto denotino una analoga ripartizione del tempo che un coniuge trascorre in due diversi Stati membri, questi può avere un'unica residenza abituale che – in quanto tale – può convivere con altre residenze “semplici” ma deve distinguersene sulla base di elementi ulteriori.

A giudizio della Corte, infatti, la nozione di residenza abituale è caratterizzata, in via di principio, da due elementi: da un lato, la volontà dell'interessato di fissare il centro abituale dei suoi interessi in un luogo determinato e, dall'altro, una presenza che denota un grado sufficiente di stabilità nel territorio dello Stato membro interessato. Ciò posto, un coniuge che pretende di avvalersi del criterio di competenza previsto all'articolo 3, paragrafo 1, lettera a), quinto o sesto trattino, del Reg. Bruxelles II-bis deve necessariamente aver trasferito la propria residenza abituale nel territorio di uno Stato membro diverso da quello della precedente residenza abituale comune e quindi, da un lato, aver manifestato la volontà di stabilire il centro abituale dei suoi interessi in tale altro Stato membro e, dall'altro, aver dimostrato che la sua presenza nel territorio di detto Stato membro gode di un grado sufficiente di stabilità.

Tale conclusione è raggiunta sulla scorta di un'analisi non solo letterale dell'art.3, ma anche della sua ratio e della sua collocazione all'interno di un sistema – quello dei criteri di competenza giurisdizionale – che è comune ad altri regolamenti in materia di cooperazione giudiziaria civile (come quello sulle obbligazioni alimentari, Reg. CE n.4/2009, e quello sui regimi patrimoniali del matrimonio, Reg. (UE) n.1103/2016) e favorisce una auspicata e tendenziale convergenza tra forum e jus grazie all'interrelazione con il Reg. (UE) n.1259/2010 sulla legge applicabile alla separazione e al divorzio (c.d. Roma III).

Sennonché, mentre la Corte ammette come “non sia escluso che un coniuge possa contemporaneamente disporre di più residenze” (cfr. par.51) ma non chiarisce quali siano gli indici che concretamente farebbero spiccare una residenza rispetto all'altra, questa operazione ermeneutica è compiuta dall'Avvocato Generale Campos Sanchèz-Bordona attraverso un raffronto tra le varie e peculiari accezioni della residenza abituale rinvenibili in vari regolamenti europei (incluso quello sull'insolvenza transfrontaliera).

Ed invero l'Avvocato Generale sollecita (cfr. par.61 delle sue conclusioni) il recepimento di un'idea di residenza abituale quale centro degli interessifondamentali” dell'individuo, da considerarsi quali “quelli afferenti alla vita sociale e familiare” in contrapposizione a quelli “professionali e patrimoniali” che certamente contribuiscono all'individuazione di siffatto centro ma non possono di per sé snaturare l'incidenza di quelli personali, quando la loro ubicazione geografica non coincide.

È questo, a parere di chi scrive, il passaggio interpretativo forse più ardito (d'altronde non vi sono dati testuali a cui ancorarlo) ma anche più concludente per arrivare a dirimere una questione così complicata: passaggio, tuttavia, non recepito dalla Corte, che in modo quasi tautologico parte dalla considerazione che possono esistere più residenze parimenti qualificate e finisce per affermare che tuttavia una sola di esse può essere considerata “abituale” demandando al giudice di merito il compito di decidere quale essa sia (ma non fornendogli criteri interpretativi per sceglierla).

In definitiva, se le conclusioni a cui giungono i giudici di Lussemburgo sono senz'altro condivisibili – potendo effettivamente minare la certezza del diritto e la prevedibilità del giudice competente un sistema in cui più residenze di un coniuge possono essere abituali – d'altra parte la pronuncia in commento lascia il giudice privo di linee-guida chiare su come orientarsi in quei casi, tutt'altro che rari, in cui l'estrema mobilità delle coppie moderne porta i coniugi a dividere il proprio tempo in modo significativo tra più Stati membri, complice la facilità con cui oggi ci si può spostare all'interno dell'Unione Europea.

A riprova di ciò è sufficiente fare riferimento ad un altro giudizio incardinato presso la Corte, ma non ancora fissato per la decisione (MPA, C-501/20), nell'ambito del quale essa sarà chiamata a pronunciarsi sulla residenza abituale del minore figlio di coniugi che – in ragione della loro professione, ovvero funzionari diplomatici dell'Unione Europea – sono stati distaccati in uno Stato terzo.

Anche in questo caso sarà interessante capire come la Corte si orienterà in un caso (peraltro piuttosto comune visto che tale condizione riguarda decine di migliaia di funzionari delle Istituzioni comunitarie, delle organizzazioni internazionali e dei vari corpi diplomatici) in cui la permanenza in un dato Paese (poco importa se europeo o terzo) è giustificata da ragioni esclusivamente professionali ed è – anche nelle intenzioni della coppia – limitata nel tempo, ma di fatto si estrinseca in una completa, stabile e prolungata immersione nell'ambiente sociale del luogo di lavoro.

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