Il danno da superlavoro e da usura psico-fisica nella giurisprudenza

Domenico Tambasco
09 Giugno 2022

Un recente studio realizzato congiuntamente da OMS e da ILO ha riacceso l'interesse per lo specifico tema dell'esposizione a ritmi lavorativi insostenibili, attraverso la sottoposizione ad orari...
L'aumento dei rischi di mortalità e disabilità da malattie cardiovascolari e l'eccessivo orario di lavoro: un recente studio di OMS e ILO

* Contributo redatto con la collaborazione del dott. Gaetano Rapacciuolo.

Un recente studio realizzato congiuntamente da OMS e da ILO [1] ha riacceso l'interesse per lo specifico tema dell'esposizione a ritmi lavorativi insostenibili, attraverso la sottoposizione ad orari lavorativi di gran lunga superiori ai limiti massimi previsti dalla legge e della contrattazione collettiva.

Considerando un arco di tempo ricompreso tra il 2000 ed il 2016 e un ambito territoriale di 194 nazioni, la ricerca ha evidenziato come il principale fattore professionale di rischio alla base della cardiopatia ischemica e dell'ictus sia lo svolgimento dell'attività lavorativa per una durata pari o superiore a 55 ore settimanali. In particolare, nel 2016 l'orario lavorativo prolungato è stato la causa di circa 744.924 morti per cardiopatie e ictus e di ben 23,26 milioni di invalidità e disabilità per le stesse patologie. Ad essere maggiormente colpiti sono gli uomini, che rappresentano il 72% dei decessi, concentrati soprattutto nelle regioni del sud-est asiatico.

Si tratta di dati molto eloquenti, che rafforzano l'importanza delle norme internazionali e nazionali relative sia alla definizione degli orari di lavoro con l'imposizione di adeguate pause lavorative e di limiti massimi giornalieri e settimanali, sia più in generale all'organizzazione lavorativa.

Anche in questo campo, il diritto vivente ha manifestato una notevole capacità “formante”, costruendo nel suo percorso pluridecennale una serie di fattispecie concrete emerse nell'ambito della responsabilità risarcitoria. Andiamo ad esaminarle.

Il superlavoro: la prima pronuncia della Cassazione, 1° settembre 1997, n. 8267

Non senza una buona dose di fantasia terminologica, la giurisprudenza italiana nel volgere del passato millennio ha dato un preciso nome a questo fenomeno, battezzandolo “superlavoro”.

Facciamo riferimento alla pronuncia della Cassazione, 1° settembre 1997, n. 8267 [2], che per la prima volta [3] ha coniato questo neologismo con lo scopo di indicare lo svolgimento della prestazione lavorativa che, secondo le regole di esperienza, abbia ecceduto “la normale tollerabilità”, qualificabile come fatto illecito generatore di responsabilità contrattuale.

Si tratta di una formula “elastica” [4], aperta come vedremo alla valutazione concreta e “case by case” della condotta datoriale, che ha la sua fonte «nella violazione di obblighi di comportamento imposti da norme di fonte legale o suggeriti dalla tecnica, ma concretamente individuati» (ex plurimis, Cass. 2 settembre 2015, n. 17438; Cass. 2 luglio 2014, n. 15082; Cass. 1° giugno 2004, n. 10510) [5].

Nel caso di specie, il capo ufficio di un ente autonomo fieristico conveniva in giudizio il datore di lavoro per conseguire il risarcimento del danno biologico dovuto all'infarto subito in conseguenza della stressante attività (lavoro straordinario, feriale e festivo, anche presso la propria abitazione, per una media di circa sessanta ore settimanali) a cui si era dovuto sottoporre per fronteggiare il carico del proprio ufficio (la gestione di una importante fiera nazionale a cui partecipavano annualmente circa duemila aziende), con un organico peraltro del tutto insufficiente (14 unità).

Sia il Pretore che il Tribunale di Bari in sede di appello rigettavano le richieste del lavoratore, affermando il classico principio “volenti non fit iniuria”; più precisamente il lavoratore che, di sua iniziativa, si assoggetti al superlavoro per mantenere - nonostante la carenza di organico - l'efficienza del reparto a lui affidato compie una scelta da ascriversi esclusivamente alla sua responsabilità senza che possa esser evocata quella del datore di lavoro.

L'esistenza presso un ufficio di un carico di lavoro eccessivo - in relazione all'entità dell'organico esistente presso l'ufficio stesso - non obbliga quindi il datore di lavoro ad adeguare l'organico, essendo riservato il relativo dimensionamento esclusivamente alle sue scelte imprenditoriali.

Questi dunque i principi formulati in entrambi i gradi del giudizio di merito, che venivano tuttavia ribaltati in sede di legittimità sulla base di una interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 2087 c.c., alla luce del cogente limite all'iniziativa economica privata costituito proprio dalla salute e dalla sicurezza umana, così come prescritto dall'art. 41 comma 2 Cost.

In ottemperanza a tale precetto, quindi, “il datore di lavoro non può pertanto esimersi dall'adottare tutte le misure necessarie - compreso l'adeguamento dell'organico - volte ad assicurare livelli competitivi di produttività senza compromissione, tuttavia, dell'integrità psicofisica dei lavoratori soggetti al suo potere organizzativo e di dimensionamento delle strutture aziendali”.

Diretto ed immediato corollario era l'affermazione secondo cui “il mancato adeguamento dell'organico che abbia determinato un eccessivo impegno di lavoro da parte del lavoratore, ovvero il mancato impedimento di un superlavoro eccedente - secondo regole di esperienza- la normale tollerabilità, con conseguente danno per la salute del lavoratore stesso, costituiscono violazione, oltre che dell'art. 41, comma 2, della Costituzione, della regola contenuta nell'art. 2087 c.c., con responsabilità di natura contrattuale”.

E ciò, si badi bene, anche nel caso in cui la prestazione lavorativa sia stata resa spontaneamente dal lavoratore, considerato non solo che tale spontaneità è comunque relativa per il contesto di subordinazione economica a cui è sottoposto il prestatore di lavoro, ma tenuto altresì conto del fatto che il datore di lavoro non può invocare quale esenzione di responsabilità l'essersi limitato a fruire di una prestazione non richiesta al lavoratore.

In concreto, anche a seguito del rinvio al giudice di merito e alla nuova pronuncia della Cassazione, 5 febbraio 2000, n. 1307, il caso si chiudeva con il riconoscimento del risarcimento del danno a favore del lavoratore (per la somma di 300.000.000 di lire) e l'accertamento del nesso eziologico tra superlavoro e infarto patito, nonostante la presenza di una pluralità di concorrenti fattori di rischio (fumo, ipertensione, vita sedentaria).

L'art. 2087 c.c., norma generale di chiusura del sistema di sicurezza sul lavoro mercé l'imposizione di un obbligo “atipico” di tutela dell'integrità psico-fisica del prestatore di lavoro, è stato in questo caso arricchito di uno specifico contenuto concreto: il dovere di impedire il superlavoro eccedente la normale tollerabilità attraverso l'obbligo di risarcire il danno alla salute ad esso eziologicamente riferibile.

La fattispecie giurisprudenziale del superlavoro nelle successive pronunce

Quello che nella prima pronuncia del 1997 poteva apparire un singolare neologismo si evolve, nelle successive sentenze di legittimità e di merito, in una vera e propria fattispecie giurisprudenziale [6].

L'analisi delle numerose pronunce intervenute in materia nell'arco di oltre un ventennio, infatti, evidenzia come la figura del “superlavoro” (o “surmenage”, si veda Cass., 8 giugno 2017, n. 14313), enucleata creativamente dal tronco dell'art. 2087 c.c., consti di tre elementi fondamentali:

a) l'esistenza di un ambiente o di condizioni lavorative nocive, costituite dallo svolgimento della prestazione lavorativa oltre la normale tollerabilità, ovverosia protratta per diverso tempo ed esorbitante rispetto ai limiti orari massimi previsti dalla legge (art. 3 e ss. d.lgs. 8 aprile 2003, n. 66) o dalla contrattazione collettiva per il lavoro straordinario (ex multis, Cass. 10 maggio 2019, n. 12540; Cass. 8 giugno 2017, n. 14313; Cass. 24 ottobre 2011, n. 22006, in un caso di accertamento di superlavoro per lo svolgimento di turni notturni di dodici ore per molti anni, senza alcuna contestazione in corso di rapporto; nel merito, Trib. La Spezia, sez. lav., 26 giugno 2019, n. 199; si veda tuttavia App. Venezia, 4 febbraio 2022, n. 608, secondo cui non costituisce superlavoro l'impegno lavorativo di dieci ore al giorno per cinque giorni a settimana, rappresentando “un impegno orario pesante ma non eccezionalmente gravoso che, se intervallato da riposi infrasettimanali, può ritenersi compensato dal superminimo contrattualmente pattuito”) o svolta secondo turni di lavoro eccessivamente pesanti (ex multis, Cass. 23 maggio 2003, n. 8230; Cass. 14 febbraio 2006, n. 3209; Cass., 8 maggio 2014, n. 9945) o senza la fruizione delle pause e dei riposi giornalieri, di quelli settimanali o delle ferie annuali (ex multis Cass., 14 luglio 2015, n. 14710) o, comunque, “in condizioni di particolare gravosità(Cass., 4 gennaio 2018, n. 93, in un caso di lavoratore sottoposto a frequenti trasferte nel territorio nazionale con obbligo di rientro bisettimanale in sede, a lunghi viaggi in automobile, a dormire e mangiare fuori più volte nel corso della settimana; Trib. Roma, sez. lav., 6 ottobre 2021, n. 8009, che ha invece negato la natura usurante o “eccessivamente gravosa” delle mansioni proprie della qualifica professionale superiore, così come della mancata fruizione dei permessi);

b) l'effettiva lesione dell'integrità psico-fisica (danno alla salute o biologico) del lavoratore o della lavoratrice, rilevante sia in termini di danno evento (ovverosia di integrazione della fattispecie di responsabilità attraverso l'evento lesivo contra ius, connesso alla condotta in termini di causalità materiale), sia in termini di danno–conseguenza (pregiudizio patrimonialmente rilevante legato alla fattispecie lesiva in termini di causalità giuridica), ex multis, Trib. Milano, 17 settembre 2018, n. 2276;

c) il nesso eziologico tra lo svolgimento delle prestazioni lavorative in condizioni nocive e la produzione del danno alla salute (ex multis, App. Catanzaro, 13 marzo 2018, n. 34, che nonostante la multifattorialità dell'infarto acuto del miocardio accerta che «tra i soggetti più a rischio di eventi coronarici acuti vanno annoverati proprio quelli che vivono in condizioni lavorative in cui è più prolungata e persistente la situazione di mancata o ridotta possibilità di "controllo" del lavoro, condizionato da carichi eccessivamente elevati, scarsa prevedibilità, necessità di costante attenzione, persistenza di rischio o pericolo o grande responsabilità, turni notturni»);

Fornita dal danneggiato la prova di questi tre requisiti costituitivi (ex multis, Cass. 15 aprile 2014, n. 8804; Cass. 8 maggio 2014, n. 9945, cit.), grava sul datore di lavoro l'onere di dimostrare di aver adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno (ex plurimis, Cass. 27 gennaio 2022, n. 2403; Cass. 5 febbraio 2000, n. 1307).

In particolare, se da un lato il lavoratore non dovrà dimostrare la colpa del datore di lavoro una volta provato l'inadempimento datoriale ex art. 1218 c.c. (Cass. 1307/2000, cit.), dall'altro il datore potrà invocare l'esonero di responsabilità solo nel caso in cui provi che il fatto lesivo presenti i caratteri dell'abnormità, dell'inopinabilità e dell'esorbitanza in relazione al procedimento lavorativo e alle direttive impartite, tanto da poter affermare l'interruzione del nesso causale per opera di una condotta del lavoratore talmente imprevedibile da rappresentare essa stessa causa esclusiva dell'evento [7] ovvero la presenza di un rischio elettivo generato da una attività non avente rapporto con lo svolgimento del lavoro o esorbitante dai limiti (ex multis, Cass., 2 gennaio 2002, n. 5; Cass., 7 giugno 2007, n. 13309; Cass. 17 febbraio 2009, n. 3786; Cass. 25 febbraio 2011; Cass. 4 dicembre 2013, n. 27127) [8].

Ai fini della sussistenza della responsabilità ex art. 2087 c.c., in relazione all'eccessivo carico di lavoro è stata considerata irrilevante l'assenza di doglianze mosse dal lavoratore, così come l'ignoranza delle particolari condizioni in cui sono state prestate le mansioni affidate ai dipendenti, che, salvo prova contraria, si devono presumere come conosciute dal datore di lavoro in quanto espressione ed attuazione concreta dell'assetto organizzativo adottato dall'imprenditore (ex multis, Cass., 27 gennaio 2022, n. 2403, cit.; Cass., 8 giugno 2017, n. 14313, cit. [9]; Cass., 8 maggio 2014, n. 9945, cit.; contra, Cass. 2 settembre 2015, n. 17438, che ha riaffermato il principio volenti non fit iniuria nel caso di dipendente il cui superlavoro era stato frutto della spontanea assunzione di oneri e carichi di competenza altrui, integrando in questo modo l'interruzione del nesso eziologico [10]).

Conseguentemente il fatto che il lavoratore, per la sua posizione apicale, avesse la possibilità di modulare da un punto di vista organizzativo la propria prestazione, anche in relazione ai carichi di lavoro, alle modalità di fruizione delle ferie e dei riposi, non costituisce comunque fattore di esclusione della responsabilità datoriale, residuando pur sempre in capo al datore di lavoro un obbligo di vigilanza in ordine al rispetto delle misure atipiche di sicurezza ex art. 2087 c.c. (Cass., 27 gennaio 2022, n. 2403, cit., caso relativo al superlavoro di un dirigente [11], con nota di CAPURRO, Recenti arresti di giurisprudenza sul dialogo tra libertà e diritti, nel rapporto di lavoro dirigenziale, Labor Rivista, 4 giugno 2022).

Vi è da aggiungere che, nella concreta prassi giudiziale, si è rivelato molto difficile l'adempimento del rigoroso onere probatorio richiesto a carico del danneggiato, soprattutto in punto di prova del nesso eziologico: questo, infatti, è il requisito la cui assenza viene più frequentemente posta alla base delle numerose pronunce di rigetto delle domande risarcitorie (ex multis, Cass., 14 gennaio 2022, n. 1096; Cass., 31 agosto 2020, n. 18132; Cass., 23 maggio 2018, n. 12808; nel merito, App. Milano, 15 giugno 2021, n. 430; Trib. Taranto, 25 maggio 2012, n. 3803, che ha enunciato lo standard del “rilevante grado di probabilità”).

Difficoltà probatoria che, con ogni evidenza, ha la sua radice nell'eziologia multifattoriale delle patologie – anche letali - derivate dal superlavoro [12], che non di rado portano i CTU ad esprimersi in termini dubitativi, o comunque con un grado di certezza non adeguato ai rigorosi standard probatori richiesti dalla giurisprudenza per l'integrazione della fattispecie.

Da sottolineare, inoltre, che la semplice carenza d'organico non vale di per sé stessa a provare l'inadempimento datoriale, laddove non si dimostri la specifica ricaduta di tale disfunzione organizzativa sulle mansioni lavorative, in termini di effettuazione di straordinario continuativo o di eccessivi carichi di lavoro (Cass., 27 febbraio 2015, n. 3989; Cass. 19 marzo 2012, n. 4324; App. Milano, 20 dicembre 2019, n. 1900; contra, Cass., 2 gennaio 2002, n. 5, cit., secondo cui il “sottorganico” è una situazione lavorativa stressante che può costituire fonte di responsabilità per il datore di lavoro).

Il danno da usura psico-fisica

Nel “magma incandescente” del diritto giurisprudenziale è possibile isolare una corrente che, sebbene più datata rispetto alla nozione di superlavoro testé analizzata, si può considerare una sua derivazione sul piano logico-sistematico.

Si tratta, più precisamente, del “danno da usura psico-fisica” rilevabile ipso iure nel caso di violazione del diritto al riposo settimanale e alle ferie annuali, entrambi oggetto di tutela costituzionale ed indisponibili a norma dell'art. 36, terzo comma Cost.

Sarà utile, per delinearne i profili, partire dall'importante arresto delle Sezioni Unite che, nella sentenza del 3 aprile 1989, n. 1607, stabilirono i seguenti principi cardine, sebbene con specifico riferimento al diritto al riposo settimanale:

- il diritto al riposo settimanale, necessario al recupero delle energie fisiche e psichiche dopo sei giorni consecutivi di lavoro, è tutelato costituzionalmente ed è irrinunciabile [13] (art. 36, terzo comma Cost.) nonché sanzionato penalmente;

- nel caso di “lavoro nel settimo giorno” [14], oltre alla retribuzione giornaliera (che deve essere corrisposta al lavoratore perché la paga normale compensa solo sei giorni alla settimana) spetta una maggiorazione per l'ulteriore penosità del lavoro domenicale, considerata l'esclusione che esso comporta dalla partecipazione alle iniziative di utilizzazione del tempo libero organizzate nella collettività nonché alle tipiche forme di vita familiare, maggiorazione questa che spetta a tutti i lavoratori costretti a prestare la propria attività di domenica, anche se godono di riposo compensativo nell'arco della settimana (conf. Cass. 23 gennaio 1988 n. 543; Cass. 14 gennaio 1988 n. 221; Cass. 22 dicembre 1987 n. 9603);

- nel caso tuttavia di lavoro nel settimo giorno senza fruizione del riposo compensativo in altro giorno della settimana, spetta al lavoratore una somma ulteriore, avente titolo e natura autonomamente risarcitoria, volta a compensare il sacrificio del mancato riposo settimanale e l'usura psico-fisica che esso comporta (cfr. Cass. 29 dicembre 2021, n. 41889, sulla necessità, per il sorgere della responsabilità risarcitoria, che il riposo settimanale sia totalmente soppresso e non già semplicemente spostato temporalmente);

- tale danno sussiste in re ipsa, sulla base della semplice violazione della norma costituzionale relativa al diritto al riposo settimanale (danno-evento), e deve essere liquidato dal giudice in via equitativa, quantificandolo in concreto avendo in considerazione la gravosità delle prestazioni lavorative e potendo utilizzare, a tal fine, anche gli strumenti e gli istituti affini previsti dalla contrattazione collettiva (conf., nella giurisprudenza precedente alle Sezioni Unite, Cass. 25 luglio 1986, n. 4785; Cass. 27 maggio 1980, n. 3470; Cass. 22 maggio 1985, n. 3105; Cass. 19 novembre 1987, n. 8514).

Siamo dinanzi ad una particolare fattispecie di danno-evento [15], accertabile sulla base della mera violazione del cogente precetto costituzionale e liquidabile in sede giudiziale “case by case”, facendo peraltro utilizzo di un'ampia discrezionalità.

È dunque un orientamento che ha radici profonde e che, non senza rilevanti contrasti, è giunto – progressivamente evolvendosi – fino ad oggi (ex multis, Cass. 15 luglio 2019, n. 18884; Cass. 1 dicembre 2016, n. 24563, Cass. 4 agosto 2015, n. 16665; Cass. 25 ottobre 2013, n. 24180; contra, per la necessità di allegare e provare anche le conseguenze pregiudizievoli concretamente derivate – danno conseguenza -, seppure attraverso l'utilizzo delle presunzioni e del fatto notorio, cfr. ex plurimis, Cass. 28 marzo 2017, n. 7921; Cass. 23 maggio 2014, n. 11581; Cass. 10 febbraio 2014, n. 2886; Cass. 15 maggio 2013, n. 11727; Cass. 28 giugno 2011, n. 14288; Cass. 3 luglio 2001, n. 9009).

Nel corso degli anni la giurisprudenza ha operato un notevole sforzo di “sutura” rispetto all'emergente e parallelo orientamento formatosi sull'art. 2087 c.c. in tema di lavoro eccedente la “normale tollerabilità”, arrivando pertanto a distinguere tra la domanda di risarcimento da usura psico-fisica conseguente alla violazione dell'art. 36 terzo comma Cost., il cui danno deve ritenersi presunto nell'an, e quella invece relativa al danno alla salute (o biologico) asseritamente subito a causa dell'attività lavorativa “usurante” svolta in assenza dei riposi settimanali o delle ferie annuali, danno che non si può dedurre presuntivamente ma che necessita invece della rigorosa prova dell'inadempimento datoriale, della lesione patita e del relativo nesso eziologico (cfr. ex multis, Cass. 29 dicembre 2021, n. 41889; Cass. 13 settembre 2016, n. 17966 [16]; Cass. 1° dicembre 2016, n. 24563, cit.; Cass. 25 ottobre 2013, n. 24180, cit.; nel merito, da ultimo, Trib. Savona, sez. lav., 1° febbraio 2022, est. Serra; App. Milano, sez. lav., 14 novembre 2019, n. 1677).

Siamo, in questa seconda fattispecie, totalmente all'interno del paradigma dell'art. 2087 c.c., ovverosia della prestazione lavorativa eccedente “la normale tollerabilità” in ragione della mancata fruizione dei riposi costituzionalmente garantiti, necessari proprio alla ricostituzione delle energie psico-fisiche del lavoratore e allo sviluppo della vita personale e familiare (cfr. Cass. S.U., 12 novembre 2001, n. 14020, secondo cui “il diritto del lavoratore alle ferie annuali, tutelato dall'art. 36 Cost., è ricollegabile – omissis al soddisfacimento di esigenze psicologiche fondamentali del lavoratore, il quale – omissis mediante le ferie può partecipare più incisivamente alla vita familiare e sociale e può vedersi tutelato il proprio diritto alla salute nell'interesse dello stesso datore di lavoro”) [17].

C'è da aggiungere che il danno da usura psico-fisica si è progressivamente dilatato, andando a ricomprendere oltre al diritto al riposo settimanale e alle ferie annuali oggetto di tutela costituzionale, anche il riposo giornaliero e le pause lavorative che, invece, hanno una copertura legislativa (artt. 7 e 8 d.lgs. 66/2003).

Anche in questo caso la giurisprudenza ha espresso due orientamenti nettamente contrastanti: se da un lato possiamo individuare un filone che applica analogicamente il principio di diritto sorto sul solco dell'art. 36 Cost., presumendo dalla violazione delle norme legislative sui riposi e sulle pause giornaliere la sussistenza in re ipsa del danno da usura psico-fisica (cfr. per le pause lavorative, Trib. Cassino, sez. lav., 25 gennaio 2022, n. 68, est. Salvia; per il riposo giornaliero, Cass. 15 luglio 2019, n. 18884, cit.; Trib. Firenze, sez. lav., 11 marzo 2022, n. 179; App. Roma, 23 marzo 2020, n. 442), dall'altro una parte più consistente della giurisprudenza richiede invece l'adempimento di un rigoroso onere di allegazione e prova anche del pregiudizio concretamente subito, trattandosi di fattispecie priva della diretta copertura costituzionale derivante dall'art. 36 (soprattutto con riguardo al mancato riconoscimento delle soste obbligatorie alla guida, cfr. Cass. 22 marzo 2016, n. 5590; Cass. 21 marzo 2016, n. 5538; Cass. 10 agosto 2015, n. 16665; nel merito, App. Bari, sez. lav., 11 maggio 2020, n. 552; Trib. Cassino, sez. lav., 12 gennaio 2022, n. 28, est. Gualtieri).

Con riferimento ai criteri di quantificazione del danno da usura psico-fisica, come abbiamo accennato la discrezionalità è molto ampia: se in linea di principio la giurisprudenza è concorde nel tenere conto della gravità della prestazione e nel considerare le indicazioni della disciplina collettiva intesa a regolare il risarcimento in oggetto (cfr. Cass. 29 settembre 2021, n. 26450, cit.; Cass. 10 maggio 2019, n. 12540; Cass. 27 luglio 2015, n. 15699; Cass. 14 luglio 2015, n. 14710, cit.; Cass. 23 maggio 2014, n. 11581), in concreto tuttavia i parametri utilizzati sono i più disparati.

Si passa dal compenso previsto dalla contrattazione collettiva per l'ipotesi del lavoro straordinario (Cass. 26 agosto 2015, n. 17154), alla maggiorazione prevista per il lavoro notturno e festivo (Cass., 14 luglio 2015, n. 14710, cit.), alla retribuzione stabilita per la prestazione lavorativa ordinaria feriale (Trib. Bari, sez. lav., 11 gennaio 2022, n. 31, determinata considerando “la maggiore penosità del lavoro non seguito dal riposo settimanale e al contempo il maggior valore della prestazione effettuata oltre i limiti di legge relativi alla durata settimanale della stessa”), al doppio dell'indennità di reperibilità (App. Milano, sez. lav., 10 novembre 2015, n. 959; conf. Cass. 23 maggio 2022, n. 16582).

Di particolare interesse risulta, a tal proposito, la recente pronuncia del Tribunale di Firenze, sez. lav., 11 marzo 2022, n. 179, cit., che ha liquidato il danno da usura psico-fisica derivante ipso iure dallo svolgimento ininterrotto per sette mesi dell'attività lavorativa, utilizzando quali parametri il numero di giorni di riposo mancati (74 nel caso di specie) e la retribuzione spettante per una giornata di lavoro straordinario festivo (€ 113,11, per un importo complessivo di € 8.300,00).

Lo straining come “stress forzato”

Giova menzionare da ultimo, per la sua sovrapposizione con la materia del superlavoro e dell'usura psico-fisica, la fattispecie giurisprudenziale dello straining nella sua recente variante “stressogena” emersa di recente in numerose pronunce di merito e di legittimità.

Lasciando ad altra sede ogni ulteriore approfondimento (si rimanda a TAMBASCO, La nuova vita dello straining: dal “mobbing attenuato” allo “stress forzato”, Labor, 29 maggio 2022), ciò che rileva ai fini della presente analisi è il fatto che la nozione di straining, gemmata anch'essa (come il superlavoro) dal tronco dell'art. 2087 c.c., ricomprenda ormai tutti i casi in cui “il datore di lavoro consenta, anche colposamente, il mantenersi di un ambiente stressogeno fonte di danno alla salute dei lavoratori» (cfr. Cass. 23 maggio 2022, n. 16580; conf., ex multis, Cass., 29 marzo 2018, n. 7844, cit.; Cass., 4 ottobre 2019, n. 24883; nel merito, Trib. Milano, 23 aprile 2019, n. 1047; Trib. Pavia, 22 maggio 2020, n. 85; Trib. Savona, 15 aprile 2021, n. 63).

Il che equivale a tracciare una circonferenza talmente ampia da ricomprendervi pressoché tutte le condotte stressogene imputabili all'organizzazione lavorativa, ovverosia quelle legate alla dimensione quantitativa della prestazione (es. superlavoro, usura psico-fisica), quelle connesse alla dimensione qualitativa del lavoro (o alla posizione del lavoratore nel contesto lavorativo, quale il demansionamento oggettivo, l'ambiente lavorativo etc.) e quelle collegate a fattori inerenti i rapporti interpersonali (quali le condotte persecutorie, le violenze, le molestie etc.) [18].

Si pone quindi per l'ordinamento giuridico l'esigenza, oggi più che mai, di utilizzare il rasoio di Occam di una rinnovata ermeneutica giudiziale: è proprio il caso di dire che, nell'interpretazione dell'art. 2087 c.c., entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem.

Note

[1] OMS, ILO, Stime congiunte OMS/ILO del carico di malattie e infortuni sul lavoro, 2000-2016: rapporto di monitoraggio globale, 2021.

[2] Per un primo commento critico in dottrina, GIAMMARIA, Lavoro straordinario, ferie non godute e danno biologico: la Cassazione si pronuncia ma resta una perplessità, Giurisprudenza Italiana, n. 10, 1° ottobre 1998, p. 921.

[3] In realtà, il termine “superlavoro” si incontra precedentemente in un altro campo della giurisprudenza – quella contabile - in una pronuncia della Corte dei Conti, sez. III, 21 gennaio 1981, n. 46858, in Rass. Amm. Sanità, 1981, relativa ad un caso di riconoscimento della causa di servizio ai fini del conferimento della pensione privilegiata di reversibilità nel “decesso per trombosi cerebrale di un dipendente statale che, per ragioni di servizio, sia stato esposto a stresses psico-emotivi ed a superlavoro fisico”.

[4] Una parte della dottrina, invece, ha limitato la nozione di superlavoro a quel segmento di prestazione lavorativa “che si pone al di là dell'orario massimo assoluto… che va oltre i limiti massimi assoluti stabiliti dalla legge in attuazione dei principi costituzionali”, BOLEGO, Il lavoro straordinario, Milano, 2004, p. 240.

[5] CAPONETTI, Superlavoro e dovere di sicurezza del lavoratore verso se stesso: un caso estremo che vale l'applicazione del brocardo civilistico volenti non fit iniuria, ADL, n. 6, 1° dicembre 2015, p. 1319 e ss. definisce il parametro della “normale tollerabilità” come «un indice di estrema soggettività e di difficile previsione da parte datoriale e lascia ampio margine di valutazione in sede giudiziale».

[6] Sulla natura ad hoc del danno da superlavoro, risultante dalla combinazione dell'art. 2087 c.c. con l'art. 41 comma 2 Cost., si veda CAPONETTI, Superlavoro e dovere di sicurezza del lavoratore verso se stesso: un caso estremo che vale l'applicazione del brocardo civilistico volenti non fit iniuria, cit.

[7] Un esempio tipico è il workaholism, fenomeno di patologica e volontaria dipendenza dal lavoro, potenzialmente produttivo di gravi conseguenze sulla salute della persona. In questo caso, infatti, non c'è nessuna costrizione, né vittimizzazione, né persecuzione, né conflittualità, né disfunzione ambientale: c'è soltanto una dipendenza del lavoratore o della lavoratrice che, allo stesso modo della droga o dell'alcool, abusa del lavoro per riempire i propri vuoti o i propri malesseri personali. Il workaholist, pertanto, è vittima solo di sé stesso. Si rimanda a EGE, Oltre il mobbing. Straining, stalking e altre forme di conflittualità sul posto di lavoro, Milano, 2005, pp. 163-166.

[8] Sull'onere della prova in materia di violazione dell'art. 2087 c.c., si segnala il contributo di ESPOSITO, Violazione dell'obbligo di sicurezza da parte del datore di lavoro e onere della prova, Il Corriere Giuridico, n. 6, 1° giugno 2002, p. 739 e ss.

[9] Ne deriva, secondo la sentenza citata, che “in materia di responsabilità dell'imprenditore ex art. 2087 c.c., gli effetti della conformazione della condotta del prestatore ai canoni di cui all'art. 2104 cod. civ., coerentemente con il livello di responsabilità proprio delle funzioni e in ragione del soddisfacimento delle ragioni dell'impresa, non integrano mai una colpa del lavoratore”.

[10] CAPONETTI, Superlavoro e dovere di sicurezza del lavoratore verso se stesso: un caso estremo che vale l'applicazione del brocardo civilistico volenti non fit iniuria, cit., che richiama il necessario contemperamento tra l'obbligo generale di sicurezza ex art. 2087 c.c. gravante sul datore di lavoro e l'altrettanto cogente dovere di collaborazione e di autoresponsabilità del singolo lavoratore ex art. 20 d.lgs. 81/2008.

[11] Di segno parzialmente contrario appare invece la risalente pronuncia di Cass., 5 febbraio 2000, n. 1307, cit., che nel distinguere tra superlavoro svolto spontaneamente dal Quadro e superlavoro del Dirigente, sembra porre una differenziazione in ordine all'esistenza di una subordinazione socio-economica e, di conseguenza, relativamente all'effettività della scelta di svolgere il lavoro oltre la normale tollerabilità; si rimanda a BONA, Danno biologico da superlavoro: la nuova dimensione dell'art. 2087 c.c., Danno e Responsabilità, n. 4, 1° aprile 2001, p. 385 e ss.

[12] In questi termini, NUNIN, Stress lavoro-correlato: il nodo critico resta l'onere della prova, Il Lavoro nella Giurisprudenza, n. 11, 1° novembre 2018, p. 1013 e ss.; GRASSO, Lo stress derivante dall'organizzazione del lavoro. Gli obblighi di prevenzione e la responsabilità del datore di lavoro, Il Lavoro nella Giurisprudenza, nn. 8-9, 1° agosto 2021, p. 836.

[13] Pur essendo indisponibile in quanto oggetto di protezione costituzionale, tuttavia la giurisprudenza ha da tempo dato rilievo al consenso prestato dal lavoratore allo svolgimento della prestazione lavorativa anche nel giorno di riposo ed anzi la sua richiesta di prestare attività lavorativa in tale giorno, e ciò ai fini dell'accertamento dell'esistenza concreta del danno e della sua quantificazione (cfr. Cass. 23 maggio 2014, n. 11581; Cass. 5 novembre 2003, n. 16626; Cass. 3 luglio 2001, n. 9009). Evidente, dunque, che il consenso potrebbe rilevare, se non ad esimere il datore di lavoro dall'inadempimento (trattandosi come abbiamo visto di diritto indisponibile), certamente ai fini della configurazione di un concorso di colpa del prestatore ex art. 1227 c.c.

[14] Si veda DE ANGELIS, Diritto del lavoro e tutela risarcitoria: un fugace sguardo tra passato e presente, ADL, n. 3, 1° maggio 2017, p. 605 e ss.

[15] Per un'altra ipotesi di danno in re ipsa forgiato dalla giurisprudenza in materia di discriminazioni lavorative, si rimanda a TAMBASCO, Il danno da discriminazione sul lavoro nelle recenti pronunce della giurisprudenza di merito, in questa rivista, 29 marzo 2022.

[16] Si rimanda al commento di RIZZUTI, Usura psicofisica da lavoro prestato oltre il sesto giorno: considerazioni in tema di trattamento economico, in questa rivista, 10 febbraio 2017.

[17] Non mancano tuttavia in giurisprudenza incertezze ed ambiguità terminologiche, rilevabili in alcune pronunce in cui la fattispecie del “superlavoro” (o del lavoro eccedente la “normale tollerabilità”) viene anche denominata “danno da usura psico-fisica”, cfr. Cass. 29 settembre 2021, n. 26450; Cass. 10 maggio 2019, n. 12540.

[18] Sull'articolazione della cause di stress lavorativo in dimensione quantitativa, qualitativa e interpersonale, si veda DEL VECCHIO, Il danno da stress e da usura psicofisica, in Aa.Vv., I danni nel diritto del lavoro, Milano, 2022, p. 301 e ss.

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