Uso personale di stupefacenti e “diritto al silenzio”: disciplina incostituzionale?
20 Giugno 2022
Il caso. Il giudice rimettente deve procedere alla convalida dell'arresto in flagranza degli indagati e/o alla decisione sulla richiesta di misure cautelari formulata dal pubblico ministero a carico dei medesimi per il delitto di cessione di sostanze stupefacenti di lieve entità (art. 73, comma 5, d.P.R. n. 309/1990 - Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza). Tra gli elementi di prova a carico degli arrestati vi sono i verbali di sommarie informazioni rese da due persone sorprese dalla polizia nell'atto di acquistare sostanze stupefacenti dai due indagati.
Il rimettente dubita della possibilità di utilizzare quale prova, ai fini della convalida dell'arresto e della decisione sulle misure cautelari, i verbali di sommarie informazioni in questione, dal momento che ai dichiaranti - pur esposti al rischio di vedersi applicate le sanzioni amministrative di cui all'art. 75 del T.U. stupefacenti - non sono stati formulati gli avvertimenti previsti dall'art. 64, comma 3, c.p.p. nei confronti delle persone sottoposte alle indagini.
Le censure del giudice a quo. Il rimettente muove dal presupposto che le sanzioni previste dall'art. 75 T.U. stupefacenti a carico di chi acquisti sostanze stupefacenti per farne uso esclusivamente personale, pur se formalmente qualificate come amministrative, abbiano natura sostanzialmente punitiva secondo i criteri Engel. Pertanto, la persona nei cui confronti sussistano indizi di commissione di un illecito che comporta la possibile applicazione di tali sanzioni punitive dovrebbe essere titolare, alla pari di chi sia sottoposto a indagini che possano sfociare nell'irrogazione di sanzioni penali in senso stretto, del “diritto al silenzio” fondato sull'art. 24 Cost., oltre che sulle norme europee ed internazionali.
La tutela di tale diritto comporterebbe l'obbligo, a carico delle autorità di polizia e giudiziarie che intendano acquisire le dichiarazioni di una persona esposta a sanzioni di carattere punitivo, di avvertire la persona medesima della propria facoltà di non rendere alcuna dichiarazione, senza incorrere per ciò solo in alcuna responsabilità penale (art. 64, comma 3, c.p.p.). L'omissione di tali avvertimenti non potrebbe che comportare - secondo il giudice a quo - l'inutilizzabilità delle dichiarazioni medesime anche nel procedimento concernente la responsabilità della persona accusata del delitto di cessione di sostanze stupefacenti (in applicazione dell'art. 64, comma 3-bis, c.p.p.).
Il consumatore di stupefacenti va riabilitato, non punito. La Consulta non condivide il presupposto sul quale poggiano le argomentazioni del giudice a quo e, cioè, la natura sostanzialmente punitiva delle sanzioni, formalmente qualificate come “amministrative”, previste dall'art. 75, comma 1, T.U. stupefacenti. Come già sottolineato dal giudice delle leggi (C. cost., n. 109/2016), tale disposizione rappresenta il momento saliente di emersione della strategia - cui si ispira la normativa italiana in materia di sostanze stupefacenti e psicotrope a partire dalla l. n. 685/1975 – volta a differenziare, sul piano del trattamento sanzionatorio, la posizione del consumatore della droga da quelle del produttore e del trafficante: l'idea di fondo del legislatore è che l'intervento repressivo debba rivolgersi precipuamente nei confronti dei secondi, dovendosi scorgere, di norma, nella figura del tossicodipendente o del tossicofilo una manifestazione di disadattamento sociale, cui far fronte, se del caso, con interventi di tipo terapeutico e riabilitativo.
L'intento terapeutico e riabilitativo, alternativo rispetto alla logica della punizione, perseguito dal legislatore nei confronti del consumatore di sostanze stupefacenti si manifesta con particolare evidenza nella disciplina del secondo comma del citato art. 75, che prevede l'invito all'interessato a seguire un programma terapeutico e socio-riabilitativo.
Uso personale di stupefacenti: le sanzioni non hanno natura “punitiva”... Meno evidente appare, invero, la natura giuridica delle sanzioni previste dal primo comma dell'art. 75 T.U. stupefacenti, da irrogarsi entro il minimo e il massimo previsto a seconda che la condotta abbia a oggetto droghe cosiddette “pesanti” o “leggere”, e sottoposte a un procedimento applicativo che ricalca in larga misura quello previsto per la generalità delle sanzioni amministrative dalla l. n. 689/1981: la sospensione della patente di guida o il divieto di conseguirla per un periodo fino a tre anni; la sospensione del porto d'armi o il divieto di conseguirlo; la sospensione del passaporto o il divieto di conseguirlo; la sospensione del permesso di soggiorno per motivi di turismo o il divieto di conseguirlo nei confronti dello straniero extracomunitario.
…ma preventiva. Al riguardo, la Consulta sottolinea che l'elevata carica di afflittività di queste misure rispetto ai diritti fondamentali sui quali esse incidono non esclude, di per sé stessa, la loro finalità preventiva, né depone univocamente nel senso di una loro natura “punitiva”.
Ebbene, la pronuncia in commento - condividendo le valutazioni già espresse dalla Corte europea dei diritti dell'uomo quando ha escluso la natura punitiva della misura della sorveglianza speciale (CEDU, Grande Camera, sentenza 23 febbraio 2017, De Tommaso contro Italia, par. 143) - nega il carattere punitivo delle misure previste dal primo comma del citato art. 75.
In particolare, una finalità spiccatamente preventiva può essere agevolmente ascritta alla “sanzione” della sospensione della patente di guida ovvero del divieto di conseguirla per un periodo fino a tre anni: tale misura, infatti, è evidentemente funzionale a prevenire i rischi connessi alla guida di autoveicoli da parte di soggetti in stato di intossicazione (cfr. C. cost., n. 68/2021).
Analogamente, la sospensione della licenza di porto d'armi e il divieto di conseguirla appaiono misure strumentali a evitare l'abuso intenzionale, o anche solo l'uso non accorto, di armi da parte di un soggetto con minori capacità di autocontrollo per effetto dell'assunzione di sostanze stupefacenti; mentre la sospensione o il divieto di conseguire il permesso di soggiorno per motivi di turismo sottende il venir meno dei requisiti morali minimi ai quali è subordinato il rilascio o la persistente validità dello stesso, in conseguenza del paventato pericolo di turbamento dell'ordine pubblico connesso al consumo di sostanze stupefacenti.
Il carattere non punitivo delle misure esclude il diritto al silenzio. Nell'esercitare la propria discrezionalità nella decisione relativa tanto all'an, quanto alla tipologia delle sanzioni da irrogare in concreto e alla loro durata, il prefetto non potrà non orientarsi alla logica preventiva che sorregge la scelta legislativa: ogni relativa determinazione, quindi, dovrà giustificarsi al metro dei criteri di idoneità, necessità e proporzionalità rispetto alle legittime finalità di ciascuna sanzione, alla luce delle caratteristiche del caso concreto e della peculiare situazione del destinatario delle misure. In tali valutazioni dovrà, invece, restare esclusa a priori ogni impropria logica punitiva, la quale chiamerebbe necessariamente in causa lo statuto costituzionale della responsabilità penale, incluso lo stesso “diritto al silenzio” nell'ambito del procedimento applicativo delle sanzioni in questione.
Tale conclusione determina, pertanto, il venir meno del presupposto essenziale su cui si fondano i dubbi sollevati dal rimettente, con conseguente infondatezza delle questioni sollevate.
*Fonte: DirittoeGiustizia |