I beni comuni per la dottrina, la giurisprudenza, le leggi regionali e le istituzioni: una logica solidale per tutelare gli interessi delle generazioni future
19 Maggio 2022
Premessa
L'emergenza sanitaria da Covid 19 ha riaperto tra gli studiosi di diritto civile e di diritto pubblico il dibattito sull'applicazione del principio di solidarietà sociale nell'ambito della proprietà, che deve essere considerata non solo nella prospettiva classica del diritto soggettivo assoluto, che esclude gli altri, ma anche in una prospettiva più ampia, che tenga conto della natura di determinati beni che fanno parte di una collettività e che devono essere tutelati anche nell'interesse delle generazioni future (Fidone 2017;Arena 2020; Mariotti, Caminiti 2021). In particolare, come era già accaduto nelle riflessioni di alcuni giuristi degli anni ‘60 e ‘70 del secolo scorso e, soprattutto, nel 2007 quando venne istituita la Commissione Rodotà (v. infra), ha riacquistato nuova forza vitale il concetto di beni comuni – in affiancamento ai beni privati e pubblici – avente implicazioni giuridiche ma anche economiche, sociologiche e filosofiche. Un concetto che applica il principio della funzione sociale come carattere interno e intrinseco alla struttura giuridica della proprietà, enunciato dall'articolo 42 Cost., ma anche altri principi sanciti dalla nostra Carta costituzionale, ovvero dall'articolo 45 che riconosce la funzione sociale della cooperazione a carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata, e dall'articolo 2 sui doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale. Il tema è stato posto al centro del dibattito politico e giuridico sull'acqua, allorché si è discusso sul diritto universale a godere di questo bene naturale, sulla cura della qualità delle acque e sul loro riutilizzo (v. la proposta di legge d'iniziativa popolare recante princìpi per la tutela, il governo e la gestione pubblica delle acque e disposizioni per la ripubblicizzazione del servizio idrico, e il referendum sull'acqua del 2011). In ambito internazionale va senz'altro menzionata l'opera della politologa ed economista statunitense Elinor Ostrom. Ma quali sono le definizioni di “beni comuni” enucleabili dalla dottrina, dalla giurisprudenza, da alcuni regolamenti comunali e dalle leggi regionali? Qual è l'istituzione più diffusa creata dai cittadini per la tutela e la cura dei beni comuni? Anche se la nozione di bene comune non ha ancora trovato ingresso nel Codice Civile, sono numerose le definizioni elaborate dalla dottrina, dalla giurisprudenza, dalle Amministrazioni pubbliche e da molteplici associazioni che sono state costituite da cittadini negli ultimi anni. La definizione più nota si deve principalmente all'attività posta in essere dalla Commissione presieduta da Stefano Rodotà, istituita presso il Ministero della Giustizia il 21 giugno 2007, al fine di elaborare uno schema di legge delega per la modifica delle norme del Codice Civile in materia di beni pubblici, recepito nel disegno di legge n. 2031, comunicato alla Presidenza il 24 febbraio 2010, avente ad oggetto la modifica del capo II del titolo I del libro III del Codice Civile, nonchè di altre norme strettamente connesse (reperibile sul sito https://www.senato.it/). Il disegno di legge consta di un unico articolo, che identifica i beni comuni nelle “cose che esprimono utilità funzionali all'esercizio dei diritti fondamentali nonché al libero sviluppo della persona”, i quali “devono essere tutelati e salvaguardati dall'ordinamento giuridico anche a beneficio delle generazioni future”. Lo stesso articolo indica a titolo esemplificativo, tra gli altri, i seguenti beni comuni: “i fiumi, i torrenti e le loro sorgenti; i laghi e le altre acque; l'aria; i parchi come definiti dalla legge, le foreste e le zone boschive; le zone montane di alta quota, i ghiacciai e le nevi perenni; i lidi e i tratti di costa dichiarati riserva ambientale; la fauna selvatica e la flora tutelata; i beni archeologici, culturali, ambientali e le altre zone paesaggistiche tutelate”. Alla luce della definizione molto ampia di “beni comuni” prevista nel disegno di legge, appartengono a questa categoria beni non rientranti nella specie dei beni pubblici nel significato più proprio e restrittivo del termine, poiché sono a titolarità diffusa, potendo appartenere non solo a persone giuridiche pubbliche, ma anche a privati. Nel disegno di legge, infatti, titolari dei beni comuni possono essere persone giuridiche pubbliche o soggetti privati ma in ogni caso deve essere garantita la loro fruizione collettiva. Sono inclusi non solo beni materiali (per i quali si registrano criticità a causa di problemi di scarsità e di depauperamento e per assoluta insufficienza delle garanzie giuridiche) ma anche beni immateriali, come la conoscenza in rete o i saperi tradizionali di una comunità. La riforma proposta dalla Commissione avrebbe introdotto per la prima volta nell'ordinamento giuridico la categoria in esame, e lo avrebbe fatto inserendola in cima alla classificazione dei beni che, dunque, avrebbero potuto essere comuni, pubblici (necessari, sociali e fruttiferi) o privati. La nozione molto estesa di bene comune ha poi il pregio di non circoscrivere il suddetto bene a una comunità ristretta che lo circonda, ma di estendersi oltre i confini di una comunità per abbracciare l'intero territorio nazionale. C'è poi un altro pregio che va riconosciuto all'elaborato di questa Commissione: quello di avere previsto un nuovo soggetto sconosciuto al nostro ordinamento giuridico che è l'interesse delle generazioni future. La previsione di una disciplina dei beni comuni muove dall'esigenza prioritaria della loro preservazione proprio a vantaggio delle generazioni future. Dalla grande tradizione romanistica si è ricavata costantemente una visione del diritto del “qui e adesso”, di un conflitto tra attore e convenuto, mentre il grande assente è sempre stato l'interesse delle generazioni future. Se la proposta della Commissione Rodotà si fosse concretizzata nella riforma della disciplina dei beni pubblici prevista dal Codice Civile, in alcune controversie che hanno per oggetto la tutela dell'ambiente (di sempre più stringente attualità, a fronte della crisi climatica) ma anche della salute, magistrati e avvocati avrebbero dovuto fare i conti con questo nuovo interesse. Sarebbe stata certamente una “rivoluzione copernicana” dell'istituto della proprietà, che da istituzione che esclude gli altri si sarebbe trasformata anche in un'istituzione che deve guardare anche al bene comune. Una celebre definizione di “beni comuni” è stata elaborata dalla Corte di Cassazione a Sezioni Unite nel 2011 (Cass. civ., sez. un., sent. 14 febbraio 2011, n. 3665). Il contenzioso aveva per oggetto la natura giuridica demaniale o privata delle valli da pesca della Laguna di Venezia e, in un obiter dictum, la Cassazione ha affermato: “là dove un bene immobile, indipendentemente dalla titolarità, risulti per le sue intrinseche connotazioni, in particolar modo quelle di tipo ambientale e paesaggistico, destinato alla realizzazione dello Stato sociale come sopra delineato, detto bene è da ritenersi, al di fuori dell'ormai datata prospettiva del dominium romanistico e della proprietà codicistica, ‘comune' vale a dire, prescindendo dal titolo di proprietà, strumentalmente collegato alla realizzazione degli interessi di tutti i cittadini”. Il principio affermato dalla Corte nomofilattica è di sicuro interesse perché offre un'interpretazione costituzionalmente orientata della disciplina dei beni prevista dal Codice Civile e rileva che “il solo aspetto della ‘demanialità' non appare esaustivo per individuare beni che, per loro intrinseca natura, o sono caratterizzati da un godimento collettivo o, indipendentemente dal titolo di proprietà pubblico o privato, risultano funzionali ad interessi della stessa collettività. In tal modo, risultando la collettività costituita da persone fisiche, l'aspetto dominicale della tipologia del bene in questione cede il passo alla realizzazione di interessi fondamentali indispensabili per il compiuto svolgimento dell'umana personalità”. Per la Suprema Corte, “le valli da pesca configurano uno dei casi in cui i principi combinati dello sviluppo della persona, della tutela del paesaggio e della funzione sociale della proprietà trovano specifica attuazione, dando origine ad una concezione di bene pubblico, inteso in senso non solo di oggetto di diritto reale spettante allo Stato, ma quale strumento finalizzato alla realizzazione di valori costituzionali”; concludeva, dunque, che le valli da pesca della Laguna di Venezia sono beni demaniali gravando così l'ente pubblico che le amministra degli “oneri di una governance che renda effettivi le varie forme di godimento e di uso pubblico del bene”. Ma il ragionamento della Cassazione tende a superare il concetto di demanialità come unico esempio di godimento collettivo per elaborare una nuova categoria di beni: quelli comuni. Questa sentenza rappresenta un punto di approdo della giurisprudenza di legittimità sulla categoria dei beni pubblici quali strumenti finalizzati alla realizzazione dei valori costituzionali, quale la tutela del paesaggio e dell'ambiente (cfr. altra pronuncia della Corte di Cassazione, sempre a Sezioni Unite, del 2020 sul tema della cosiddetta “sdemanializzazione tacita” (Cass. civ., sez. un., sent. 7 aprile 2020, n. 7739). Un'altra definizione di “beni comuni” si rinviene nel regolamento che l'associazione Labsus (Laboratorio per la sussidiarietà), ente del terzo settore e il Comune di Bologna hanno elaborato nel 2014 (v. Regolamento sulla collaborazione cittadini e amministrazione per la cura e la rigenerazione dei beni comuni urbani, reperibile sul sito http://www.comune.bologna.it/). Ai sensi dell'articolo 2 del regolamento, essi sono così definiti: “i beni, materiali, immateriali e digitali, che i cittadini e l'Amministrazione, anche attraverso procedure partecipative e deliberative, riconoscono essere funzionali al benessere individuale e collettivo, attivandosi di conseguenza nei loro confronti ai sensi dell'art. 118 ultimo comma Costituzione, per condividere la responsabilità della loro cura o rigenerazione al fine di migliorarne la fruizione collettiva”. Si tratta di una definizione importante poiché costituisce un modello cui si sono ispirati numerosi altri Comuni per l'emanazione dei loro regolamenti: ad oggi, infatti, essa è stata recepita con qualche modifica da molti Comuni e permette ai cittadini di proporre all'Amministrazione pubblica patti di collaborazione per la cura, la gestione e la rigenerazione di beni comuni urbani quali giardini, parchi, orti, fontane, quartieri e alcuni beni immobili abbandonati. È una definizione, invero, meno estesa rispetto a quella elaborata dalla Commissione Rodotà ma ha il grande pregio di avere trovato applicazione nella normativa secondaria rappresentata dai numerosi regolamenti comunali aventi ad oggetto, come detto, la collaborazione tra cittadini e Amministrazione pubblica per la cura e la rigenerazione dei beni comuni. Quali sono, in sintesi, i principi fondamentali di questi regolamenti comunali? Il primo principio è la fiducia reciproca tra cittadini e Amministrazione pubblica per il perseguimento delle finalità di interesse generale, in un rapporto paritario che sfocia, per l'appunto, in un patto di collaborazione. Il secondo principio è la coprogettazione, per cui cittadini e Amministrazione pubblica stabiliscono insieme le modalità di cura e rigenerazione del bene oggetto del patto. Il terzo principio è quello dell'inclusività o apertura in forza del quale gli interventi di cura sono organizzati in modo da consentire in qualsiasi momento che altri cittadini possano aggregarsi all'attività di gestione e cura del bene. Altro principio importante dei regolamenti comunali è la trasparenza, ovvero l'Amministrazione pubblica deve garantire la massima conoscibilità delle proposte pervenute dalla cittadinanza per la cura e la gestione del bene e delle decisioni assunte dall'ente pubblico. Ultimo principio è quello dell'informalità: i rapporti di collaborazione sono improntati alla flessibilità e le formalità burocratiche vengono adottate solo quando la legge lo preveda. In tutti i regolamenti si parla di “cittadini attivi”, i quali “possono svolgere interventi di cura e di rigenerazione dei beni comuni come singoli o attraverso le formazioni sociali in cui esplicano la propria personalità, stabilmente organizzate o meno” (così articolo 4, c. 2 Regolamento cit.Comune di Bologna). Ma che cosa si intende con questa espressione? È possibile ricondurre i cittadini attivi in diverse categorie. La prima categoria è rappresentata dalle singole persone fisiche. La seconda categoria è, invece, costituita dalle formazioni sociali dotate di una stabile organizzazione come le associazioni riconosciute (articoli 14-35 c.c.) e le associazioni non riconosciute (articoli 36- 42 bis c.c.). La terza categoria è rappresentata dagli enti del terzo settore dell'associazionismo e del volontariato, disciplinati dal decreto legislativo 3 luglio 2017, n. 117 (noto come Codice del Terzo settore). Compongono, infine, una quarta categoria i gruppi informali di cittadini senza alcuna organizzazione, che si riuniscono per conseguire l'obiettivo di curare o gestire un bene comune. I beni comuni oggetto dei patti di collaborazione
Sono oltre 250 i Comuni che hanno sottoscritto patti di collaborazione con i cittadini attivi per la gestione, cura e rigenerazione dei beni comuni. Come rilevato da Alessandra Quarta: “Le città rappresentano il terreno di sperimentazione più interessante per il nuovo diritto dei beni comuni” (Quarta 2020). In questi patti sono disciplinate tra l'altro tutte le attività che devono essere poste in essere dai cittadini attivi e dalle Amministrazioni per la cura del bene comune e le responsabilità a carico delle parti coinvolte nello svolgimento delle attività concordate e programmate, definendo dunque l'ambito degli interventi di rigenerazione del suddetto bene e un progetto di gestione condiviso per la sua cura (tra i tanti, v. Regolamento comunale recante la disciplina per la partecipazione dei cittadini attivi alla cura, alla gestione condivisa e alla rigenerazione dei beni comuni urbani, reperibile sul sito https://www.comune.milano.it/). I patti di collaborazione non sono, per la maggior parte, complessi e non coinvolgono soggetti terzi che svolgono attività economiche. Vi sono, tuttavia, alcune eccezioni, come il patto di collaborazione “Casa nel parco” tra il Comune di Torino e la Fondazione della Comunità Mirafiori Onlus (“luogo intermedio fra il pubblico e il privato e punto di riferimento per numerose iniziative culturali, sociali, aggregative ed educative che si realizzano a livello di quartiere e in città”, v. https://fondazionemirafiori.it/casanelparco), che coinvolge anche soggetti che svolgono attività di ristorazione all'interno di spazi in cui vengono realizzate attività di interesse generale. Sono molteplici i beni che sono divenuti oggetto di questi patti. Tra questi vi sono le piazze: così, ad esempio, la Piazza Costantino nel Quartiere Adriano di Milano, interessata da un patto che ha coinvolto una scuola primaria statale e diverse associazioni ambientali e culturali (v. patto di collaborazione di “Porta Adriano”, reperibile sul sito https://www.comune.milano.it/). O ancora, i parchi, come nel caso del patto di collaborazione per la gestione condivisa del parco Buscicchio tra un ente del terzo settore e il Comune di Brindisi (reperibile sul sito https://www.labsus.org/) e le fontane (un esempio è rappresentato dal patto stipulato tra il comune di Piedimonte Matese - CE e un gruppo informale di cittadini per la rigenerazione, la manutenzione ordinaria e straordinaria e il ripristino del decoro e della fruibilità della “Fontana Nuova” di Piazza Cappello, reperibile sul sito https://www.comune.piedimonte-matese.ce.it/). L'espressione “beni comuni” compare poi in alcune leggi regionali. La legge della Regione Veneto n. 56 del 9 giugno 2017 (Disposizioni per il contenimento del consumo di suolo e modifiche della legge regionale 23 aprile 2004, n. 11 “Norme per il governo del territorio e in materia di paesaggio”), che promuove iniziative per la rigenerazione degli immobili abbandonati attraverso accordi tra soggetti pubblici e privati, stabilisce, all'articolo 1, c. 1: “Il suolo, risorsa limitata e non rinnovabile, è bene comune di fondamentale importanza per la qualità della vita delle generazioni attuali e future, per la salvaguardia della salute, per l'equilibrio ambientale e per la tutela degli ecosistemi naturali, nonché per la produzione agricola finalizzata non solo all'alimentazione ma anche ad una insostituibile funzione di salvaguardia del territorio”. Ed ancora, la legge della Regione Emilia Romagna n. 15 del 22 ottobre 2018 (Legge sulla partecipazione all'elaborazione delle politiche pubbliche, abrogativa della precedente legge regionale n. 3 del 9 febbraio 2010) contempla, tra gli obiettivi, “attivare modalità operative condivise tra la pubblica amministrazione e i soggetti che prendono parte ai percorsi di partecipazione, per ridurre possibili ostacoli, ritardi e conflitti” (articolo 2, lett. e), e inoltre “sostenere l'impegno delle persone nella cura dei beni comuni quali il territorio, l'ambiente, l'istruzione, i servizi pubblici e le infrastrutture” (articolo 2, lett. f). Con riferimento alla Regione Lazio, la legge n. 10 del 26 giugno 2019 (Promozione dell'amministrazione condivisa dei beni comuni) prevede che la Regione stessa “promuove l'amministrazione condivisa dei beni comuni, mediante forme di collaborazione tra l'amministrazione regionale e gli enti locali e i cittadini attivi, finalizzate alla cura, alla rigenerazione e alla gestione condivisa degli stessi, dandone massima diffusione e pubblicità” (articolo 1, c. 1). La legge in questione definisce i “beni comuni” come “i beni, materiali e immateriali, funzionali al benessere individuale e collettivo e agli interessi delle generazioni future e per i quali le amministrazioni e i cittadini si attivano, ai sensi dell'articolo 118, quarto comma, della Costituzione, per garantirne la fruizione collettiva e condividere la responsabilità della cura, della rigenerazione e della gestione in forma condivisa degli stessi” (articolo 2, lett. d). Sono, quindi, previsti “percorsi formativi, anche esperienziali, idonei a diffondere la cultura della collaborazione civica, a sviluppare le competenze necessarie per l'amministrazione dei beni comuni, a conoscere e a promuovere le buone pratiche e ad accompagnare la costruzione di nuovi percorsi sul territorio regionale” (articolo 4, c. 1), oltre che “a favorire la qualificazione professionale degli operatori della pubblica amministrazione” (articolo 1, c. 2, lett. b). Questa legge, tra l'altro, “disciplina l'amministrazione condivisa dei beni comuni e sostiene l'impegno dei cittadini nella loro cura” (articolo 1, c. 2, lett. a), e altresì istituisce “presso l'assessorato regionale competente in materia di enti locali, avvalendosi delle risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente, l'elenco regionale telematico dei regolamenti degli enti locali sull'amministrazione condivisa, al fine di monitorarne e promuoverne l'adozione” (articolo 7, c. 1). Infine, la legge della Regione Toscana n. 71 del 24 luglio 2020 (Governo collaborativo dei beni comuni e del territorio, per la promozione della sussidiarietà sociale in attuazione degli articoli 4, 58 e 59 dello Statuto) definisce “beni comuni” “i beni intesi quali beni materiali, immateriali e digitali, che esprimono utilità funzionali all'esercizio dei diritti fondamentali della persona, al benessere individuale e collettivo, alla coesione sociale e alla vita delle generazioni future, per i quali i cittadini si attivano per garantirne e migliorarne la fruizione collettiva e condividere con l'amministrazione la responsabilità della loro cura, gestione condivisa o rigenerazione” (articolo 2, c. 1, lett. a). In questa prospettiva è interessante la previsione della legge di mappare e monitorare i beni in stato di abbandono per i quali i cittadini possono formulare proposte di rigenerazione condivise con l'Amministrazione pubblica. In conclusione
Anche se non esiste una disciplina dei beni comuni nel Codice Civile, essi rappresentano ormai una realtà con la quale bisogna fare i conti e che si è concretizzata in proposte referendarie e legislative, delibere, regolamenti comunali, leggi regionali e atti amministrativi sull'intero territorio nazionale. A ciò si aggiunge l'interesse manifestato dalla dottrina e dalla giurisprudenza, che hanno contribuito a una loro definizione. E tali beni, come dimostra l'istituzione dei patti di collaborazione, sono comuni proprio perché appartengono a tutti i consociati e ad essi sottende una nuova visione della proprietà fondata sui principi costituzionali come la solidarietà sociale, la tutela del paesaggio, del patrimonio artistico e culturale, nonché la rivendicazione di un nuovo modo di possedere opposto a quello “imposto” dal mercato, armonizzando la nozione di proprietà prevista dal Codice Civile con il dettato costituzionale, assicurando e restituendo a questi beni la loro funzione sociale, con conseguenti limitazioni alla possibilità di una loro concessione a privati, con una tutela risarcitoria e restitutoria spettante allo Stato, con tutela inibitoria spettante a chiunque possa fruire delle loro utilità in quanto titolare del corrispondente diritto soggettivo alla loro fruizione (v. relazione disegno di legge S. 2031, reperibile sul sito https://www.senato.it/; v., inoltre, relazione Commissione Rodotà https://www.giustizia.it/). Viene, così, delineata una categoria distinta da quelle tradizionali dei beni privati e dei beni pubblici. Sono numerose le esperienze associative e i gruppi di ricerca, così come i singoli impegnati nello studio e nella difesa dei beni comuni, nella prospettiva di garantirne la fruizione collettiva e, per l'effetto, il soddisfacimento dei diritti fondamentali intesi in senso ampio, compresi quelli civili, politici e sociali (Mattei 2011) e il libero sviluppo della personalità (Rodotà 2012), contemperandone un uso rispettoso dei valori e principi costituzionali (in primis, il principio solidaristico) con l'esigenza prioritaria della loro salvaguardia a favore delle generazioni future. Riferimenti
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