Ricusazione del giudice: casistica

Roberta Nardone
29 Giugno 2022

Il focus affronta – con un approccio casistico pressocché inedito – le fattispecie che si pongono più ricorrentemente nella prassi applicativa in tema di astensione e ricusazione del giudice.
L'istanza di ricusazione e i termini per proporla

Ai sensi dell'art. 51 c.p.c l'istanza di ricusazione si propone con “ricorso” contenente «i motivi specifici e i mezzi di prova». Il ricorso, sottoscritto dalla parte o dal difensore, deve essere depositato in cancelleria «due giorni prima dell'udienza, se al ricusante è noto il nome del giudice o dei giudici che sono chiamati a trattare o decidere la causa, e prima dell'inizio della trattazione o discussione di questa nel caso contrario».

La norma, quindi, specifica forma, termini e contenuto necessario della ricusazione.

Infatti, ai sensi del comma II dell'art. 54 c.p.c. «la ricusazione è dichiarata inammissibile , se non è proposta nelle forme nei termini fissati dall'art. 52».

Quanto al ricorso e alla specifica delineazione delle prove, il legislatore ha voluto sottolineare una precisa assunzione di responsabilità del ricusante cui è funzionale la condanna del proponente una istanza poi respinta o dichiarata inammissibile, alla “pena pecuniaria” (art. 54, comma 3, c.p.c.) non superiore a euro 250,00.Più precisamente, si legge nella decisione del Tribunale di Lamezia Terme del 16 luglio 2020, che la ricusazione del giudice consiste in un diritto potestativo processuale che la legge riconosce a ciascuna parte nei casi in cui il giudice si trova in una delle situazioni indicate dall' art. 51, comma 1, c.p.c.

Infatti secondo giurisprudenza consolidata, il potere di ricusazione costituisce un onere per la parte, la quale, se non lo esercita entro il termine all'uopo fissato dall'art. 52 c.p.c. , non ha mezzi processuali per far valere il difetto di capacità del giudice, ragion per cui, in mancanza di ricusazione, la violazione da parte del giudice dell'obbligo di astenersi non può essere fatta valere in sede di impugnazione come motivo di nullità della sentenza (v. tra le altre Cass. civ., 8 febbraio 2016, n. 2399; Cass. civ., 12 dicembre 2014, n. 26223; Cass. civ., sez. un., 11 marzo 2002, n. 3527).

Sui termini la S.C. in ambito penale, ma con argomentazioni replicabili nel processo civile, ha precisato che, per la tempestiva proposizione della dichiarazione di ricusazione, la causa posta a fondamento dell'istanza può dirsi “nota”, nel caso in cui attiene a vicende accadute almeno in parte fuori dall'udienza, solo se è effettivamente conosciuta dalla parte, e non anche se è semplicemente conoscibile, essendo difficoltosa, in tale ipotesi, la verifica del rispetto dell'ordinaria diligenza da parte dell'interessato, «…ciò perché in siffatte situazioni è preferibile valorizzare il diverso concetto di conoscenza effettiva, in maniera da garantire in forma più adeguata le ragioni di chi voglia fare valere una eventuale situazione di incompatibilità del giudice. In ogni caso, l'onere della prova della conoscenza spetta a chi contesta la tempestività della detta richiesta» (Cass. pen., sez. VI, sent., 31 marzo 2021, n. 15073).

La prescrizione che la ricusazione venga proposta non appena si conosce il nominativo del giudice designato si collega al fatto che l'istituto della ricusazione non è predisposto come - e non può mai di fatto risolversi in - uno straordinario mezzo di impugnazione avverso i provvedimenti che la parte ritiene a sé ingiustamente sfavorevoli (di guisa che le doglianze attinenti alla regolarità formale o al contenuto di merito di quel provvedimento non possono trovarvi spazio, potendo e dovendo, invece, essere fatte valere con gli appositi rimedi giurisdizionali a carattere, essi sì, intrinsecamente impugnatorio), ma mira soltanto, in sostanza, ad evitare che il processo sia o resti assegnato ad un giudice il quale, in concreto – ricorrendo una delle ipotesi tassativamente previste dall'art. 51, primo comma c.p.c. - non si trovi, rispetto alla lite in atto, nella doverosa posizione di terzietà, la sua libertà di giudizio apparendo intollerabilmente esposta ad un evidente, specifico condizionamento per dimostrati fatti estranei alla oggettiva materia del contendere devoluta al suo esame.

Ed infatti, i motivi di incompatibilità devono essere estranei, oltre che di norma preesistenti, rispetto all'occasione giurisdizionale in cui vengono fatti valere, per assicurare che la dovuta imparzialità del giudice non resti inammissibilmente compromessa nei confronti (anche) della parte ricusante, da ragioni di grave prevenzione ed ostilità verso quest'ultima o, al contrario, da legami particolari con la parte avversa, o ancora dall'interesse personale all'esito della causa o del procedimento o, infine, dall'avere avuto cognizione dell'una o dell'altro in un diverso grado, dall'avere prestato in essi opera di consulente o di patrocinante.

Del resto, eventuali errori, nullità, od illegittimità dei provvedimenti giurisdizionali, sempre se effettivamente ritenuti esistenti, possono dar luogo unicamente ai rimedi impugnatori ed oppositivi all'uopo previsti dall'ordinamento, ma mai alla ricusazione del giudice. E' infatti noto che la ricusazione è strumento di carattere eccezionale, preposto alla salvaguardia del principio di imparzialità dell'organo giudicante, e non può essere applicato come espediente diretto a conseguire indirettamente la revoca o la modifica di atti istruttori.

Ebbene molto frequentemente , invece, è un provvedimento endoprocessuale – ovvero reso dal giudice nel processo - che fa “scattare” - inammissibilmente – l'istanza di ricusazione.

Anche un intero collegio può esser ricusato (vedi Rg. n. 12/2021 deciso in data 7.6.21 dal Tribunale di Roma, nella specie si trattava della ricusazione dei componenti il Collegio investito di un reclamo ex art. 669-terdecies c.p.c.).

Tuttavia, come il Tribunale di Roma ha avuto modo di precisare nel provvedimento sopra menzionato, non è ammissibile la ricusazione di un organo giudicante collegiale nel suo complesso occorrendo la specifica individuazione nominativa dei suoi componenti (cfr. Tribunale di Roma, procedimento per ricusazione RG 20/21 deciso in data 15.7.21).

Infatti, con argomenti che si rinvengono anche in Cass. pen., sez. V, 17 novembre 2021, n.1157 la inammissibilità predetta deriva dal fatto la ricusazione è un rimedio esperibile solo nei confronti dei singoli giudici che fanno parte del collegio essendo onere della parte allegare una specifica causa di ricusazione con riferimento a ciascuno di essi e dovendo per ciascuno, singolarmente, ricorrere i motivi tassativamente indicati dalla legge per tale istituto. La Corte, nella pronuncia citata, ha precisato che la ricusazione, infatti, può essere proposta soltanto nei confronti della “persona” del giudice e non anche nei confronti del giudice inteso come "organo" (cfr. anche Cass. civ., sez. un., 24 dicembre 2019, n.34429).

Infatti, la ricusazione non può avere una funzione meramente preventiva, indipendente dalla effettiva assegnazione della causa ad un collegio di cui il giudice designato fa parte (Cass. civ., sez. VI, 16 marzo 2019, n. 7541) e non può essere utilizzata quale strumento per impedire ad un giudice di pronunciarsi su una data questione.

La sospensione del processo

Ai sensi dell'ultimo comma dell'art. 52 «la ricusazione sospende il processo». Sebbene la lettera e la ratio della norma sembrano far propendere per un effetto automatico della ricusazione la S.C ha precisato – Cass. civ., sez. II, 19 gennaio 2022, n. 1624 (in senso conforme anche Cass. civ., n. 25709/2014) che l'istanza di ricusazione non sospende automaticamente il processo quando il giudice "a quo" ne valuti l'inammissibilità per carenza "ictu oculi" dei requisiti formali, sicché esso può proseguire senza necessità di impulsi di parte o d'ufficio. Ciò al fine di contemperare il diritto delle parti all'imparzialità di giudizio, assicurato dalla circostanza che la delibazione di inammissibilità del giudice "a quo" non può comunque assumere valore ostativo alla rimessione del ricorso al giudice competente, ed al contempo il dovere di impedire l'uso distorto dell'istituto. In applicazione di tale principio, la S.C. ha ritenuto corretta la decisione del giudice di merito di proseguire il giudizio, in quanto l'istanza di ricusazione era stata formulata per contestare la mancata ammissione delle istanze istruttorie, e quindi palesemente al di fuori dei motivi di astensione obbligatoria previsti dall'art. 51, comma 1, c.p.c.). La S.C ha ribadito che spetta pur sempre al giudice "a quo" una sommaria delibazione della ammissibilità dell'istanza di ricusazione, all'esito della quale, ove risultino "ictu oculi" carenti i requisiti formali di legge per l'ammissibilità il procedimento può continuare, giacché l'evidente inammissibilità della ricusazione, pur non potendo impedire la rimessione del ricorso al giudice competente, esclude l'automatismo dell'effetto sospensivo, in modo da contemperare le contrapposte esigenze, sottese all'istituto, di assicurare alle parti l'imparzialità del giudizio nella specifica controversia di cui trattasi e di impedire, nel contempo, l'uso distorto dell'istituto.

Il codice non si occupa esplicitamente delle conseguenze della mancata sospensione anche ove necessaria.

Riteniamo di poter concludere che alcun pregiudizio sugli atti compiuti si produca in caso di rigetto dell'istanza di ricusazione; diversamente, gli atti compiuti dal giudice ricusato successivamente alla proposizione dell'istanza, saranno nulli ove la stessa accolta. In Cass. civ., sez. un., 30 dicembre 2021, n.41991 si fa salva la possibilità di far valere la nullità degli atti e delle decisioni assunte dal magistrato incompatibile con l'impugnazione della decisione definitiva (analogamente in Cass. civ., sez. un., n. 15969/2009).

Le ipotesi tassative di cui all'art. 51 c.p.c.

Qualora ricorra una delle fattispecie di astensione obbligatoria e il giudice non si sia astenuto, ogni parte può proporre istanza di ricusazione ex artt. 52 e ss. c.p.c.

La ricusazione è ammessa nei soli casi in cui al giudice è fatto obbligo di astenersi e, quindi, soltanto nelle ipotesi tassativamente previste dal primo comma dell'art. 51 c.p.c. Dette ipotesi sono di stretta interpretazione e non sono suscettibili di interpretazione per via analogica, in quanto determinano una deroga al principio del giudice naturale precostituito per legge (cfr. Cass.. civ., sez. un., ord., 8 ottobre 2001, n. 12345 ).

Art. 51, comma I, n. 1), c.p.c.: l'interesse nella causa e i rapporti di debito credito con le parti

Ai sensi del n.1 dell'art. 51 c.p.c. il giudice ha l'obbligo di astenersi «se egli stesso o la moglie ha causa pendente o grave inimicizia o rapporti di credito o debito con una delle parti o alcuno dei suoi difensori».

In tema la Suprema Corte aveva già considerato che la presenza di un contratto, anche di durata, pure a fronte del suo fisiologico svolgimento, fosse idonea a costituire quei rapporti di debito o credito che rendono obbligatoria l'astensione del magistrato: le Sezioni Unite della Cassazione - Cass. civ., sez. un., n. 5701/2012 - avevano giustificato tale esito anche in base alla ratio della norma, che «presidia non soltanto l'effettiva indipendenza del magistrato nell'esercizio delle sue funzioni, ma, non meno, la sua credibilità agli occhi del pubblico, che di regola non è in grado di conoscere lo stato dei pagamenti nel contratto in corso». I Giudici di legittimità però - convenendo 'con l'opinione tradizionale più accreditata' - avevano al contempo affermato che in ipotesi particolari (i casi di rapporti obbligatori del magistrato con lo Stato o altro ente pubblico cui lo stesso fosse collegato per ragioni di residenza, o di utenza con aziende erogatrici di servizi pubblici), la soluzione dovesse essere diversa, poiché in tali casi non è credibile «che il giudice sia portato ad avvantaggiare o danneggiare, a seconda dei casi, il proprio debitore o creditore» .

In Cass. civ., sez. I, 5 aprile 2022, n. 10987 il principio viene sviluppato e la S.C. ha esaminato il caso del magistrato che aveva un rapporto obbligatorio «con un istituto di credito di rilevantissime dimensioni, che adotta condizioni standardizzate o di massa con una indeterminata clientela e che svolge un 'servizio' per il pubblico con tipiche forme di autorizzazione, di vigilanza e di trasparenza». In tali ipotesi il contratto (sia esso di conto corrente, di mutuo, di investimento) concluso con la banca secondo modelli contrattuali standardizzati per quel tipo di rapporto è stato equiparato a quello con l'ente pubblico e non sussiste l'obbligo di astensione del magistrato per la presenza di un rapporto di debito o credito tra il giudice e una delle parti [art. 51, comma 1, lett. c), c.p.c.].

A diversa conclusione si deve giungere, sottolinea la S.C., qualora il magistrato avesse convenuto con l'istituto di credito clausole inequivocabilmente più favorevoli di quelle previste nei contratti standard.

Le Sezioni Unite della Corte Suprema di Cassazione, nella sentenza n. 5701/2012, in cui si verteva sulla sussistenza o meno dell'obbligo di astensione per il giudice che aveva un rapporto di locazione con una delle parti), ha sancito che «la dipendenza del giudice dallo Stato non gli inibisce la trattazione di controversie in cui sia parte quest'ultimo, o altro ente pubblico cui egli sia collegato per ragioni di residenza (ad esempio comune) o di utenza (azienda erogatrice di servizi pubblici), non essendo credibile in queste fattispecie che il giudice sia portato ad avvantaggiare o danneggiare, a seconda dei casi, il proprio debitore o creditore», mentre , fuori dei casi predetti, «il contratto, anche di durata, con una delle parti del processo vale a costituire rapporti di debito o di credito, che rendono l'astensione del magistrato obbligatoria».

Art. 51, comma I, n. 2, c.p.c.: i rapporti personali con le parti o con i difensori

La norma mira ad evitare che l'imparzialità del giudice possa risultare compromessa in forza di rapporti e frequentazioni di carattere personale con le parti.

Nel procedimento RG. 22/21 deciso dal Tribunale di Roma provvedimento di rigetto del 26.7.2021 il ricusante aveva posto a base del ricorso un «anomala interconnessione tra magistrati» e, precisamente, tra il giudice incaricato di decidere dell'azione di responsabilità professionale incardinata contro un Consulente tecnico d'ufficio e il giudice che quel CTU aveva nominato. In particolare, il ricusante denunciava che i due giudici appartenevano alla medesima “corrente” della magistratura; che, in particolare, uno era componente del Consiglio Nazionale della compagine associativa; che partecipavano entrambi ai convegni organizzati dalla associazione sicché, dal “legame correntizio” si traevano dubbi circa la esistenza del requisito di imparzialità fino a prospettare «la certezza assoluta di un ulteriore esito nefasto» della causa pendente

Il Collegio, nel respingere il ricorso ha così ritenuto: «Nel caso di specie le censure contenute nel ricorso non sono neanche astrattamente riconducibili ad alcuna delle ipotesi tassativamente previste dal primo comma dell'art. 51 c.p.c. Né la imparzialità del giudice può essere aprioristicamente messa in discussione sulla base di frequentazioni, peraltro di natura professionale, con altri colleghi che hanno deciso eventuali cause connesse a quella in cui è parte il ricusante».

Art. 51, comma I, n. 3, c.p.c.: la grave inimicizia e la “causa pendente” con il magistrato

La "grave inimicizia" del giudice nei confronti della parte o del difensore, rilevante ai fini della ricusazione, non può, in linea di principio, originare dall'attività giurisdizionale del magistrato, se non in presenza di situazioni, eccezionali e patologiche, di violazione grossolana e macroscopica di principi giuridici, indicativa di un esercizio della giurisdizione volto al perseguimento dello scopo di danneggiare la parte per ragioni di ostilità, ma si riferisce a rapporti estranei al processo, in particolare alla presenza di ragioni di rancore o di avversione pregiudicanti l'imparzialità del giudice.

Nel giudizio Rg.27/2021 all'esame del Tribunale di Roma - deciso in data 4.10.21 - il ricusante aveva chiesto la sostituzione del giudice sul presupposto che lo stesso aveva «assunto in udienza un comportamento intollerabile consistente in urla rabbiose, isteriche e fuori le righe» e, quindi, ravvisando che il comportamento del predetto aveva «creato uno stato di tensione e agitazione tali da impedire il tranquillo svolgimento e la prosecuzione della causa e l'esercizio sereno» della difesa.

In tema di ricusazione del giudice, non è "causa pendente" tra ricusato e ricusante, ai sensi dell'art. 51, n. 3, c.p.c., la denuncia/querela sporta nei suoi confronti da una delle parti del giudizio (vedi nel procedimento Rg. n. 12/2021 deciso in data 7.6.21 dal Tribunale di Roma).

Inoltre, secondo l'insegnamento della giurisprudenza di legittimità a sezioni unite, nei giudizi di responsabilità proposti nei confronti dello Stato, il magistrato non assume mai la qualità di debitore di chi abbia proposto la relativa domanda, questa potendo essere rivolta, anche dopo la l. 18/2015, nei soli confronti dello Stato (Cass., sez. un., 13 giugno 2015, n. 13018; ma già Cass., sez. un., 22 luglio 2014, n. 16627).

Infatti, nel procedimento RG. 16/20 deciso il 112.2020 il Tribunale di Roma, ha ritenuto non potersi qualificare "causa pendente" tra ricusato e ricusante, ai sensi dell'art. 51, n. 3, c.p.c., il giudizio di responsabilità di cui alla l. 117/1988, pur risultando pendente dinanzi al Tribunale di Perugia un giudizio promosso dal ricusante nei confronti della Presidenza del Consiglio dei Ministri ai sensi della l. 117/1988, al fine di ottenere il risarcimento dei danni provocati dalle decisioni e dal contegno processuale del giudice ricusato.

Ancora, sempre il Tribunale di Roma, nel proc RG. 14/20, deciso il 1.12.2020 ha ritenuto che in tema non possa qualificarsi come "causa pendente" tra ricusato e ricusante, ai sensi dell'art. 51, n. 3, c.p.c., il procedimento disciplinare instaurato nei confronti del difensore da parte dell'Ordine professionale di appartenenza su segnalazione del magistrato.

Art.51,comma I, n. 4 c.p.c.: la violazione della regola dell'alterità del giudice rispetto alla causa e ad un provvedimento da riesaminare

La giurisprudenza – vedi Cass. Civ. sez. II, Ordinanza interlocutoria n. 2593 del 10/02/2015 – è costante nell'affermare che «L'obbligo del giudice di astenersi, previsto dall'art. 51, primo comma, n. 4, c.p.c., si riferisce ai casi in cui egli abbia conosciuto della causa in altro grado del processo, e non anche ai casi in cui lo stesso abbia trattato di una causa diversa vertente su un oggetto analogo, ancorché tra le stesse parti, né in tale ipotesi sussistono gravi ragioni di convenienza rilevanti come motivo di ricusazione»: e così per tutti i casi in cui non possa configurarsi tra i due giudizi decisi dal medesimo magistrato, due gradi del medesimo (cfr. Cass. civ., sez. V, ord., 2 febbraio 2021, n. 2248).

Infatti la norma è volta ad assicurare la necessaria alterità del giudice chiamato a decidere, in sede di impugnazione, sulla medesima "res iudicanda" in un unico processo; ne consegue che l'obbligo non può essere inteso nel senso di operare in un nuovo e distinto procedimento, ancorché riguardante le stesse parti e pur se implicante la risoluzione di identiche questioni (Cass. civ., sez. II, ord., 5 giugno 2019, n. 15268).

Come osservato dalla Suprema Corte, ai fini della ricusazione del giudice civile ex artt. 51, primo comma, nn. 3 e 4, e 52 c.p.c., non costituisce grave inimicizia, né espressione o anticipazione di giudizio sul merito della controversia e neppure cognizione di essa in altro grado la pronunzia di precedenti provvedimenti sfavorevoli, quand'anche ritenuti erronei o manifestamente tali, resi in procedimenti separati o connessi in danno della medesima parte, ove non si alleghi e si provi l'esistenza di ragioni di rancore o di avversione diverse ed esterne alla causa, che si fondino su dati di fatto concreti e precisi, estranei alla realtà processuale ed autonomi rispetto ad essa, potendo quest'ultima costituire unicamente un elemento sintomatico della sussistenza del presupposto di fatto rilevante per la ricusazione. (Cass. civ., sez. VI, ord., 24 novembre 2014, n. 24934).

La casistica di merito evidenzia come spesso la ricusazione nasconde la censura nel merito dei provvedimenti istruttori o interlocutori pronunciati dal giudice in corso di causa. Tuttavia, ove i rilievi sollevati abbiano esclusiva valenza endo-processuale, essi devono essere esaminati e risolti facendo uso degli strumenti di rito all'uopo previsti all'interno del procedimento, non incidendo per altro verso sugli aspetti più generali disciplinati dagli artt. 51 e ss. c.p.c. come nell'ipotesi affrontata dal Tribunale di Roma nel procedimento Rg. 24/21 deciso in data 21.9.21 relativa al caso di un magistrato che, nel corso della trattazione del procedimento, aveva ripetutamente respinto l'istanza ex art. 648 c.p.c. avanzata dalla ricusante e, perciò, reso destinatario di una istanza di ricusazione (parimenti del procedimento Rg. 11/21 deciso dal Tribunale di Roma in data 21.6.21).

Neanche la circostanza che il medesimo magistrato abbia svolto funzioni di Pubblico Ministero dinanzi ad altro tribunale in un procedimento che aveva visto imputato il ricusante (poi prosciolto per prescrizione del reato) è stato ritenuto dal Tribunale di Roma (ordinanza del 30.11.21 nel proc. RG. 34/21) come integrante l'ipotesi di cui al n. 4 dell'art. 51.

Tra i due giudizi – ha motivato il Tribunale capitolino - che hanno visto la partecipazione (peraltro in veste diversa) del medesimo magistrato, non possono individuarsi due gradi del medesimo giudizio .

Tanto più quando non si allega l'esistenza di ragioni di rancore o di avversione diverse ed esterne alla causa, che si fondino su dati di fatto concreti e precisi, estranei alla realtà processuale ed autonomi rispetto ad essa (cfr. Cass. civ., sez. VI, ord., 24 novembre 2014, n. n. 24934, cit.).

Nel giudizio di ricusazione RG. 34/2021 all'esame del Tribunale di Roma, l'istante, quale parte resistente nell'ambito di un procedimento di separazione giudiziale, aveva presentato istanza di ricusazione nei confronti del giudice in servizio presso la I^ sezione civile, esponendo che il magistrato, nel corso della trattazione del procedimento, pur esercitando le funzioni di Presidente f.f. nella fase presidenziale del giudizio di separazione giudiziale e nonostante le anticipazioni istruttorie trasfuse in una ordinanza di emissione dei provvedimenti provvisori ed urgenti, aveva nominato sé stesso quale giudice istruttore del processo, in palese violazione della bifasicità del procedimento e negando all'istante, si sosteneva, il diritto all'imparzialità del giudice.

Il Tribunale di Roma, richiamando anche un precedente in tema del Tribunale di Ferrara del 20.06.2002, ha ritenuto, con provvedimento reso in data 30.11.21, che non potesse rientrare «nelle ipotesi di astensione obbligatoria di cui all'art. 51, primo comma, n. 4, c.p.c. il magistrato che dopo aver svolto le funzioni di Presidente ed emesso i relativi provvedimenti provvisori nell'udienza iniziale del procedimento di separazione dei coniugi, abbia nominato se stesso Giudice Istruttore per la fase successiva del procedimento stesso» risultando tale nomina «conforme ai criteri tabellari in vigore nel Tribunale e, peraltro, non rientra in nessuna delle ipotesi suindicate, né risultano dedotte ragioni di rancore o di avversione esterne alla controversia)».

La Corte di appello Genova sez. I, 29/11/2021, n.87 ha ritenuto che «Rispetto al giudice dell'istruttoria prefallimentare che abbia segnalato al P.M. uno stato di insolvenza della società nell'ambito di alcune procedure esecutive, non si pone un problema di ricusabilità , non essendo la segnalazione un provvedimento a contenuto decisorio (art. 51 co. 1 n. 4 c.p.c.. Infatti, come affermato dalla Suprema Corte nella sentenza n. 9857/2012 «la trasmissione al pubblico ministero della notitia decotionis emersa nel corso del procedimento non è un atto avente contenuto decisorio, neppure come precipitato di una cognizione di tipo sommario e non incide - né direttamente, né indirettamente - sui diritti di alcuno mentre il giudice che a ciò procede non fa altro che esercitare il potere-dovere di denunzia di fatti che prima facie gli appaiano potenzialmente lesivi dell'interesse pubblico ad eliminare dal sistema economico i focolai d'insolvenza. Trattandosi di un atto "neutro", privo di specifica valenza procedimentale o decisoria, "il cui impulso riposa su una valutazione estemporanea, che non vincola nessuno", la valutazione decisoria del tribunale non è tecnicamente "pregiudicata" dall'avvenuta segnalazione, perché il tribunale, all'esito dell'istruttoria prefallimentare, può rigettare con decreto la richiesta del pubblico ministero. La natura di valutazione prima facie dell'insolvenza e il potere esercitato dal tribunale fallimentare a seguito di cognizione piena, se del caso difformemente da quella prima valutazione, sta a confermare, semmai, la terzietà dell'organo giudicante».

La S.C. ha ulteriormente delineato i contorni della ipotesi di cui al n.4 dell'art. 51 nella sentenza n. 25847 del 21/09/2021: il giudice che abbia partecipato soltanto all'attività istruttoria nel corso del giudizio di primo grado, senza poi prender parte alla decisione della causa, non ha alcuna incompatibilità a comporre il collegio giudicante in secondo grado e non è, pertanto, gravato dal dovere di astensione ex art. 51, n. 4, c.p.c. , dovendosi la conoscenza della causa come magistrato in altro grado di giudizio riferire alla partecipazione alla decisione di merito e non ad atti istruttori nel giudizio di prime cure.

Parimenti in Cass. civ., sez. II, 5 giugno 2019, n. 15268 si trova ribadito il principio per cui l'obbligo di astensione sancito dall' art. 51, comma 1, n. 4, c.p.c. si impone solo al giudice che abbia conosciuto della stessa causa come magistrato in altro grado, posto che la norma è volta ad assicurare la necessaria alterità del giudice chiamato a decidere, in sede di impugnazione, sulla medesima res iudicanda in un unico processo; ne consegue che l'obbligo non può essere inteso nel senso di operare in un nuovo e distinto procedimento, ancorché riguardante le stesse parti e pur se implicante la risoluzione di identiche questioni. (Nella specie, la S.C. ha escluso la ricorrenza di un caso di astensione obbligatoria con riferimento al giudice istruttore di un giudizio di divisione, il quale sia era in precedenza pronunziato in un giudizio penale a carico di una delle parti parte, peraltro in relazione al delitto di lesioni volontarie in danno dell'altra parte).

Con riferimento all'ipotesi di ricusazione «per aver dato consiglio nella causa» in Cass. civ., sez. un., 4 agosto 2021, n. 22302 vengono delineati i confini.

La S.C. , sia pure con riferimento al procedimento disciplinare a carico di magistrati, cui si applicano, quanto ai membri del CSM, - le disposizioni processuali in tema di ricusazione ha precisato che, al fine di integrare il motivo di cui al n. 4 dell'art. 51 per avere il giudice "dato consiglio nella causa", occorre che il "consiglio «sia rivolto alla parte ed alimentato da una concreta base informativa e si esprima sugli esiti della specifica controversia, sia pure senza assumere i caratteri di un responso dalla particolare valenza tecnica». (Nella fattispecie, la S.C. ha escluso che un componente della Sezione disciplinare del CSM - nell'ambito di un colloquio con un magistrato che non aveva rivestito la qualità di parte nel procedimento disciplinare né all'epoca dei fatti, né successivamente - avesse prestato consiglio sulla vicenda, sia perché le dichiarazioni rese erano generiche e si collocavano su un piano di mera acquisita conoscenza di una porzione soltanto dei fatti, sia perché le esternazioni non prefiguravano possibili esiti o sviluppi del procedimento a carico dell'incolpato).

Riferimenti
  • Panzarola, La ricusazione del giudice civile, Bari 2008;
  • Satta, Astensione del giudice, in Enc. del dir., vol. III, Milano, 1959, 952 e ss.
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