Azione di rivendicazione: quale onere probatorio per l'attore se il convenuto aveva eccepito, inutilmente, l'usucapione?
24 Febbraio 2022
Massima
Essendo l'usucapione un titolo d'acquisto a carattere originario, la sua invocazione, in termini di domanda o di eccezione, da parte del convenuto con l'azione di rivendicazione, non suppone, di per sé, alcun riconoscimento idoneo ad attenuare il rigore dell'onere probatorio a carico del rivendicante, il quale, anche in caso di mancato raggiungimento della prova dell'usucapione, non è esonerato dal dover provare il proprio diritto, risalendo, se del caso, attraverso i propri danti causa fino ad un acquisto a titolo originario o dimostrando che egli stesso o alcuno dei suoi danti causa abbia posseduto il bene per il tempo necessario ad usucapirlo. Il rigore probatorio rimane, tuttavia, attenuato quando il convenuto, nell'opporre l'usucapione, abbia riconosciuto, seppure implicitamente, o comunque non abbia specificamente contestato, l'appartenenza del bene al rivendicante o ad uno dei suoi danti causa all'epoca in cui assume di avere iniziato a possedere. Per contro, la mera deduzione, da parte del convenuto, di un acquisto per usucapione il cui dies a quo sia successivo al titolo del rivendicante o di uno dei suoi danti causa, disgiunta dal riconoscimento o dalla mancata contestazione della precedente appartenenza, non comporta alcuna attenuazione del rigore probatorio a carico dell'attore, che a maggior ragione rimane invariato qualora il convenuto si dichiari proprietario per usucapione in forza di un possesso remoto rispetto ai titoli vantati dall'attore. Il caso
Il giudice del gravame confermava la sentenza del giudice di prime cure, con la quale era accolta la domanda di rivendicazione di un fondo. In particolare, la Corte d'appello rilevava: a) che il convenuto aveva in precedenza richiesto l'accertamento dell'usucapione in proprio favore ex art. 1159-bis c.c., procedendo alla notificazione dell'istanza nei confronti dell'attore; b) che, proposta opposizione avverso tale istanza, la domanda di usucapione era stata rigettata con sentenza d'appello confermata in sede di legittimità; c) che, in considerazione della pregressa vicenda giudiziale, era giustificata l'applicazione dei principi elaborati dalla giurisprudenza di legittimità sull'attenuazione dell'onere della prova in tema di azione di rivendicazione, quando il convenuto abbia opposto alla pretesa dell'attore l'acquisto per usucapione in proprio favore; d) che, in base a quegli stessi principi, l'onere della prova a carico dell'attore si esauriva perciò nella dimostrazione del proprio titolo di acquisto; e) che tali considerazioni rendevano secondaria la questione, sollevata dall'appellante, di quale fosse stato l'atteggiamento del convenuto nel giudizio di rivendica; f) che il primo giudice aveva fondatamente ritenuto che il diritto di proprietà dell'attore non fosse stato specificamente contestato, ma, seppure così non fosse stato, rimanevano impregiudicate le conseguenze, sul piano dell'onere della prova imposto all'attore in rivendicazione, dall'avere il convenuto infondatamente affermato nel precedente giudizio di avere acquistato la proprietà dei fondi per usucapione. Per la cassazione della sentenza il convenuto proponeva ricorso, affidato a due motivi. Con il primo motivo denunciava violazione e falsa applicazione dell'art. 2967 c.c. e degli artt. 922 e 1158 c.c., in relazione all'art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c. All'uopo, deduceva che il giudizio instaurato per l'accertamento dell'acquisto della proprietà per usucapione, definito con il rigetto della domanda, si era esaurito con il disconoscimento dell'acquisto da parte dell'attuale ricorrente. In quella sede non era stato negato il possesso del convenuto, né c'era stato alcun riconoscimento del diritto di proprietà dell'attore, il quale, quindi, rimaneva onerato dal fornire la prova della proprietà secondo il rigore imposto in tema di azione di rivendicazione. Esponeva, ancora, che l'attenuazione dell'onere a carico del rivendicante implicava che il convenuto non avesse contestato l'originaria appartenenza del bene a un comune autore, evenienza che, nel caso di specie, non si era verificata. D'altra parte, la Corte d'appello non avrebbe potuto considerare, quale fattore di attenuazione del rigore probatorio, lo svolgimento del (precedente) giudizio di usucapione nel contraddittorio fra le stesse parti della successiva causa di rivendicazione. L'usucapione, infatti, è un modo di acquisto a titolo originario e la proposizione della relativa domanda contro l'intestatario formale non avrebbe implicato alcun riconoscimento del diritto. La domanda del rivendicante, quindi, in base a quegli stessi principi, andava rigettata, perché l'attore aveva prodotto solo una relazione notarile, inidonea a dimostrare la proprietà. Con il secondo motivo denunciava omesso esame di un fatto decisivo. Si rimprovera alla Corte d'appello di avere definito la lite senza verificare se l'attore avesse dato la prova del possesso del fondo in capo al convenuto, essendo siffatto possesso l'essenziale presupposto della domanda di rivendicazione. La parte avversa resisteva con controricorso, con il quale sosteneva che, mediante la relazione notarile, l'attore in rivendicazione aveva dato la prova del proprio diritto, essendo palesemente fuori luogo, da parte del ricorrente, pretendere la probatio diabolica nei confronti del soggetto contro il quale egli stesso aveva proposto in passato una infondata domanda di usucapione. Eccepiva poi l'inammissibilità del secondo motivo sotto un duplice profilo, sia perché si denunciava quale «omesso esame» di un fatto la supposta mancata considerazione di una tesi difensiva, sia per la novità della questione. La questione
Il Collegio affronta il tema attinente alle eventuali ricadute, sull'onere probatorio a carico dell'attore in rivendicazione, delle vicende del precedente giudizio svoltosi fra le stesse parti, conclusosi con il rigetto della domanda di usucapione, a suo tempo proposta dall'attuale convenuto nel giudizio di rivendica. A questa ipotesi è equiparata anche l'evenienza in cui la domanda o l'eccezione di usucapione, che non abbiano esito, siano proposte, a cura del convenuto, nello stesso giudizio di rivendicazione. Si pone, a tal riguardo, la questione inerente alla ricorrenza dei presupposti per alleviare il regime probatorio che esige la c.d. probatio diabolica – onere a carico dell'attore rivendicante –, ove appunto il convenuto abbia fatto valere l'usucapione contro lo stesso rivendicante e tale pretesa sia disattesa. Le soluzioni giuridiche
In primis, la Corte regolatrice osserva che il convenuto nel giudizio di rivendicazione aveva presentato richiesta di riconoscimento di acquisto di proprietà per usucapione speciale in virtù dell'art. 1159-bis c.c. Contro la richiesta di riconoscimento dell'usucapione, proposta nelle forme di cui alla l. 346/1976, la controparte aveva proposto opposizione, che era stata accolta. Esiste quindi un accertamento con efficacia di giudicato in ordine all'inesistenza dei presupposti per il riconoscimento della proprietà ex art. 1159-bis c.c. Tanto premesso, l'azione di rivendicazione è stata proposta in separato giudizio, definito in grado d'appello con la sentenza oggetto del ricorso. Quindi, la Corte di legittimità esamina in via prioritaria il secondo motivo di ricorso, ritenendolo infondato. In merito, afferma che legittimato passivamente all'azione di rivendica ex art. 948 c.c., qualunque sia il titolo di acquisto invocato dall'attore, è chiunque di fatto possegga o detenga il bene rivendicato e sia in grado quindi di restituirlo (Cass. civ., 16 giugno 2006, n. 13973; Cass. civ., 10 ottobre 1997, n. 9851). Senonché non è configurabile che colui il quale abbia proposto una domanda di usucapione nei confronti di un determinato soggetto, e si sia visto respingere tale domanda, possa nel successivo giudizio di rivendicazione negare, nei confronti di quel medesimo soggetto, di essere nel possesso del fondo in termini generici. Il convenuto, per supportare l'onere della prova dell'attore sulla puntuale dimostrazione del possesso del fondo, avrebbe dovuto dedurre in modo specificosul punto, assumendo, per esempio, un sopravenuto mutamento rispetto al momento di introduzione del precedente giudizio di usucapione. Ciò che nel caso di specie, secondo la S.C., non è avvenuto. In ordine al primo motivo, la Corte ribadisce l'orientamento consolidato e generale secondo cui nel giudizio di revindica l'attore deve provare di essere divenuto proprietario della cosa rivendicata, risalendo, anche attraverso i propri danti causa, fino ad un acquisto a titolo originario o dimostrando che l'attore stesso o alcuno dei suoi danti causa abbia posseduto il bene per il tempo necessario ad usucapirlo. All'attore, perciò, non basta esibire un titolo di acquisto derivativo, perché un tale titolo non prova con certezza che egli è divenuto proprietario del bene: egli potrebbe avere acquistato dal non proprietario. A tal fine potrà eventualmente sommare il proprio possesso al possesso dei precedenti danti causa (Cass. civ., 10 settembre 2018, n. 21940; Cass. civ., 18 gennaio 2017, n. 1210; Cass. civ., 4 dicembre 2014, n. 25643; Cass. civ., 18 agosto 1964, n. 2325). È all'uopo richiamato, sull'onere della prova nell'azione di rivendicazione, l'indirizzo nomofilattico assolutamente costante, a mente del quale la prima e fondamentale indagine che il giudice del merito deve compiere concerne l'esistenza, la validità e la rilevanza del titolo dedotto dall'attore a fondamento della pretesa, e ciò prescindendo da qualsiasi eccezione del convenuto, giacché, investendo essa uno degli elementi costitutivi della domanda, la relativa prova deve essere fornita dall'attore e l'eventuale insussistenza deve essere rilevata dal giudice anche d'ufficio (Cass. civ., 3 marzo 2009, n. n. 5131; Cass. civ., 19 settembre 1985, n. 4704; Cass. civ., 11 marzo 1977, n. 991). Si tratta di un onere fondamentale e assoluto, tanto che il convenuto in rivendicazione non è, a sua volta, tenuto a fornire alcuna prova e può trincerarsi dietro il semplice possideo quia possideo e, se adduce qualche prova o qualche suo diritto sulla cosa, ciò non deve mai tornare a suo pregiudizio, non implicando, di per sé, rinuncia alla posizione di vantaggio derivantegli dal possesso e non esonerando l'attore dalla prova a suo carico (Cass. civ., 7 giugno 2018, n. 14734; Cass. civ., 17 maggio 2007, n. 11555; Cass. civ., 15 maggio 1962, n. 1034). Così l'eccezione di usucapione, anche se non risulti fondata, non può avere, da sola, la conseguenza che ne risulti provato, per converso, che il rivendicante abbia usucapito il suo diritto o l'abbia comunque acquistato (Cass. civ., 27 febbraio 1970, n. 496; Cass. civ., 6 luglio 1962, n. 1738). Ad avviso della Corte, nello stesso tempo si riconosce che, anche in caso di azione di rivendica, la intensità e la estensione della prova a carico dell'attore devono stabilirsi in relazione alla peculiarità di ogni singola controversia, cosicché il criterio di massima secondo cui l'attore deve fornire la prova rigorosa della proprietà sua e dei suoi danti causa, fino a coprire il periodo necessario per la maturazione dell'usucapione, può subire opportuni temperamenti secondo la linea difensiva adottata dal convenuto (Cass. civ., 18 agosto 1990, n. 8394; Cass. civ., 11 novembre 1986, n. 6592; Cass. civ., 7 marzo 1985, n. 1873; Cass. civ., 11 febbraio 1964, n 305). In questa prospettiva, si ammette concordemente che il rigore probatorio a carico dell'attore in rivendicazione trova temperamento nella ipotesi in cui il convenuto ammetta, in tutto o in parte, il diritto di proprietà del rivendicante, riconoscendo l'esistenza del diritto stesso fino ad un dato momento e a un determinato acquisto (Cass. civ., 16 marzo 2006, n. 5852; Cass. civ., 17 aprile 2002, n. 5487; Cass. civ., 4 marzo 1997, n. 1925; Cass. civ., 29 novembre 1965, n. 2420; Cass. civ., 20 marzo 1964, n. 634). È infatti inutile risalire nel tempo al periodo occorrente per l'usucapione, se il titolo di uno dei danti causa dell'attore sia riconosciuto come valido ed efficace dal convenuto in revindica (Cass. civ., 14 marzo 1962, n. 537). Per contro, il rigore della prova non è attenuato, di per sé, dalla mera proposizione di una domanda o eccezione di usucapione da parte del convenuto e troverà applicazione il principio che la mancata prova del titolo della proprietà da parte del convenuto nell'azione di rivendicazione non può costituire motivo per l'inversione dell'onere della medesima, che incombe sempre sul rivendicante (Cass. civ., 20 gennaio 1994, n. 515). Per l'effetto si ammette, in linea generale, che il convenuto si possa avvalere del principio possideo quia possideo, anche se opponga un proprio diritto di dominio sulla cosa rivendicata, poiché tale difesa non implica alcuna rinuncia alla vantaggiosa posizione di possesso (Cass. civ.,12 aprile 2001, n. 5472). Infatti, essendo l'usucapione un titolo d'acquisto a carattere originario, la sua invocazione non suppone alcun riconoscimento a favore della controparte (Cass. civ., 7 giugno 2018, n. 14734; Cass. civ., 3 marzo 2009, n. 5131; Cass. civ., 17 maggio 2007, n. 11555; Cass. civ., 23 maggio 1996, n. 4748); a meno che il convenuto, avendo riconosciuto l'originaria appartenenza del bene ad uno dei danti causa del bene medesimo, deduca e invochi l'usucapione come avvenuta solo successivamente a favore proprio o di un proprio dante causa (Cass. civ., 4 febbraio 2000, n. 1250; Cass. civ., 5 gennaio 2000, n. 43; Cass. civ., 29 agosto 1997, n. 8246). In tali ipotesi detto onere può ritenersi assolto, in caso di mancato raggiungimento della prova dell'usucapione, con la dimostrazione della validità del titolo di acquisto da parte del rivendicante e dell'appartenenza del bene ai suoi danti causa in epoca anteriore a quella in cui il convenuto assuma di aver iniziato a possedere (Cass. civ., 17 aprile 2002, n. 5487), e con la prova che quell'appartenenza non è stata interrotta da un possesso idoneo ad usucapire da parte del convenuto (Cass. civ., 10 marzo 2006, n. 5161; Cass. civ., 8 ottobre 2001, n. 12327; Cass. civ., 28 giugno 2000, n. 8806). La S.C. precisa, tuttavia, che – secondo altre pronunce – l'opposizione di un acquisto per usucapione, il cui dies a quo sia successivo a quello del titolo di acquisto del rivendicante, comporta che il thema disputandum sia costituito dall'appartenenza attuale del bene al convenuto in forza dell'invocata usucapione e non già all'acquisto di esso da parte dell'attore (Cass. civ., 22 aprile 2016, n. 8215). In base a tale orientamento, dovendo il tema della prova coincidere con quello del decidere (Cass. civ., 24 luglio 1964, n. 1997), l'onere probatorio, imposto all'attore in rivendica, può ritenersi assolto, per effetto del fallimento dell'avversa prova della prescrizione acquisitiva, con la dimostrazione della validità del titolo in base al quale quel bene gli era stato trasmesso dal precedente titolare (Cass. civ., 30 marzo 2006, n. 7529; Cass. civ., 10 settembre 2002, n. 13186; Cass. civ., 2 marzo 1996, n. 1634). Allo scopo di addivenire a tale soluzione, si argomenta che il convenuto non potrebbe avvalersi del principio possideo quia possideo senza alcuna rinuncia a tale situazione vantaggiosa, atteso che, quando invoca l'acquisto per usucapione, il convenuto non si limita ad opporre la tutela garantita dalla legge a favore del possessore indipendentemente da un corrispondente diritto di proprietà, ma deduce di possedere nella qualità di proprietario, chiedendo – nell'ipotesi di domanda riconvenzionale – addirittura una pronuncia di accertamento di tale diritto di proprietà con efficacia di giudicato (Cass. civ., 30 marzo 2006, n. 7529; Cass. civ., 29 novembre 2004, n. 22418). All'esito la Corte rileva che gli orientamenti passati in rassegna risentono inevitabilmente delle particolarità di ogni singola vicenda, rispetto alle quali è possibile cogliere, nelle sfumature del linguaggio, due diversi modi di intendere la regola dell'attenuazione dell'onere della prova al cospetto dell'opposizione, da parte del convenuto, di un acquisto per usucapione: l'uno, che si può definire «rigoroso», in base al quale, nonostante l'opposizione dell'usucapione, vale pur sempre, in linea di principio, la regola del possideo quia possideo, salva la rilevanza delle ammissioni, anche implicite o tacite, del convenuto, che ridondino a vantaggio del rivendicante; l'altro, «meno rigoroso», in base al quale il convenuto che invoca l'usucapione rinuncia al principio possideo quia possideo. Nondimeno, anche le pronunce che ricadono nell'orientamento «meno rigoroso» richiedono, ai fini dell'attenuazione del rigore probatorio a carico dell'attore, l'opposizione di un acquisto per usucapione che non sia in contrasto con il titolo di acquisto dell'attore (Cass. civ., 22 aprile 2016, n. 8215; Cass. civ., 2 marzo 1996, n. 1634). Talvolta tale requisito è precisato nel senso che occorre che l'usucapione sia riferita a un possesso il cui dies a quo sia successivo a quello del titolo di acquisto del rivendicante (Cass. civ., 29 novembre 2004, n. 22418). Altre volte il requisito del dies a quo del possesso, che deve essere successivo al titolo del rivendicante, è considerato in connessione con la «mancata contestazione, da parte del convenuto stesso, dell'originaria appartenenza del bene rivendicato al comune autore ovvero ad uno dei danti causa» (Cass. civ., 30 marzo 2006, n. 7529; Cass. civ., 10 settembre 2002, n. 13186). Sembra così, al di là del diverso modo di formulazione delle massime, che – anche in relazione alla domanda o all'eccezione di usucapione del convenuto – ciò che giustifica l'attenuazione è pur sempre la regola secondo cui il criterio di massima che l'attore deve fornire la prova rigorosa della proprietà sua e dei suoi danti causa, fino a coprire il periodo necessario per la usucapione, può subire opportuni temperamenti secondo la linea difensiva adottata dal convenuto. Non si rinviene, nella giurisprudenza della Corte, un principio in base al quale la domanda o l'eccezione di usucapione del convenuto importi, per ciò solo, il riconoscimento del dominio dell'attore o dei suoi danti causa, attenuandosi, in conseguenza della sua semplice opposizione, il rigore dell'onere probatorio a carico del rivendicante. A questo punto la S.C. ricostruisce il seguente quadro di sintesi: A. Nella rivendicazione l'attore deve fornire la prova «rigorosa» della proprietà, dimostrando un titolo di acquisto originario o, nel caso di titolo derivativo, risalendo fino al dante causa che abbia acquistato a titolo originario, senza che alcun onere gravi sul convenuto, il quale può trincerarsi nel commodum possessionis, limitandosi ad eccepire il principio possideo quia possideo. L'acquisto a titolo derivativo (il contratto o la successione ereditaria) indica solo che c'è stato un atto di trasmissione del diritto di cui era titolare il dante causa. Poiché nemo plus iuris in alium transferre potest quam ipse habet, il rivendicante che esibisca un titolo derivativo non dimostra di essere effettivamente proprietario, ma solo di avere ricevuto la legittimazione a possedere che era vantata dal suo predecessore. A questo punto interviene l'insegnamento per cui l'attore deve risalire a un acquisto a titolo originario ovvero dimostrare di avere posseduto (direttamente o sommando il proprio possesso a quello dei suoi predecessori per effetto dell'accessione o successione del possesso ex art. 1146 c.c.) per il tempo necessario al compimento dell'usucapione. B. Mancando la prova positiva della proprietà, l'attore in rivendica soccombe, anche se il convenuto non dimostra la sua proprietà a sostegno del proprio possesso; questi ha infatti il possesso in suo favore e, se l'attore non dà la prova del suo diritto di proprietà, la domanda deve essere rigettata anche quando il possesso del convenuto non risulti corroborato da alcun titolo. Neppure se il convenuto abbia invocato il proprio diritto sulla cosa e la sua prova sia fallita, viene meno il rigore probatorio a carico dell'attore, perché il sistema difensivo del convenuto non può tornare a suo pregiudizio, non implicando di per sé rinuncia alla posizione di vantaggio derivantegli dal possesso. C. Non basta che sia data la prova di un titolo preminente a quello del convenuto, quando questo titolo non sia attributivo del diritto di proprietà. Il nostro diritto non ammette l'antica actio pubbliciana, mediante la quale il possessore ad usucapionem, in cui favore, però, l'usucapione non fosse ancora compiuta, poteva reclamare la cosa dal possessore, il cui possesso si dimostrasse a titolo inferiore: oggi occorre fornire la prova della proprietà. D. Si devia da tale rigore se il convenuto abbia fatto delle ammissioni, per esempio quando l'acquisto della proprietà sia un fatto pacifico fra le parti o il convenuto si affermi avente causa dello stesso autore da cui l'attore deriva il suo diritto, o quando si riconosca che il dante causa è comune o il convenuto riconosca la proprietà in capo ad alcuno dei danti causa dell'attore. Si tratta di un limite logico all'onere della prova, che deve essere sempre valutato in relazione alle pretese delle parti. E. Deve ribadirsi pertanto che non si rinviene, nella giurisprudenza della Corte, un principio in base al quale la domanda o l'eccezione di usucapione comporta, per ciò solo, il riconoscimento del dominio dell'attore o dei suo aventi causa, attenuandosi di conseguenza il rigore dell'onere probatorio a carico del rivendicante. F. Infatti, essendo l'usucapione un titolo d'acquisto a carattere originario, la sua invocazione non suppone alcun riconoscimento a favore della controparte. È fatta salva l'ipotesi che l'usucapione, così come dedotta dal convenuto, non sia in contrasto con la proprietà dell'attore o di uno dei suoi danti causa (Cass. civ., 17 aprile 2002, n. 5487; Cass. civ., 10 dicembre 1994, n. 10576; Cass. civ., 2 marzo 1996, n. 1634): il che si verifica quando il convenuto abbia comunque riconosciuto che il rivendicante o uno dei danti causa dell'attore era proprietario del bene all'epoca in cui assume di avere iniziato a possedere (Cass. civ., 12 maggio 2003, n. 7264; Cass. civ., 4 febbraio 2000, n. 1250; Cass. civ., 29 agosto 1997, n. 8246). In assenza di tale riconoscimento, il solo dato temporale, consistente nella deduzione di un possesso successivo, non giustifica, di per sé, l'attenuazione del rigore probatorio. Va da sé che il rigore probatorio rimane invariato qualora il convenuto si dichiari proprietario per usucapione in forza di un possesso remoto rispetto ai titoli vantati dall'attore. G. Vale in altre parole, anche in relazione all'usucapione opposta dal convenuto nel giudizio di rivendicazione, la regola generale che l'attore si può giovare delle ammissioni del convenuto, il quale abbia riconosciuto l'esistenza del diritto stesso fino ad un dato momento e a un determinato acquisto. In questo caso il rivendicante, nel fallimento della prova della prescrizione acquisitiva, potrà utilmente limitarsi a provare i titoli di acquisto che risalgono a quel dante causa. Al solito l'ammissione del convenuto non deve essere necessariamente espressa, ma può essere anche implicita o tacita; potrà risultare inoltre dalla mancanza di specifiche contestazioni rispetto a un'allegazione dell'attore, puntuale e specifica, dei titoli posti a fondamento della pretesa. Le considerazioni di cui sopra hanno indotto la Corte a ritenere fondato il primo motivo di ricorso nei limiti di seguito indicati. La Corte d'appello ha richiamato il seguente principio: «In tema di azione di rivendicazione, qualora il convenuto abbia in passato presentato una domanda onde ottenere il riconoscimento della proprietà dell'immobile, poi oggetto di rivendica, in forza dell'usucapione speciale di cui all'art. 1159-bis c.c., e abbia notificato tale domanda al dante causa dell'attore in rivendicazione, così implicitamente riconoscendone l'originaria proprietà del bene sulla base dei titoli trascritti nei registri immobiliari (senza, tuttavia, ottenere una valida declaratoria di acquisto della proprietà per usucapione) e successivamente, nel giudizio di rivendica, sostenga – in via di eccezione – di aver acquistato per usucapione la proprietà del bene rivendicato, l'onere probatorio posto a carico dell'attore in rivendicazione si attenua, riducendosi alla prova di un valido titolo di acquisto da parte sua e dell'appartenenza del bene ai suoi danti causa in epoca anteriore a quella in cui il convenuto assuma di aver iniziato a possedere, nonché alla prova che quell'appartenenza non è stata interrotta da un possesso idoneo ad usucapire da parte del convenuto» (Cass. civ., 23 luglio 2015, n. 15539). Senonché il Giudice di legittimità obietta che, a un attento esame, il principio, così come riflesso nella massima, è equivoco, perché, da un lato, si ritiene che la precedente proposizione della domanda di usucapione, nei confronti dell'attore in rivendicazione, comporti, in favore del rivendicante, l'implicito riconoscimento della originaria proprietà del bene, dall'altro, nel regolare l'onere probatorio a carico dell'attore in rivendica, si richiama la regola tradizionale in base alla quale l'attenuazione si verifica quando l'usucapione non sia in contrasto con la proprietà del dante causa o dei suoi autori, tant'è vero che è evocata la regola secondo cui l'usucapione deve riflettere un possesso che sia iniziato successivamente rispetto al titolo del rivendicante. Ad avviso della S.C., nel medesimo equivoco incorre la sentenza impugnata, la quale, dopo avere richiamato la massima, afferma esservi «costante giurisprudenza, d'altra parte, che la mera eccezione di usucapione sollevata nei confronti del rivendicante attenui il di lui onere probatorio, fino a ridurlo alla dimostrazione del proprio titolo di acquisto». Per contro la Corte rammenta di aver chiarito che non si rinviene nella giurisprudenza della Corte un principio del genere. Osservazioni
Nella pronuncia in esame la Corte di cassazione afferma il principio secondo cui, in mancanza di espresso riconoscimento o di non contestazione del titolo dell'attore in rivendica, la domanda o l'eccezione di usucapione proposta dal convenuto, e disattesa, non determina un alleggerimento dell'onere probatorio del rivendicante. Sicché di per sé la proposizione di una domanda di usucapione o della corrispondente eccezione verso il rivendicante non implica neanche un riconoscimento implicito della titolarità della proprietà in capo a quest'ultimo. Tale indirizzo è però contrastato da un orientamento diverso – da ultimo fatto proprio da una pronuncia di poco antecedente a quella in commento –, ad avviso del quale nell'azione per rivendicazione l'onere della c.d. probatio diabolica incombente sull'attore si attenua quando il convenuto si difenda deducendo un proprio titolo d'acquisto, quale l'usucapione, che non sia in contrasto con l'appartenenza del bene rivendicato ai danti causa dell'attore; in siffatta evenienza detto onere può ritenersi assolto, in caso di mancato raggiungimento della prova dell'usucapione, con la dimostrazione della validità del titolo di acquisto da parte del rivendicante e dell'appartenenza del bene ai suoi danti causa in epoca anteriore a quella in cui il convenuto assuma di aver iniziato a possedere (Cass. civ., 23 settembre 2021, n. 25865). La possibilità di operare questi temperamenti probatori nell'azione di rivendica è da tempo discussa. L'indirizzo favorevole all'esclusione di ogni temperamento sostiene che, non ricorrendo alcuna disposizione di legge la quale preveda, come modo di acquisto della proprietà, il riconoscimento che di essa faccia un terzo, l'eventuale ricognizione del convenuto a nulla gioverebbe all'attore, che sarebbe comunque gravato dall'onere di dimostrare l'effettiva titolarità del diritto dominicale sul bene. In questa stessa logica, si ritiene che l'orientamento ispirato dal c.d. droit mellieur sarebbe insostenibile alla luce delle caratteristiche del possesso, che escludono che il giudice possa premiare colui che esibisce il titolo migliore, poiché il possesso, come potere di fatto sulla cosa, prescinde dall'esistenza di un titolo sul quale basarsi. Questa impostazione – cui aderisce la sentenza in commento – sottende il carattere di assolutezza attribuito alla proprietà, inteso come possibilità di tutela del proprietario erga omnes, che rende conseguenzialmente inclini a ricercare la dimostrazione di un fatto che, in assoluto, sia costitutivo del diritto. Inoltre, ove l'idea della prova temperata venisse inquadrata in un'ottica di droit mellieur, sarebbe arduo disconoscere che una comparazione sul titolo migliore, chiesta a chi non è tenuto a provare nulla, non è propriamente convincente. In contrapposizione alla tesi tradizionale si colloca l'orientamento in forza del quale occorre individuare un adeguamento dell'onere probatorio tra la prova diabolica, posta in capo al rivendicante, e il cospicuo vantaggio processuale che deriva al convenuto dal factum possessionis (ossia il commodum possessionis del convenuto che si limiti ad eccepire il principio possideo quia possideo). Aderendo a questa prospettazione, in primo luogo, l'accertamento del giudizio di rivendica non ha un valore di universalità. Il diritto di proprietà è dedotto nel processo attraverso uno schema più semplice, ovvero solo in una relazione bilaterale, con la conseguenza che il riconoscimento del convenuto, e la sua incidenza in diminuendo sul carico probatorio dell'attore, non ha dei riverberi di assolutezza, ma opera invece in uno spazio determinato dalla speciale angolatura bilaterale del processo. In secondo luogo, il particolare vantaggio processuale del possessore pare porsi in conflitto con l'attuale esistenza nel nostro ordinamento di un generale onere per le parti di contestare in modo specifico i fatti di causa allegati dall'avversario ex art. 115, primo comma, c.p.c. In chiave intermedia, si pone la ricostruzione alla luce della quale – seppure le caratteristiche del possesso e una lettura molto fedele ai canoni tradizionali possano prudentemente indurre a ritenere che la relazione tra attore in rivendica e convenuto possessore costituisca una deroga alla regola processuale della puntuale contestazione dei fatti dedotti dalla controparte, quantunque essa sia ormai di portata generale – resta fermo che il possessore può trincerarsi dietro il possideo quia possideo solo allorché questa scelta sia coerente con il complessivo comportamento da questi tenuto in sede processuale. I commoda gli consentono, come possessore, di non essere tenuto a provare nulla, sfruttando sul fronte processuale il moto d'inerzia che la tradizione gli accorda, non però di tenere contestualmente comportamenti ammissivi che lo rendano – per giunta su diritti disponibili – immune da conseguenze. Ed invero un elementare senso di equità processuale suggerisce una razionalizzazione funzionale dell'onere probatorio del rivendicante in dipendenza del comportamento assertorio del convenuto. L'adesione a quest'ultima prospettiva impone delle puntuali considerazioni rispetto alla vicenda da cui scaturisce la pronuncia in commento, essendo controverso se la proposizione di una domanda o eccezione di usucapione verso l'attore in rivendica costituisca in sé un riconoscimento implicito della titolarità del diritto dominicale da questi vantato (o dal suo dante causa), laddove il dies a quo del possesso utile ad usucapionem decorra da epoca successiva alla formazione di tale titolo. Da una parte, la pronuncia esaminata esclude che la posizione processuale del convenuto – il quale domandi o eccepisca l'usucapione – importi di per sé alcun riconoscimento. Dall'altra, si propende per la soluzione opposta, secondo cui tale posizione processuale del convenuto importa invece un riconoscimento implicito. Questa tesi si fonda sui seguenti rilievi: a) il brocardo ulpianeo nemo plus iuris in alium transferre potest quam ipse habet deve conciliarsi con il principio processuale secondo cui i vizi dell'atto traslativo o il difetto di legittimazione del corrispondente dante causa sono elementi che impediscono o negano il diritto che si vuol far valere, cosicché, secondo la distribuzione dell'onere probatorio regolata dall'art. 2697 c.c., nessun onere probatorio incombe sull'attore rivendicante in ordine alla dimostrazione dei fatti impeditivi, allorché il convenuto eccepisca l'usucapione a suo favore, ma non riesca a provarla, dovendo in tal caso esigersi dal rivendicante la semplice prova di un valido titolo d'acquisto; b) la proposizione della domanda o eccezione di usucapione – senza esito – verso il rivendicante attiva un procedimento presuntivo sulla titolarità del diritto in capo all'attore, in forza del titolo attestante l'acquisto, avendo il convenuto indirizzato la pretesa di acquisto a titolo originario proprio verso il rivendicante, salvo che il possessore convenuto non eccepisca e provi dei fatti che precludano l'efficacia del titolo; c) quanto all'evocazione della teoria secondo cui l'assolutezza della proprietà presupporrebbe, in ogni caso, un accertamento di carattere altrettanto assoluto, valevole erga omnes, può obiettarsi che il diritto di proprietà postula piuttosto una relazione di utilità che lega la cosa al proprietario, e non già un rapporto giuridico intercorrente tra il titolare del diritto e i ceteri omnes, configurandosi pertanto la proprietà quale diritto efficace erga quemcumque, nei confronti cioè di chiunque porrà in essere una violazione del diritto; d) quale corollario di tale qualificazione della proprietà, si osserva che ogni diritto, relativo o assoluto che sia, viene accertato giudizialmente, e fa stato a ogni effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa, come dispone l'art. 2909 c.c. sulla cosa giudicata, regola alla quale non fa certamente eccezione la proprietà che, sebbene sia un diritto assoluto, viene accertato con efficacia di giudicato verso le parti, i loro successori universali (gli eredi) e nei confronti di particolari terzi, gli aventi causa (a titolo particolare), legati alle parti da un nesso di dipendenza, non certo, però, nei confronti di tutti coloro (ceteri omnes) che sono estranei al diritto di proprietà; e) acquistare un diritto, e in particolare il diritto di proprietà, a fronte della reiezione della contrapposta richiesta di usucapione, significa esserne titolari, senza che si possa distinguere se l'acquisto sia avvenuto in modo originario o in modo derivativo, con la conseguenza che colui che esercita l'azione di rivendica è tenuto a provare esclusivamente di aver acquistato il diritto di proprietà sulla cosa rivendicata in uno dei modi (a titolo originario o derivativo) che la legge riconosce come idonei a tale scopo, ed esserne perciò titolare; f) addossare al proprietario la prova dell'usucapione nella società moderna, in cui gli scambi avvengono assai più frequentemente che nel passato, e dove è sempre maggiore la distanza tra i soggetti che operano nel mercato e i beni oggetto di trattativa – anche ove sia disattesa l'istanza di usucapione avanzata dal convenuto – appare anacronistico o addirittura sanzionatorio, più che di tutela per il proprietario, anche astraendo da ogni considerazione sulla validità teorica della c.d. probatio diabolica. Nell'ipotesi in cui si accogliesse tale impostazione, il rivendicante contro cui sia domandato o eccepito, senza esito, l'acquisto per usucapione vedrebbe attenuarsi l'onere probatorio da cui è gravato e segnatamente dovrebbe limitarsi a dimostrare la validità del suo titolo. Riferimenti
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