La sorte delle fideiussioni conformi allo Schema ABI alla luce del recentissimo intervento delle Sezioni Unite
16 Febbraio 2022
La vicenda che ha condotto alla recentissima pronuncia delle Sezioni Unite qui esaminata (Cass., S.U., 30 dicembre 2021, n. 41994) trae origine dalla pubblicazione, da parte dell'Associazione Bancaria Italiana, di un modello uniforme di garanzia fideiussoria (il c.d. “Schema ABI”). Il modello, proposto nel 2003 e contenente una disciplina parzialmente derogatoria rispetto a quella codicistica, negli anni è stato riprodotto in numerose fideiussioni, molti dei quali tutt'oggi in circolazione. Poco dopo la pubblicazione dello Schema ABI, la Banca d'Italia ha avviato un'istruttoria finalizzata ad indagare sulle condizioni generali del contratto predisposte dall'Associazione, conclusasi con il parere dell'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM, Provvedimento n. 14251 del 20 aprile 2005) in cui veniva accertata la portata anticoncorrenziale dello Schema ABI e, in particolare, delle clausole contenute negli artt. 2, 6, 7 e 8 dello stesso. Ad avviso dell'AGCM, le clausole in questione si pongono in contrasto con la normativa antitrust essendo, da un lato, particolarmente gravose per il garante e, dall'altro lato, tali da distorcere il mercato in conseguenza della loro applicazione generalizzata. L'attenzione dell'AGCM si è soffermata, anzitutto, sulle clausole c.d. “di reviviscenza” e “di sopravvivenza”, di cui, rispettivamente, agli artt. 2 e 8 dello Schema ABI. La prima, introduce nel contratto la “reviviscenza” della fideiussione a fronte di vicende estintive o cause di invalidità del debito principale, laddove prevede che “il fideiussore si impegna altresì a rimborsare alla banca le somme che dalla banca stessa fossero state incassate in pagamento di obbligazioni garantite e che dovessero essere restituite a seguito di annullamento, inefficacia o revoca dei pagamenti stessi, o per qualsiasi altro motivo”. La clausola c.d. “di sopravvivenza” ex art. 8, invece, estende tale garanzia anche agli obblighi di restituzione del debitore derivanti dall'invalidità del rapporto principale, prevedendo che “qualora le obbligazioni garantite siano dichiarate invalide, la fideiussione garantisce comunque l'obbligo del debitore di restituire le somme allo stesso erogate”. Quanto poi alla clausola prevista all'art. 6, si tratta di una disposizione che contiene la rinuncia del fideiussore al termine di decadenza di cui all'art. 1957 c.c., in forza della quale “i diritti derivanti alla banca dalla fideiussione restano integri fino a totale estinzione di ogni suo credito verso il debitore, senza che essa sia tenuta ad escutere il debitore o il fideiussore medesimi o qualsiasi altro coobbligato o garante entro i tempi previsti, a seconda dei casi, dall'art. 1957 cod. civ.”. Quest'ultima disposizione, quindi, attribuisce un vantaggio significativo alla banca, la quale viene a disporre di un termine particolarmente lungo per far valere la garanzia, lasciando il debitore esposto alle possibili azioni sino alla prescrizione dei diritti vantati. Infine, l'art. 7 contiene una clausola che pone in capo al garante l'obbligo di pagare “a prima richiesta” - e, cioè, a fronte di una semplice istanza scritta della banca - “quanto dovutole per capitale, interessi, tasse ed ogni altro accessorio”; clausola che, di fatto, trasforma il contratto tipico di fideiussione in un contratto atipico di garanzia autonoma. Nel complesso, secondo il parere dell'AGCM, lo Schema ABI delinea una disciplina sensibilmente peggiorativa della posizione del garante rispetto a quella prevista nel codice civile, ciò anche (e nonostante) la derogabilità di quest'ultima, in quanto “lo schema predisposto dall'ABI non si limita ad avvalersi, puramente e semplicemente, di tali deroghe, ma, articolando in maniera dettagliata, come riconosciuto dalla stessa Banca d'Italia, il rapporto contrattuale, sceglie, fra le varie opzioni lasciate dal codice civile alle parti per esercitare la propria autonomia contrattuale, la soluzione più sfavorevole al fideiussore” (AGCM, Provvedimento n. 14251, cit., § 22). A causa di tale squilibrio tra gli interessi delle parti contraenti, lo schema dettato dall'ABI si traduce in un'intesa idonea “a restringere la concorrenza ai sensi dell'articolo 2, comma 2, della legge n. 287/90” poiché crea “un effetto di standardizzazione delle condizioni commerciali, aventi chiara incidenza economica, che le banche applicano alla clientela e stabilisce regole che, per il loro grado di dettaglio, sono suscettibili di impedire quell'efficace forma di concorrenza rappresentata dalla differenziazione dell'offerta” (ibidem, § 27). A seguito del parere dell'AGCM, la Banca d'Italia ha confermato il contrasto degli articoli nn. 2, 6 e 8 dello Schema ABI con l'art. 2, comma 2, l. 287/1990 “nella misura in cui vengano applicate in modo uniforme”, poiché la fissazione di clausole che incidono in modo significativo sul sinallagma contrattuale, aggravando la posizione del garante, impedisce un “equilibrato contemperamento di interessi delle parti” ed è idonea ad ostacolare la diversificazione del prodotto offerto (Banca d'Italia, Provvedimento n. 55 del 2 maggio 2005, 17-18). Secondo il provvedimento della Banca d'Italia, infatti, tali clausole “hanno lo scopo precipuo di addossare al fideiussore le conseguenze negative derivanti dall'inosservanza degli obblighi di diligenza della banca ovvero dall'invalidità o dall'inefficacia dell'obbligazione principale e degli atti estintivi della stessa” (ibidem, 17). Pertanto, sia l'AGCM che la Banca d'Italia hanno evidenziato il contrasto tra la normativa antitrust e lo Schema ABI, rilevando che quest'ultimo costituisce una di quelle determinazioni di associazioni d'imprese idonee a realizzare un'intesa anticoncorrenziale “a monte”, la cui nullità è prevista dall'art. 2, comma 3, l. 287/1990.
Il dibattito in dottrina e in giurisprudenza sulle fideiussioni conformi allo schema ABI
Le conseguenze derivanti dalla nullità “a monte” delle clausole anticoncorrenziali contenute nello Schema ABI sulle fideiussioni/garanzie che applicano “a valle” l'intesa illecita sono state oggetto di un vivace dibattito sia giurisprudenziale che dottrinale con soluzioni diametralmente opposte. Un primo filone giurisprudenziale supporta la tesi della nullità assoluta (o nullità di protezione) dell'intera fideiussione conforme allo Schema ABI. Secondo questo orientamento, la nullità dell'intesa “a monte” che persegue fini anticoncorrenziali si propagherebbe sui contratti “a valle” che ad essa danno esecuzione e di cui costituiscono lo sbocco terminale. In forza del predetto “collegamento funzionale”, quindi, se nulla è l'intesa “a monte”, nulle saranno anche le fideiussioni stipulate “a valle”, quali strumenti essenziali a realizzarne gli effetti. Questa corrente giurisprudenziale ha preso avvio con la sentenza della Suprema Corte a Sezioni Unite n. 2207 del 2005, relativa al caso di un cartello assicurativo sul calcolo dei premi, laddove si affermava che il consumatore ha diritto, quale soggetto che subisce gli effetti della collusione, di agire in giudizio mediante l'azione di nullità ex art. 33 l. 287/1990 (Cass. SS. UU., 4 febbraio 2005, n. 2207). Più di recente, in un caso relativo proprio alla nullità delle fideiussioni conformi allo Schema ABI, la Cassazione ha stabilito la nullità dell'intera fideiussione riproduttiva delle clausole incriminate per contrarietà a norme imperative e violazione dei diritti del consumatore, inaugurando un indirizzo poi confermato in diverse pronunce successive (Cass., 12 dicembre 2017, n. 29810. V., ex multis, le successive pronunce conformi: Cass., 22 maggio 2019, n. 13846; Trib. Salerno, 5 febbraio 2020, n. 480; Trib. Taranto, 8 agosto 2019, n. 2127; Trib. Siena, 14 maggio 2019, n. 21810; Trib. Padova, 4 febbraio 2020). Alle medesime conclusioni (ma con un iter affatto differente) perviene, pur condividendo la tesi secondo cui dalla nullità delle intese anticoncorrenziali discenderebbe in via “immediata” la sola nullità delle clausole conformi allo Schema ABI, chi ritiene che le clausole colpite da nullità siano inscindibili dal resto dell'accordo. In altre parole, ricostruendo la “volontà ipotetica” delle parti, si ritiene che i contraenti, senza le clausole nulle, non avrebbero concluso il contratto, con la conseguente nullità dell'intero negozio ai sensi del primo comma dell'art. 1419 c.c. (si vedano le recenti App. Milano, 22 gennaio 2020, n. 192; App. Bari, 15 gennaio 2020, n. 45; Trib. Imperia, 14 maggio 2020, n. 238). Secondo l'orientamento opposto, invece, la nullità della fideiussione conclusa “a valle” sarebbe soltanto parziale, cioè limitata alle sole clausole riproduttive dello Schema ABI. In quest'ottica, la presenza di un'intesa nulla “a monte” non sembra poter travolgere interamente anche i contratti che ad essa si conformano, poiché le clausole in questione non sono tali per cui si possa ritenere che, in loro mancanza, i contraenti non avrebbero concluso l'accordo. La fideiussione, una volta “depurata” da tali clausole, resterebbe quindi valida ed efficace, con la reviviscenza (che dovrà, però, essere valutata caso per caso) della normativa codicistica derogata in forza dell'adesione allo Schema ABI. Quest'ultima tesi, soprattutto in tempi recenti, è stata posta a fondamento di numerose pronunce, andando a prevalere nella giurisprudenza sia di legittimità che di merito (Cass., 26 settembre 2019, n. 24044; App. Brescia, 29 gennaio 2019, n. 161; Trib. Rovigo, 9 settembre 2018; Trib. Bergamo, 11 dicembre 2018, n. 2600; Trib. Roma, 3 maggio 2019, n. 9354; Trib. Mantova, 16 gennaio 2019; Trib. Ancona, 17 dicembre 2018, n. 1993). Infine, non mancano – per lo più nella giurisprudenza di merito – pronunce in cui le fideiussioni “a valle” sono state ritenute valide ed efficaci e ciò in applicazione del principio secondo cui, salvo ipotesi tassative (Trib. Treviso, 30 luglio 2018, n. 1632; Trib. Treviso, 6 ottobre 2016, n. 2429. Sul punto, v. A. Gentili, La nullità dei “contratti a valle” come pratica concordata anticoncorrenziale (Il caso delle fideiussioni ABI), in Giust. civ., 2019, n. 4, 687), la violazione di norme di comportamento non incide sulla validità dell'atto.
Molto diversificati sul tema risultano anche i contributi dottrinali, i quali ricalcano, almeno in parte, gli orientamenti della giurisprudenza. Una prima tesi sostiene la validità dei contratti conformi allo Schema ABI e considera, quale unico rimedio esperibile dal garante, quello risarcitorio. Tale opinione si fonda sul modello di tutela del dolo incidente ex art. 1440 c.c., cioè quella forma di dolo che, pur non essendo tale da determinare il consenso, incide sull'assetto di interessi di un contratto che sarebbe comunque stato concluso, anche se a condizioni diverse e meno svantaggiose per il contraente debole, esponendo la parte in mala fede esclusivamente all'azione per danni (in tal senso, E. Camilleri, Validità della fideiussione omnibus conforme a schema-tipo dell'ABI e invocabilità della sola tutela riparatoria in chiave correttiva, in Nuova giur. civ. comm., II, 2020, 399 ss.; alle medesime conclusioni perviene anche la recente pronuncia emessa dal Trib. Busto Arsizio, 26 maggio 2020, n. 513). Per contro, altri autori sostengono la nullità parziale della fideiussione in relazione alle sole clausole contenute nei contratti bancari “a valle” dell'intesa vietata. Tale orientamento fonda le proprie argomentazioni sulla regola della conservazione dei negozi giuridici, in assenza della prova che i contraenti non avrebbero avuto interesse ad addivenire al contratto in mancanza delle clausole nulle. I sostenitori della tesi della nullità assoluta si possono riscontrare varie interpretazioni. Mentre alcuni ipotizzano che si tratti di nullità derivata facendo leva sull'assunto di un collegamento negoziale (N. Salanitro, Disciplina antitrust e contratti bancari, in Banca, borsa tit. cred., 1996, I, 765 ss.; G. Tucci, Norme bancarie uniformi e condizioni generali di contratto, in Contr., 1996, 152 ss.; A. Bertolotti, Illegittimità delle norme bancarie uniformi per contrasto con le regole antitrust ed effetti sui contratti a valle: un'ipotesi di soluzione ad un problema dibattuto, in Giur. it., 1997, IV, 345 ss.), altri ritengono che ci si trovi dinnanzi ad una forma di nullità per illiceità della causa ex art. 1418 c.c., stante la contrarietà a norme imperative e/o ai principi di ordine pubblico economico posti a tutela della concorrenza (L. Delli Priscioli, La dichiarazione di nullità dell'intesa anticoncorrenziale da parte del giudice ordinario, in Giur comm., 1999, II, 226 ss.; S. La China, Commento all'art. 33, in G. Alpa - V. Afferrini (a cura di), Concorrenza e mercato, 1994, 647 ss.; N. Salanitro, Disciplina antitrust e contratti bancari, cit., 420). Infine, non manca chi ritiene che la nullità dell'oggetto del contratto “a valle” discenda dall'illiceità dell'oggetto dell'intesa “a monte”, la quale si trasmetterebbe lungo l'intera “catena negoziale” determinando la nullità della fideiussione in forza degli artt. 1418, comma 2 e 1346 c.c. (C. Castronovo, Antitrust e abuso di responsabilità civile, in Danno e resp., 2004, 469 ss.; A. Albanese, Contratto, mercato, responsabilità, 2008, p. 259 ss.; A. Montanari, Il danno antitrust, 2020, 245 ss., p. 254).
A quell'orientamento che considera le fideiussioni “a valle” nulle limitatamente alle sole clausole riproduttive di quelle incriminate è riconducibile la recente decisione della Corte d'Appello di Milano (sentenza 13 dicembre 2021, n. 3580), in cui la Corte meneghina ha ritenuto applicabile al caso in questione la fattispecie della nullità parziale. La controversia prendeva avvio a seguito di un'opposizione a decreto ingiuntivo proposta dai garanti, i quali si erano visti ingiungere dall'istituto di credito il pagamento delle somme corrispondenti al saldo del conto corrente intestato alla debitrice principale, garantito, appunto, dalla fideiussione oggetto di causa. In primo grado, il Tribunale aveva solo parzialmente accolto la domanda degli opponenti, che ricorrevano in appello per vedere dichiarata la nullità integrale del contratto di fideiussione in quanto riproduttivo delle clausole anticoncorrenziali contenute nello Schema ABI. Le osservazioni compiute dalla Corte in questa sentenza – che verranno qui richiamate limitatamente a quanto rileva per il tema in commento – appaiono interessanti, anche perché, come si vedrà, anticipano in buona sostanza quanto affermato nella sentenza delle Sezioni Unite n. 41994/2021, di poco successiva. La Corte, riprendendo il più recente orientamento della Cassazione sul punto (ex multis, Cass., 14 ottobre 2021, n. 28028; Cass., 19 febbraio 2020, n. 417), afferma, anzitutto, che la nullità della fideiussione per violazione della normativa antitrust sia rilevabile d'ufficio in ogni stato e grado del processo, censurando la pronuncia del Giudice di primo grado che aveva ritenuto tardiva la relativa eccezione di nullità. Passando a valutare nel merito la controversia, la Corte ha ribadito il principio che la portata dell'art. 2 della legge antitrust non è limitata alle “intese” quali contratti in senso tecnico, ma, in modo più ampio, si estende a tutto il rapporto complessivamente inteso e, quindi, riguarda anche quanto accade successivamente al negozio originario, laddove il rapporto costituisca un ostacolo alla concorrenza nel mercato. Significativamente, la Corte milanese ha affermato che “non pare ora più revocabile in dubbio che la nullità dell'intesa illecita si riverberi anche sui contratti conclusi a “valle”, quali manifestazioni attuative proprio di quell'intesa (illecita). D'altro canto, supporre una cesura tra il procedimento amministrativo “a monte” ed i contratti “a valle” - che dell'intesa anticoncorrenziale costituiscono attuazione - significherebbe negare operatività all'assetto della disciplina antitrust”. Dopo aver appurato l'effettiva corrispondenza della fideiussione oggetto di causa con quelle dello Schema ABI, la Corte ha stabilito che tali clausole fossero da ritenersi nulle, non aderendo al diverso orientamento che, alla violazione della normativa anticoncorrenziale, fa discendere il solo rimedio risarcitorio. Quanto alla dibattuta questione sugli effetti della declaratoria di nullità di tali clausole, come anticipato, la Corte ha escluso l'automatica nullità integrale del contratto, accogliendo la tesi della nullità parziale. Tale soluzione è fondata su plurime considerazioni. Anzitutto, il Giudice ha osservato che l'accertamento dell'AGCM relativo alla illiceità di alcune specifiche clausole non impedisce all'organo decidente di valutare in concreto la validità del contratto “a valle” alla luce degli artt. 1418 e ss. c.c. e, se del caso, di applicare l'art. 1419 c.c. Al fine di verificare se le clausole nulle debbano ritenersi essenziali - osserva la Corte - va operata un'indagine condotta con metodo oggettivo, volta a confrontare lo scopo pratico sotteso al programma originariamente pattuito con il diverso assetto di interessi risultante dal contratto depurato dalle clausole nulle, così da valutare se tra i due vi sia una ragionevole compatibilità, tenendo in considerazione la causa in concreto e il principio di buona fede. Ad avviso della Corte, nel giudizio sull'essenzialità non si potrà, poi, non tenere conto del fatto che lo stesso provvedimento della Banca d'Italia ha considerato nulle solo le clausole 2, 6 e 8 dello Schema ABI, confermando, per contro, la piena validità della restante parte del modello. Secondo la stessa Autorità Garante, infatti, le clausole incriminate non erano essenziali a consentire l'accesso al credito bancario, ma avevano l'obiettivo precipuo di addossare al fideiussore ulteriori oneri derivanti dall'inosservanza degli obblighi da parte degli istituti creditizi. A questa considerazione, la Corte d'Appello milanese fa seguire l'analisi della volontà ipotetica di ciascuna delle parti: rispetto alla posizione dei garanti, si deve ragionevolmente concludere che gli stessi avrebbero ugualmente perfezionato il contratto anche in assenza delle clausole in questione, posto che, dall'eliminazione di queste ultime, deriverebbero conseguenze economiche ben più favorevoli. Con riguardo alla posizione della banca, poi, la Corte evidenzia che quest'ultima, in assenza delle clausole nulle poste a garanzia del proprio credito – e, cioè a condizioni più vantaggiose per i fideiussori – non avrebbe, semmai, concesso il finanziamento, mentre non si può ritenere che l'istituto di credito avrebbe addirittura rinunciato alla garanzia. All'esito del ragionamento appena ripercorso, la Corte ha dichiarato la nullità delle singole clausole n. 2, 6 e 8 della fideiussione, con la conseguente reviviscenza della disciplina codicistica precedentemente derogata.
In questo variegato e complesso panorama si colloca la sentenza della Suprema Corte a Sezioni Unite del 30 dicembre 2021 n. 41994, che pone definitivamente fine alla vexata quaestio. Anche in questo caso, come nel precedente, la vicenda giudiziale prende avvio da un'opposizione a decreto ingiuntivo promossa dal garante. Dopo essere approdata in Cassazione, la controversia viene rimessa alle Sezioni Unite in considerazione del particolare valore nomofilattico della questione che ne costituisce oggetto, ritenuta “di massima importanza, anche in considerazione della frequente ricorrenza della fattispecie”. In particolare, le Sezioni Unite sono state incaricate di stabilire: “1) se la coincidenza totale o parziale con le condizioni dell'intesa a monte – dichiarata nulla dall'organo di vigilanza di settore – giustifichi la dichiarazione di nullità delle clausole accettate dal fideiussore, nel contratto a valle, o legittimi esclusivamente l'esercizio dell'azione di risarcimento del danno; 2) nel primo caso, quale sia il regime applicabile all'azione di nullità, sotto il profilo della tipologia di vizio e della legittimazione a farlo valere; 3) se sia ammissibile una dichiarazione di nullità parziale della fideiussione; 4) se l'indagine a tal fine richiesta debba avere ad oggetto, oltre alla predetta coincidenza, la potenziale volontà delle parti di prestare ugualmente il proprio consenso al rilascio della garanzia, ovvero l'esclusione di un mutamento dell'assetto di interessi derivante dal contratto”. Dopo aver inquadrato la cornice normativa (art. 41 Cost. e art. 2 l. 287/1990, da un lato, e art. 101 del Trattato sul Funzionamento dell'Unione Europea, dall'altro), la Corte passa in rassegna i principali orientamenti giurisprudenziali e dottrinali che si sono susseguiti dai primi anni Duemila ad oggi. All'esito di tale disamina, la Corte, pur nella consapevolezza dell'estrema problematicità della scelta tra le diverse forme di tutela riconoscibili al cliente-fideiussore, si pronuncia in favore della tesi che ravvisa nella fattispecie in esame un'ipotesi di nullità parziale, in considerazione dei risultati a cui essa perviene, ritenuti più in linea con le finalità e gli obiettivi della normativa antitrus: di seguito il principio di diritto affermato dalle Sezioni Unite “i contratti di fideiussione a valle di intese dichiarate parzialmente nulle dall'Autorità Garante, in relazione alle sole clausole contrastanti con gli artt. 2, comma 2, lett. a) della legge n. 287 del 1990 e 101 del Trattato sul funzionamento dell'Unione Europea, sono parzialmente nulli, ai sensi degli artt. 2, comma 3 della legge succitata e dell'art. 1419 cod. civ., in relazione alle sole clausole che riproducano quelle dello schema unilaterale costituente l'intesa vietata, salvo che sia desumibile dal contratto, o sia altrimenti comprovata, una diversa volontà delle parti”. In effetti, ormai da tempo la Suprema Corte aveva mostrato di dare per assodata la nullità del contratto di fideiussione “a valle”, in considerazione del dato testuale dell'art. 2, comma 3, l. 287/1990, che stabilisce in modo inequivoco la nullità “ad ogni effetto” delle intese vietate. La ratio stessa della normativa antitrust, del resto, aveva impedito ai Giudici di dar seguito a quell'impostazione – sostenuta, invece, dal Procuratore Generale – che, considerando i contratti tra un istituto di credito e i propri clienti come atti di esercizio dell'autonomia privata ex art. 1322 c.c., ritiene che i contraenti siano liberi di determinare il contenuto del loro accordo, anche riproducendo clausole estratte da un programma anticoncorrenziale. Ad avviso della Corte, tale impostazione non è accoglibile tenuto conto che, come noto, l'autonomia dei contraenti è insindacabile solamente laddove questa rimanga nel perimetro della legge, intesa come ordinamento giuridico nel complesso, tenendo conto delle norme di rango sovranazionale e costituzionale, quali, appunto, l'art. 41 Cost., che vieta l'iniziativa economica privata laddove questa sia in contrasto con l'utilità sociale, e la citata norma antitrust, il cui scopo è quello di realizzare un bilanciamento tra la libertà di concorrenza e la tutela dei soggetti diversi dagli imprenditori. Del pari, non è stata ritenuta convincente la tesi secondo cui al consumatore spetterebbe la sola tutela risarcitoria, poiché tale impostazione si pone in netta contrapposizione con le precipue finalità della normativa antitrust. Quest'ultima, infatti, è volta a proteggere l'intero mercato in senso oggettivo e non solo lo specifico interesse individuale del contraente pregiudicato dall'intesa, come invece avverrebbe nel caso del solo rimedio risarcitorio, limitato, oltretutto, alla sola ipotesi in cui il contraente abbia subito un danno concreto. In altri termini, la tutela risarcitoria è priva di quel carattere significativamente dissuasivo per le imprese che hanno aderito all'intesa “a monte” o che, come più spesso avviene, ne hanno recepito le clausole illecite. Ben più adeguato alla tutela della trasparenza e della concorrenza dell'intero mercato si rivela, allora, il meccanismo della nullità del contratto, fatta salva la possibilità per il singolo contraente danneggiato di far valere in giudizio sia l'azione di nullità e risarcimento del danno ex art. 33 l. 287/1990, che l'azione di ripetizione ai sensi dell'art. 2033 c.c. Ferma allora la nullità del contratto “a valle”, permaneva il dubbio se essa dovesse essere totale o parziale. Infatti, secondo la giurisprudenza della Corte di Giustizia dell'Unione Europea, la portata e le conseguenze delle intese che violano l'art. 101 TFUE, non discendendo automaticamente dal diritto dell'Unione, devono essere individuate dai giudici nazionali sulla base della normativa dei singoli Stati membri, restando solamente ineliminabile il diritto “minimo” al risarcimento del danno (Corte Giust. UE, 14 dicembre 1983, C-319/82, Societè de Vente de Cimentes; Trib. UE, 21 gennaio 1999, T-190/96, Christophe e Gérard Palma. Al riguardo, la Corte di Giustizia ha affermato altresì che spetta agli Stati Membri determinare quali siano i giudici competenti e le modalità procedurali da seguire per garantire i diritti dei singoli in forza dell'effetto diretto del diritto dell'Unione. L'autonomia degli Stati Membri trova, però, il duplice limite posto dai principi di equivalenza (in forza del quale le predette modalità non potranno comunque essere più onerose di quelle previste per ricorsi analoghi fondati su norme di diritto interno) e di effettività (che vieta di imporre modalità di ricorso eccessivamente complesse, tali da rendere praticamente impossibile l'esercizio dei diritti), cfr., tra molte, Corte Giust. UE, 14 giugno 2011, C-360/09, Pfeiderer v. Bundemskartellant; Corte Giust. UE, 6 giugno 2013, C-536/11, Donau Chemie). Proprio in forza di tale autonomia, la Suprema Corte ritiene che la nullità parziale sia la più adeguata allo scopo, nonché quella che permetta di garantire al meglio il contemperamento tra i diversi interessi coinvolti, ovverosia quello degli istituti di credito al mantenimento in vita della garanzia e quello dei garanti a non subire gli effetti svantaggiosi di un'intesa “a monte” dichiarata nulla. Il ragionamento della Corte prosegue, dunque, con un'analisi del dato testuale e dei principali orientamenti giurisprudenziali in tema di nullità parziale ex art. 1419 c.c., così da verificare se, dalla predetta nullità parziale del contratto riproduttivo delle clausole nulle contenute nello Schema ABI, discenda - come sostiene parte della giurisprudenza e della dottrina – la nullità totale dell'intero contratto. Come noto, l'ordinamento propende per la conservazione del contratto ogniqualvolta le clausole nulle non presentino il carattere dell'“essenzialità” rispetto al negozio complessivamente considerato. La Corte allora osserva che l'estensione all'intero contratto della nullità che colpisce solo una parte di esso è, dunque, un'eccezione alla regola generale. Di conseguenza, graverà su colui che ha interesse a far caducare l'intero contratto l'onere di dimostrare l'interdipendenza tra le clausole nulle e quelle restanti, non potendo il giudice rilevare d'ufficio l'effetto estensivo della nullità parziale all'intero accordo. Tale accertamento richiede la valutazione della presumibile volontà delle parti in relazione all'eventualità del mancato inserimento delle clausole nulle e impone di provare che i contraenti non avrebbero concluso il contratto senza la parte affetta da nullità (Cass., 21 maggio 20107, n. 11673; Cass., 10 novembre 2014, n. 23950; Cass. 5 febbraio 2016, n. 2314). Ebbene, considerando il caso delle fideiussioni riproduttive dello Schema ABI, tale onere probatorio risulta, ad avviso della Suprema Corte, difficile da assolvere. Infatti, dal punto di vista del fideiussore, si deve ritenere che questi avrebbe senz'altro acconsentito alla prestazione della garanzia anche in assenza delle clausole nulle, trattandosi di una persona “legata al debitore principale e, quindi, portatrice di un interesse economico al finanziamento bancario”. Allo stesso modo, la Corte ritiene che anche l'istituto bancario avrebbe mantenuto in vita la garanzia privata delle clausole in questione, “attesa che l'alternativa sarebbe quella dell'assenza completa della fideiussione, con minore garanzia dei propri crediti”. Pertanto, vista la non “essenzialità” delle clausole n. 2, 6 e 8 dello Schema ABI rispetto alla restante parte del contratto, la Cassazione ha concluso per l'inoperatività dell'art. 1419, comma 1, c.c. La Suprema Corte, inoltre, ha precisato che si tratta “di una «nullità speciale», posta – attraverso le previsioni di cui agli artt. 101 del Trattato sul funzionamento dell'Unione Europea e 2, lett. a) della legge n. 287 del 1990 – a presidio di un interesse pubblico e, in specie, dell'«ordine pubblico economico»; dunque «nullità ulteriore a quelle che il sistema già conosceva» (Cass., n. 827/1999)”. Tale nullità si distingue, dunque, tanto dalla nullità codicistica ex art. 1418 cod. civ., quanto dalle altre forme di nullità conosciute al nostro ordinamento, quale la nullità c.d. “di protezione” tipica dei contratti del consumatore, nonché quella del c.d. “terzo contratto”, poiché colpisce anche “atti o combinazioni di atti avvinti da un «nesso funzionale», non tutti riconducibili alle suindicate fattispecie di natura contrattuale”. La Corte di legittimità, infine, dopo aver ricordato che la produzione in giudizio del provvedimento dell'autorità garante costituisce prova privilegiata della condotta anticoncorrenziale, ha evidenziato anche: (i) che tale nullità è rilevabile ex officio da parte del giudice, pur nei limiti posti dal principio della domanda; (ii) che l'azione è imprescrittibile; e (iii) che, al ricorrere dei presupposti, sono esperibili anche le azioni di ripetizione dell'indebito ex art. 2033 c.c. e di risarcimento del danno. Quanto ai profili sostanziali, con la pronuncia delle Sezioni Unite qui commentata, si deve ritenere finalmente risolto il vivace contrasto relativo alla questione della validità delle fideiussioni che riproducono le clausole 2, 6 e 8 dello Schema ABI, le quali erano già state giudicate contrarie alle norme in materia di concorrenza. La scelta della nullità parziale appare, in effetti, la più equilibrata, sia perché, nell'ottica della normativa antitrust, è quella che permette di eliminare gli effetti concreti delle distorsioni alla concorrenza che vengano a realizzarsi nel mercato, sia perché valorizza il principio di conservazione del negozio giuridico sintetizzato nel brocardo utile per inutile non vitiatur. L'apparente serenità creata dall'intervento degli Ermellini, però, non è durata molto. Già all'indomani della sentenza in commento, non sono mancate le prime pronunce di merito che, recependo l'indirizzo adottato dalla Suprema Corte, hanno riconosciuto, in casi simili, la configurazione di una nullità parziale, ammettendo la c.d. tutela reale accanto a quella meramente risarcitoria per equivalente. Tra queste, la recentissima sentenza del 19 gennaio 2022, con cui il Tribunale di Milano ha ribadito l'assoluta eccezionalità dell'estensione di tale forma di invalidità all'intero contratto. Per ottenere la nullità dell'intero negozio, colui che vi ha interesse dovrà fornire la prova del fatto che, senza le clausole nulle, le parti non avrebbero sottoscritto il contratto. La decisione milanese, però, crea un tema processuale non trattato expressis verbis dalle sezioni unite: ci riferiamo, in particolare, alla portata probatoria del provvedimento n. 55/2005 della Banca d'Italia. Ad avviso del Giudice meneghino, infatti, detto provvedimento vale sì come prova privilegiata, ma soltanto con riferimento alle fideiussioni stipulate nel periodo oggetto d'indagine istruttoria da parte dell'autorità di vigilanza e, cioè, quello ricompreso tra il 2002 ed il maggio 2005. In caso di fideiussione prestata prima o dopo tale arco temporale, come in quello sul quale il Tribunale milanese è stato chiamato a decidere, la parte che invoca la nullità della pattuizione sarà, pertanto, “onerata dell'allegazione e della dimostrazione di tutti gli elementi costitutivi della fattispecie d'illecito concorrenziale dedotto in giudizio”. In altri termini, ad avviso del Giudice, la mera allegazione del provvedimento non varrà ex se come prova di un'intesa anteriore alla garanzia prestata e rilevante ai sensi dell'art. 2 l. 287/1990, ma l'esistenza di tale intesa dovrà essere dimostrata dalla parte interessata ad ottenere la pronuncia di nullità delle clausole contrattuali illecite. A giustificare il rigetto della domanda attorea nel caso di specie è stato proprio il mancato assolvimento di tale onere probatorio, posto che, come osservato dal Tribunale, l'attore non ha articolato mezzi di prova volti a dimostrare “che nel 2010 un numero significativo di istituti di credito, all'interno del medesimo mercato, avrebbe coordinato la propria azione al fine di sottoporre alla clientela dei modelli uniformi di fideiussione per operazioni specifiche in modo da privare quella stessa clientela del diritto ad una scelta effettiva e non solo apparente tra prodotto alternativi effettivi e in reciproca concorrenza”. Si tratta, com'è evidente, di una statuizione di non poco conto, considerata la complessità che tale ricostruzione probatoria sembra prospettare e siamo certi che, anche su questo aspetto, si contrapporranno schieramenti opposti e fiumi di inchiostro ancora saranno spesi. La definitiva soluzione di ogni diatriba circa la sorte delle fideiussioni conformi allo schema ABI è ancora lontana. |