Le Sezioni Unite sulle fideiussioni: una “vittoria mutilata”

Biagio Riccio
21 Febbraio 2022

L'Autore analizza la recente sentenza a Sezioni Unite (n. 41994/2021) con cui la Cassazione è intervenuta in tema di fideiussione, analizzando le precedenti pronunce e le problematiche attuali.
Introduzione

Se potessimo, con una sola e significativa asserzione, definire l'esito speranzoso ed agognato della sentenza a Sezioni Unite in tema di fideiussione (Cass. civ., Sez. Unite, 30 dicembre 2021, n. 41994), dovremmo richiamare, senza ombra di dubbio, l'affermazione lapidaria che diede Gabriele D'Annunzio del risultato “non trionfale” della prima guerra mondiale: “una vittoria mutilata”.

Ed è così: la Cassazione ha manifestato paura, incertezza; se avesse deciso con fermezza irrefragabile, avrebbe rotto e compromesso probabilmente un equilibrio delicato, suscitato un vespaio, disarticolato un quadro faticosamente raggiunto dalla giurisprudenza di merito e di legittimità: la nullità delle fideiussioni omnibus è solo parziale, ma non può essere totale.

Questo principio è stato reso dal Consesso più autorevole di legittimità in tema di fideiussioni omnibus.

Nella sentenza, pregevole in molti spunti, soprattutto quando richiama i precedenti, si affronta la complessa tematica della nullità a monte da riverberarsi anche a valle.

La Corte si pone l'intricata problematica di come possa essere possibile che un accordo tra banche (quello dell'associazione tra le medesime - ABI) possa avere efficacia nei confronti di un terzo, il fideiussore che non vi ha partecipato.

Infatti, come è noto, l'intesa tra le varie banche, suggellata in un accordo dell'anno 2005, è stata reputata da Banca di Italia come lesiva delle norme sulla concorrenza, così come disciplinate dall'art. 2 della legge n. 287/1990.

I rilievi critici dell'Autorità Garante riguardarono, in particolare, le clausole numero 2, 6 e 8 del citato schema contrattuale e precisamente:

a) la cd. "clausola di reviviscenza", secondo la quale il fideiussore è tenuto "a rimborsare alla banca le somme che dalla banca stessa fossero state incassate in pagamento di obbligazioni garantite e che dovessero essere restituite a seguito di annullamento, inefficacia o revoca dei pagamenti stessi, o per qualsiasi altro motivo" (art. 2);

b) la cd. "clausola di rinuncia ai termini ex art. 1957 c.c.", in forza della quale "i diritti derivanti alla banca dalla fideiussione restano integri fino a totale estinzione di ogni suo credito verso il debitore, senza che essa sia tenuta ad escutere il debitore o il fideiussore medesimi o qualsiasi altro coobbligato o garante entro i tempi previsti, a seconda dei casi, dall'art. 1957 c.c., che si intende derogato" (art. 6);

c) la cd. "clausola di sopravvivenza", a termini della quale "qualora le obbligazioni garantite siano dichiarate invalide, la fideiussione assicura comunque l'obbligo del debitore di restituire le somme allo stesso erogate".

Banca d'Italia dunque ha reso il menzionato provvedimento n. 55 del 2 maggio 2005 che, come è stato ritenuto, haforza privilegiata.

Lo schema ABI del 2005 cozza contro il disposto chiaro ed adamantino dell'art. 2 della legge n. 287/1990 in tema di concorrenza (che così recita: “Sono considerati intese gli accordi e/o le pratiche concordati tra imprese nonché le deliberazioni, anche se adottate ai sensi di disposizioni statutarie o regolamentari, di consorzi, associazioni di imprese ed altri organismi similari.

2. Sono vietate le intese tra imprese che abbiano per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare in maniera consistente il gioco della concorrenza all'interno del mercato nazionale o in una sua parte rilevante, anche attraverso attività consistenti nel: a) fissare direttamente o indirettamente i prezzi d'acquisto o di vendita ovvero altre condizioni contrattuali; (...).

3. Le intese vietate sono nulle ad ogni effetto").

Il precedente di Banca d'Italia del 1994. “La fideiussione corazzata”

Ma in realtà già prima dell'anno 2005 Banca d'Italia si era fatta sentire ed aveva contestato fortemente il ceto bancario in tema di fideiussioni.

Il dibattito sulla nullità del contratto fideiussorio risale, infatti, alla fine degli anni '80, quando la Banca d'Italia rimproverava l'Associazione Bancaria Italiana – e, dunque, anche gli intermediari che vi aderivano - del fatto che le clausole, in forza delle quali si strutturavano e confezionavano i contratti fideiussori, fossero nulle.

In realtà l'ABI, sin dagli anni Sessanta (gli anni della ripresa economica italiana), predisponeva un modello tipo di contratto per adesione, contenente una serie di condizioni generali, che derogavano a quasi tutta la disciplina civile della figura (che era una species del genus della fideiussione tipica codificata), senza però rinunciare al nomen iuris ed alla garanzia che esso forniva per la considerazione dell'elemento causale, che era restrittivamente ed unilateralmente inteso in favore della Banca e del suo credito.

Nel 1994, la Banca d'Italia (provvedimento n. 12 del 13 dicembre 1994) al termine di una lunga e complessa istruttoria, compiuta ai sensi della legge 10 ottobre 1990, n. 287 (quella che tutela il bene della concorrenza), sentito il parere dell'Autorità Garante della concorrenza e del mercato, riteneva nulle le Norme Bancarie Uniformi, quanto alla loro pretesa natura di usi normativi vincolanti per gli associati.

In particolare erano ritenute contrarie alla concorrenza leale e lecita le N.B.U., che modificavano, in senso più sfavorevole al cliente, la disciplina stabilita dal codice civile.

Il provvedimento amministrativo (reso definitivo della mancata impugnazione da parte dell'ABI dinanzi al T.A.R. del Lazio) annullava il valore vincolante degli usi normativi ABI, ovviamente sulla base dei relativi poteri conferiti dalla legge 10 ottobre 1990, n. 287.

Le fideiussioni predisposte dall'ABI - e per le quali si registrava la supina adesione delle banche - furono definite fideiussioni corazzate, perché privilegiavano gli interessi degli istituti di credito e conculcavano quelli della parte più debole del contratto, i correntisti ed i mutuatari.

Già, dunque, nel lontano 1994 la Banca d'Italia dichiarava nulla una serie di clausole contenute nelle Norme Uniformi Bancarie.

Secondo il provvedimento di Banca Italia n. 12 del 3 dicembre del 1994 le norme bancarie uniformi, per quanto stabilito al punto 37, devono reputarsi illecite.

“In particolare, come era scritto nel provvedimento di Banca di Italia- dalle NBU [...] dovranno essere altresì eliminate le condizioni contrattuali che:

-riservano alla banca la facoltà meramente potestativa di modificare le norme che disciplinano il rapporto;

- dispongono che le risultanze dei libri e/o delle altre scritture contabili della banca fanno prova nei confronti del cliente;

- escludono la responsabilità della banca per ogni conseguenza derivante da eventi ad essa non imputabili;

- escludono l'obbligo della banca di dare al terzo garante comunicazioni in ordine alla situazione dei conti e in genere ai suoi rapporti con il beneficiario del credito garantito;

- determinano in un certo numero di giorni termini di adempimento, di esercizio di poteri o facoltà di efficacia e di opponibilità;

- indicano un termine discrezionale per un adempimento a carico della banca o per l'effetto di comunicazioni alla stessa;

- modificano in senso sfavorevole al cliente la disciplina stabilita dal codice civile agli articoli 1949 e 1950 c.c. relativamente alla restrizione dell'azione di regresso ed all'art. 1945 c.c. relativamente all'opponibilità delle eccezioni da parte del fideiussore”.

Nelle conclusioni del detto provvedimento del 1994 è scritto: “è altresì necessario che l'ABI provveda alle modifiche di cui all'art. 37 del presente provvedimento [...]”.

Sulla base di tali premesse la Banca di Italia disponeva, dunque, la “chiusura facendo obbligo all'ABI di adottare le modifiche ai sensi dell'art. 15 della legge 287/1990 e quelle ulteriori di cui al punto 37 del presente provvedimento”.

In dottrina, si è osservato: “definisco questa figura come fideiussione corazzata, perché assicura alla parte forte la banca la corazza dell'invulnerabilità verso il fideiussore al quale spetta solo un compito, quello di adempiere e prontamente a tutte le richieste di pagamento che la banca vorrà rivolgergli senza poter opporre eccezioni, esercitare diritti, esigere il rispetto di obblighi di correttezza e buonafede. La banca impone il suo modulo scritto e corazzato, come se nulla fosse accaduto sul piano dello ius superveniens, come se le norme imperative fossero derogabili, come se le norme a tutela della parte debole non fossero applicabili alla fattispecie” (Petti, La fideiussione e le garanzie personali del credito, Padova, 2006 II ed, 375 ss.).

La sentenza a Sezioni Unite ha trascurato questo rilevante excursus storico, giacché proprio nelle norme bancarie uniformi dell'anno 1994 c'è la radice della nullità dispiegata tuttavia sull'intero modello predisposto dall'ABI.

La nullità derivata. La teoria del collegamento funzionale. L'intesa anticoncorrenziale estensibile anche al fideiussore terzo

Tuttavia, la Corte, con la sentenza in esame, ha ben argomentato come la nullità a monte possa riflettersi a valle. Si è accentuata la tesi secondo cui la nullità dei contratti a valle sarebbe derivata.

In tal senso si rileva che il collegamento funzionale in parola, si tradurrebbe in un vero e proprio "collegamento negoziale" tra l'intesa a monte e la fideiussione a valle, che comporterebbe l'esigenza di una considerazione unitaria della fattispecie e l'applicazione del principio simul stabunt simul cadent. I due accordi sarebbero, in altri termini, parte di una pratica "complessivamente illecita", sicché la nullità prevista per l'intesa, si trasmetterebbe, tout court, anche ai contratti che a questa danno attuazione.

Sulla scorta dell'insegnamento della Cassazione a sezioni unite (Cass., n. 2207/2005) con la sentenza in esame si è così statuito: “i contratti a valle di accordi contrari alla normativa antitrust - in quanto costituenti "lo sbocco dell'intesa vietata, essenziale a realizzarne e ad attuarne gli effetti" (Cass. Sez. Un., n. 2207/2005) - partecipano della stessa natura anticoncorrenziale dell'atto a monte, e vengono ad essere inficiati dalla medesima forma di invalidità che colpisce i primi”.

In altri termini, detta violazione è riscontrabile in ogni caso in cui tra atto a monte e contratto a valle sussista un nesso, che faccia apparire la connessione tra i due atti "funzionale" a produrre un effetto anticoncorrenziale.

La funzionalità in parola si riscontra con evidenza, quando il contratto a valle (nella specie una fideiussione) è interamente o parzialmente riproduttivo dell'"intesa" a monte, dichiarata nulla dall'autorità amministrativa di vigilanza, ossia quando l'atto negoziale sia, di per sé stesso, un mezzo per violare la normativa antitrust, ovvero quando riproduca - come nel caso concreto - solo una parte del contenuto dell'atto anticoncorrenziale che lo precede.

Dunque, stiamo al cospetto di un "nesso funzionale" tra l'"intesa" a monte ed il contratto a valle, emergente dal contenuto di tale ultimo atto che - in violazione dell'art. 1322 c.c. - riproduce quello del primo, dichiarato nullo dall'autorità di vigilanza.

Si determina il meccanismo distorsivo della concorrenza vietato dall'ordinamento.

In virtù di tal ragionamento si supera l'obiezione per la quale, anche se il fideiussore non ha partecipato all'intesa, tal accordo è a lui estensibile.

Superamento della tutela risarcitoria e adesione alla tutela reale

La Cassazione abbatte pure la tesi della tutela risarcitoria in alternativa alla nullità (tesi della Procura Generale), a cui può darsi credito solo quando agisce il consumatore. Invece bisogna insistere in un meccanismo di tutela reale che si configura con la nullità parziale. La tutela risarcitoria può tuttavia accompagnarsi a quest'ultima, ma con l'onere probatorio in capo a chi agisce, il consumatore. Pertanto, in sede di giudizio si potrà chiedere la nullità parziale con la tutela risarcitoria, ma con l'effetto necessario di dimostrare il danno.

In ultima analisi, sostiene la Corte, la Legge Antitrust n. 287 del 1990, detta norme - segnatamente l'art. 2 - a tutela della libertà di concorrenza aventi come destinatari non soltanto gli imprenditori, ma anche gli altri soggetti del mercato, ovvero chiunque abbia un interesse, processualmente rilevante, alla conservazione del suo carattere competitivo, al punto da poter allegare uno specifico pregiudizio conseguente alla rottura o alla diminuzione di tale carattere per effetto di un'intesa vietata.

Al riguardo va tenuto conto, da un lato, che, di fronte ad un'intesa restrittiva della libertà di concorrenza, il consumatore, acquirente finale del prodotto offerto dal mercato, vede eluso il proprio diritto ad una scelta effettiva tra prodotti in concorrenza, e, dall'altro, che il cosiddetto contratto "a valle" costituisce lo sbocco dell'intesa vietata, essenziale a realizzarne e ad attuarne gli effetti.

Ne discende che il consumatore finale, che subisce danno da una contrattazione che non ammette alternative per l'effetto di una collusione "a monte", ha a propria disposizione, ancorché non sia partecipe di un rapporto di concorrenza con gli imprenditori autori della collusione, l'azione di accertamento della nullità dell'intesa e di risarcimento del danno di cui all'art. 33 della L. n. 287 del 1990.

Nullità solo parziale ex art. 1419 c.c. La prova rigorosa a carico di chi ritiene che senza le clausole nulle il contratto non si sarebbe concluso: “utile per inutile non vitiatur"

Ma la Cassazione rifiuta di ritenere che la nullità possa essere totale sulla base della necessità di conservare il negozio giuridico, ma soprattutto perché chi ritiene che l'intero negozio sia nullo deve conferire la prova rigorosa che senza quelle clausole comunque avrebbe sottoscritto il contratto, alla luce dell'art. 1419 c.c.

La nullità parziale di un contratto o la nullità di singole clausole importa la nullità dell'intero contratto, se risulta che i contraenti non lo avrebbero concluso senza quella parte del suo contenuto che è colpita dalla nullità.

Per il principio "utile per inutile non vitiatur" la nullità di singole clausole contrattuali, o di parti di esse, si estende, pertanto, all'intero contratto, solo ove l'interessato dimostri che la porzione colpita da invalidità non ha un'esistenza autonoma, né persegue un risultato distinto, ma è in correlazione inscindibile con il resto, nel senso che i contraenti non avrebbero concluso il contratto senza quella parte del suo contenuto colpita da nullità (Cass., 05/02/2016, n. 2314).

Se dunque permane l'utilità del contratto nonostante quelle clausole nulle, il principio di conservazione opta per il mantenimento della stipulazione. E ciò vale sia per la Banca che intende elargire il finanziamento ed ottenere l'utile dell'operazione, sia per il consumatore che senza quel finanziamento non riuscirà a realizzare la sua intrapresa economica.

In un passaggio della sentenza è scritto: “il provvedimento n. 55/2005 ci ricorda che il fideiussore è normalmente cointeressato, in qualità di socio d'affari o di parente del debitore, alla concessione del finanziamento a favore di quest'ultimo e, quindi, ha un interesse concreto e diretto alla prestazione della garanzia.

Al contempo, è del tutto evidente che anche l'imprenditore bancario ha interesse al mantenimento della garanzia, anche espunte le suddette clausole a lui favorevoli, attesa che l'alternativa sarebbe quella dell'assenza completa della fideiussione, con minore garanzia dei propri crediti”.

La nullità totale dello schema ABI. La necessità della reviviscenza della fideiussione disciplinata dal Codice Civile, per un'interpretazione costituzionalmente più aderente all'equo apprezzamento degli interessi in contesa. La figura della nullità virtuale. L'abuso di posizione dominante

Ecco il vulnus della sentenza: non interessa effettivamente se lo schema ABI “sia nullo ad ogni effetto” (come statuisce la norma anticoncorrenziale) e se per collegamento funzionale lo siano anche i contratti di fideiussione a valle, ma va valutato il fine, le ragioni, gli interessi sottesi, le aspirazioni, non il contenuto del contratto, dell'atto in sé.

L'interprete nell'ermeneusi si deve preoccupare degli interessi delle parti ed in ragione di essi e solo dei fini, della teleologia del contratto valutarne la nullità, a prescinderne dal contenuto. Questo è accaduto con la sentenza in esame.

In ragione di questa impostazione la Cassazione ha optato per la nullità parziale e non ha avuto il coraggio di statuire che la nullità fosse totale.

Sarebbero stati sconvolti anni di attività bancaria e si sarebbe determinato un contenzioso seriale da scongiurare: le banche non possono fallire. Questa è la motivazione malcelata.

L'impostazione è politica, non giuridica. Non fu così nel 2004 quando la Cassazione a sezioni unite ebbe il coraggio di andare sino in fondo in tema di anatocismo con la famosa sentenza n. 21095/2004.

In un passaggio della sentenza si accenna anche alla nullità virtuale: “nell'ambito della tesi della nullità assoluta - ritengono che la nullità in questione sarebbe non testuale, ma virtuale, derivando dalla violazione diretta delle norme imperative anticoncorrenziali. Si afferma, al riguardo, che le previsioni degli artt. 1941, 1939 e 1957 c.c., sarebbero singolarmente derogabili, nondimeno la loro deroga cumulativa - in quanto si tradurrebbe in un effetto distorsivo della competizione di mercato - verrebbe a collidere con la norma imperativa di cui all'art. 2, comma 2, lett. a), dando luogo all'integrale nullità del contratto”.

Nei contratti bancari vale la logica dell'abuso della posizione dominante che sconvolge la parità contrattuale: si impone la draconiana scelta del “prendere o lasciare”; il contratto è confezionato dalla banca e l'imprenditore, se non firma ed accetta supinamente il suo contenuto, perderà il finanziamento.

E' stato sostenuto pregevolmente che “l'intesa di per sé non arriva a cogliere l'effetto anticoncorrenziale. Per riuscirvi deve imporsi attraverso atti attuativi che non lascino ai terzi alternative. Ma questo presuppone una posizione dominante o comunque di potere economico del cartello. Dunque, la mera intesa non basta ad integrare la restrizione alla concorrenza, ci vuole anche l'esercizio – abusivo – del potere di mercato acquisito con la collusione. La norma sull'abuso di posizione dominante si pone infatti come paradigma delle fenomenologie di sfruttamento, attraverso contratti a valle di tutte le posizioni di potere distorsivo. Che si tratti della posizione dominante individuale di un'impresa, o di quella organica di una concentrazione, o di quella collettiva di un'intesa, la sostanza non cambia: è l'abuso del potere di mercato che caratterizza negativamente i c.d. contratti a valle fino a renderli antigiuridici. E si noti: non c'è bisogno di almanaccare una derivazione dell'antigiuridicità, perché l'abuso di posizione dominante è concetto che ne ingloba l'esercizio, e i contratti a valle sono appunto modo di esercizio. Sono dunque vietati direttamente, come elemento della fattispecie dell'abuso” (Gentili, La nullità dei “contratti a valle” come pratica concordata anticoncorrenziale: il caso delle fideiussioni ABI, in Giust. Civ., n. 4, 2019; si leggano anche le argomentazioni di R. Massarelli, Il vaglio di essenzialità delle clausole ABI, contenute nei modelli di fideiussione omnibus, censurati dalla Banca d'Italia, in Contratti, 2021, 3, 286).

Dunque, si potrebbe affermare che intanto vi è parità contrattuale, se si ha il coraggio di ripristinare il contenuto delle norme del Codice Civile in tema di fideiussioni che tutelano entrambi i contraenti, senza far ricorso al modello ABI che nella sua interezza - come ha fermamente ritenuto Banca di Italia già bocciando l'intesa del 1994 - è nullo. Il sinallagma contrattuale è salvo ed è orientato costituzionalmente, riprendendo le norme del codice civile e confinando alle ortiche la fideiussione omnibus.

Ripristinare il contratto fideiussorio come statuito dal legislatore del 1942, questa era la soluzione auspicabile, ma le sezioni unite si sono fermate, non hanno voluto incidere più di tanto.

La giurisprudenza di merito è invece andata oltre “le colonne di Ercole” ed ha reso un'interpretazione costituzionalmente garantita.

Così ha statuito la Corte di Appello di Bari: “ritiene questa Corte che il contratto che contenga in sé le tre clausole del modello ABI risulti integralmente nullo per causa illecita, ex artt. 1418 e 1419 c.c., in quanto stipulato in conformità con un modello frutto di intese illecite anticoncorrenziali concluse a monte e perciò già valutate come illegittime sia dalla Banca d'Italia quale autorità garante sia dalla Corte di legittimità.

La dichiarazione di nullità integrale del contratto a valle ai sensi dell'art. 1419, comma 1, c.c., e non delle sole clausole frutto di intese illecite, consegue alla considerazione dell'obiettivo cui le intese illecite delle banche associate sono state finalizzate: modificare la funzione della fideiussione bancaria rispetto a quella della fideiussione civile, assicurando la garanzia del cd. effetto solutorio definitivo per scaricare alcuni rischi e costi del cliente inadempiente; questi rischi e costi avrebbero, altrimenti, richiesto una complessiva ristrutturazione della politica contrattuale, non solo con riferimento alla garanzia, ma anche con riferimento all'erogazione del credito.

In altri termini, guardando alla diversa funzione conseguita dalla fideiussione bancaria contenente le clausole 2, 6 e 8 dello schema ABI frutto di intese anticoncorrenziali, ritiene questa Corte che la Banca non avrebbe proprio concluso il contratto di garanzia se non avesse potuto assicurarsi le deroghe del c.c. previste da quelle clausole (App. Bari, Sez. II, 12 novembre 2021, n. 1955).

“Deve escludersi l'applicabilità della nullità parziale ex art. 1419 c.c. perché la gravità delle violazioni in esame incide pesantemente sulla posizione del garante, aggravandola in modo significativo, rispetto ai superiori valori di solidarietà, muniti di rilevanza costituzionale (art. 2 Cost.), che permeano tutta l'impianto dei rapporti tra privati, dalla fase prenegoziale (art. 1137 c.c.) a quella esecutiva (artt. 1175, 1375 c.c.).

Ben si giustifica che sia sanzionato l'intero agire dei responsabili di quelle violazioni; in altri termini, nell'ottica di assicurare alla nullità la sua funzione "sanzionatoria", in questo caso di comportamenti precontrattuali e contrattuali caratterizzati da contrarietà a buona fede ed ai canoni minimi di solidarietà sociale, è necessario assicurare in questo caso alla più grave forma di patologia del contratto la sua massima manifestazione, senza consentire che, in nome del principio di conservazione degli atti giuridici, possano essere salvaguardate le restanti pattuizioni o, addirittura, che si dia vita ad un'operazione "ortopedica" di sostituzione eteronoma di clausole ex art. 1339 c.c.

Soltanto attraverso una siffatta interpretazione, infatti, è consentito realizzare quella funzione di "private enforcement" a tutela della concorrenza che l'ordinamento ormai attribuisce anche ai privati cittadini (come da ultimo certifica il recepimento della Direttiva n. 2014/104/EU), nonché di scoraggiare gli Istituti di credito dal fare applicazione di clausole che la Banca di Italia, nel suo ruolo di Autorità garante della concorrenza tra banche, ha ritenuto restrittive della concorrenza.

Dunque, poiché qualsiasi forma di distorsione della competizione del mercato (che rappresenta un valore costituzionale ai sensi dell'art. 41 Cost., come tale espressione di un interesse generale), in qualunque modo posta in essere, costituisce comportamento rilevante per l'accertamento della violazione dell'art. 2 della normativa antitrust, per cui è inevitabile concludere che l'intero portato, a valle di quella distorsione, debba essere assoggettato alla sanzione della nullità”. (Trib. Salerno, 13 ottobre 2020).

Ma non è stato così per la Cassazione.

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