Bancarotta fraudolenta: la Corte costituzionale non è riuscita a mettere la parola “fine” sulla durata delle pene accessorie

13 Settembre 2019

A seguito della sentenza della Corte costituzionale n.222/2018 che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 216, ult. comma, l. fall., nella parte in cui prevedeva la durata fissa delle pene accessorie nella misura di anni dieci, si è aperto all'interno della Corte di cassazione un contrasto sulla disciplina da applicare, ossia se...
1.

A seguito della sentenza della Corte costituzionale n.222/2018 che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 216, ult. comma, l. fall., nella parte in cui prevedeva la durata fissa delle pene accessorie nella misura di anni dieci, si è aperto all'interno della Corte di cassazione un contrasto sulla disciplina da applicare, ossia se fare richiamo alla regola generale prevista dall'art. 37 c.p. oppure se dare seguito alle indicazioni della Consulta che, in motivazione, ha optato per un sistema di sanzioni accessorie con durata variabile a seconda della gravità delle condotte illecite.

La sentenza della Corte costituzionale. Prima di dar conto dell'ordinanza di rimessione della questione alle Sezioni unite appare opportuno ricostruire i vari passaggi che hanno condotto ad investire il massimo Collegio del tema della durata delle pene accessorie previste per la bancarotta fraudolenta.

Come è noto (si veda CORUCCI, Bancarotta fraudolenta: incostituzionale la durata fissa e indifferenziata delle pene accessorie) la questione della legittimità costituzionale, in riferimento soprattutto agli artt. 3 e 27 della Costituzione, della durata fissa delle pene accessorie previste dagli artt. 216 e 223 legge fallimentare per i reati di bancarotta fraudolenta, ha trovato per ultimo soluzione con la sentenza della Corte costituzionale n. 222 del 25 settembre 2018, che, ribaltando la sua precedente decisione di inammissibilità della questione assunta dalla sentenza n. 134 del 2012, ha dichiarato invece, un po' a sorpresa, l'illegittimità costituzionale dell'art.216, ult. comma, legge fallimentare (richiamato dall'art. 223, ult. comma, l. fall., per le ipotesi di bancarotta c.d. societaria), nella parte in cui disponeva: «la condanna per uno dei fatti previsti dal presente articolo importa per la durata di dieci anni l'inabilitazione all'esercizio di una impresa commerciale e l'incapacità per la stessa durata ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa», anziché: «la condanna per uno dei fatti previsti dal presente articolo importa l'inabilitazione all'esercizio di una impresa commerciale e l'incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa fino a dieci anni».

La Consulta ha motivato tale decisione ricordando che la discrezionalità propria del legislatore nel determinare le sanzioni, sia penali sia amministrative, «[] incontra il proprio limite nella manifesta irragionevolezza delle scelte legislative, limite che – in subiecta materia – è superato allorché le pene comminate appaiano manifestamente sproporzionate rispetto alla gravità del fatto previsto quale reato. In tal caso, si profila infatti una violazione congiunta degli artt. 3 e 27 Cost., giacché una pena non proporzionata alla gravità del fatto (e non percepita come tale dal condannato) si risolve in un ostacolo alla sua funzione rieducativa». Fatta questa premessa la Corte costituzionale ha quindi affermato che la durata fissa di dieci anni delle pene accessorie in questione non può ritenersi «ragionevolmente proporzionata rispetto all'intera gamma di comportamenti riconducibili allo specifico tipo di reato». Sul punto ha osservato che, anzitutto, l'art. 216 della legge fallimentare raggruppa una pluralità di fattispecie che, già a livello astratto, sono connotate da ben diverso disvalore, come dimostrano i relativi quadri sanzionatori previsti dal legislatore: reclusione da tre a dieci anni per i fatti previsti dal primo e secondo comma; reclusione da uno a cinque anni per gli assai meno gravi fatti (quelli di bancarotta cosiddetta preferenziale) previsti dal terzo comma.

È stato altresì osservato che anche all'interno delle singole figure di reato previste in astratto da ciascun comma, nonché di quelle previste dall'art. 223, secondo comma, della legge fallimentare, la gravità dei fatti concreti a esse riconducibili può essere marcatamente differente, in relazione se non altro alla gravità del pericolo di frustrazione delle ragioni creditorie (in termini sia di probabilità di verificazione del danno, sia di entità del danno medesimo, anche in termini di numero delle persone offese) creato con la condotta costitutiva del reato. La durata delle pene accessorie temporanee comminate dall'art. 216, ultimo comma, l. fall. restava invece indefettibilmente determinata in dieci anni, quale che fosse la qualificazione astratta del reato ascritto all'imputato (ai sensi del primo, del secondo o del terzo comma dello stesso art. 216 l. fall.), e quale che fosse la gravità concreta delle condotte costitutive di tale reato; e restava, altresì, insensibile all'eventuale sussistenza delle circostanze aggravanti o attenuanti previste dall'art. 219 della medesima legge, le quali pure determinano variazioni significative della pena edittale, potendo determinare un abbassamento del minimo sino a due anni (ulteriormente riducibili in caso di scelta di riti alternativi da parte dell'imputato), ovvero un innalzamento del massimo sino a quindici anni di reclusione.

La sentenza ha concluso perciò il suo argomentare affermando: «Una simile rigidità applicativa non può che generare la possibilità di risposte sanzionatorie manifestamente sproporzionate per eccesso– e dunque in contrasto con gli artt. 3 e 27 Cost. – rispetto ai fatti di bancarotta fraudolenta meno gravi; e appare comunque distonica rispetto al menzionato principio dell'individualizzazione del trattamento sanzionatorio»; in sostanza non ha ritenuto conforme ai principi di individualizzazione del trattamento sanzionatorio sanciti nella Carta costituzionale il rigido automatismo previsto dall'originario ultimo comma dell'art. 216 l. fall.

La Consulta infine, per risolvere il problema dell'eventuale vuoto normativo e spiegare il mutamento di posizione rispetto alla sentenza n. 134 del 2012, ha affermato che è «essenziale, e sufficiente, a consentire il sindacato della Corte costituzionale sulla congruità del trattamento sanzionatorio previsto per una determinata ipotesi di reato è che il sistema nel suo complesso offra alla Corte «precisi punti di riferimento» e soluzioni «già esistenti» (sentenza n. 236 del 2016) – esse stesse immuni da vizi di illegittimità, ancorché non “costituzionalmente obbligate” – che possano sostituirsi alla previsione sanzionatoria dichiarata illegittima». Nell'ordinamento penale certamente vi sono altre discipline vigenti per la determinazione della durata delle pene accessorie temporanee, tra cui in primo luogo la regola generale dettata dall'art. 37 c.p. che distingue a seconda che la durata delle pene accessorie sia espressamente determinata dalla legge, disponendo che in caso negativo essa segua quella della pena principale. Tuttavia quanto all'applicabilità dell'art. 37 c.p. alle pene accessorie previste per i reati di cui agli artt. 216 e 223 l. fall., la Consulta ha sostenuto che: «Fermo restando che «la valutazione del modo in cui il sistema normativo reagisce ad una sentenza costituzionale di accoglimento […] spetta al giudice del processo principale, unico competente a definire il giudizio da cui prende le mosse l'incidente di costituzionalità» (sentenza n. 28 del 2010), a parere di questa Corte la regola residuale di cui all'art. 37 c.p. continuerà dunque a non operare rispetto all'art. 216, ultimo comma, della legge fallimentare – come risultante dalla presente pronuncia –, dal momento che tale regola ha come suo presupposto operativo che la durata della pena accessoria temporanea non sia espressamente determinata dalla legge. L'esistenza di una lex specialis, in effetti, esclude l'operatività del criterio residuale di cui all'art. 37 c.p.», indicando quindi in motivazione la netta preferenza per un sistema di determinazione delle pene accessorie autonomo rispetto alla pena principale, purché ovviamente entro il limite massimo di dieci anni. Le ragioni poste a base della decisione, sia pur espresse sinteticamente, sono sostanzialmente due: 1. le pene accessorie derivanti dalla dichiarazione di illegittimità costituzionale sono da considerare come espressamente determinate dalla legge; 2. la disciplina dei reati fallimentari è da ritenere lex specialis, quindi in grado di derogare alla regola generale prevista dall'art. 37 c.p.

Il contrasto all'interno della Corte di cassazione. La Corte costituzionale ha però (volutamente?) ignorato la giurisprudenza della Corte di cassazione che in tema di materia di pene accessorie ha da tempo composto il contrasto interpretativo, in particolare con la sentenza Cass. pen., Sez. unite, 27 novembre 2014 (dep. 12 febbraio 2015), n. 6240, imp. B., che ha affermato in massima il seguente principio: «Sono riconducibili al novero delle pene accessorie la cui durata non è espressamente determinata dalla legge penale quelle per le quali sia previsto un minimo e un massimo edittale ovvero uno soltanto dei suddetti limiti, con la conseguenza che la loro durata deve essere dal giudice uniformata, ai sensi dell'art. 37 c.p., a quella della pena principale inflitta». In base a quest'ultimo principio alle pene accessorie dell'art. 216, ult. comma, l. fall., dovrebbe trovare perciò applicazione l'art. 37 c.p., poiché le stesse non possono essere ricomprese tra le pene accessorie espressamente determinate dalla legge, essendo fissato solo il limite massimo di dieci anni.

Si è quindi palesato un evidente contrasto tra la sentenza della Corte costituzionale (rectius la sua motivazione, che non è però vincolante per i giudici) e la giurisprudenza delle Sezioni unite della Cassazione, antecedente però alla decisione della Consulta : secondo la prima non dovrebbe trovare applicazione la disciplina dell'art.37 c.p., mentre per i giudici di legittimità in un caso del genere la norma codicistica troverebbe invece applicazione.

A seguito della sentenza Corte cost. n.222/2018 anche all'interno della Cassazione le posizioni si sono però subito differenziate, giacché non era possibile ignorare l'invito fatto dal giudice delle leggi a non applicare alle pene accessorie della bancarotta fraudolenta alcun automatismo, neppure quello previsto dall'art. 37 c.p.

E allora un primo orientamento, espresso dalla sentenza Cass. pen., Sez. V, 7 dicembre 2018 (dep. 16 gennaio 2019), n. 1968, Montoleone (conf. Cass. pen., Sez. V, 7 dicembre 2018, n.1963, Piermartini) ha affermato che: «In tema di bancarotta fraudolenta, le pene accessorie previste dall'art. 216, ult. comm., l. fall., nella formulazione derivata dalla sentenza della Corte costituzionale n. 222 del 2018, devono essere commisurate alla durata della pena principale, in quanto, essendo determinate solo nel massimo, sono soggette alla disciplina di cui all'art. 37 c.p. (In applicazione del principio la Corte, riconoscendo d'ufficio l'illegalità delle pene accessorie irrogate prima della declaratoria di illegittimità costituzionale dell'art. 216, ult. comm., l. fall., ha annullato senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente alla durata delle pene accessorie, che è stata quindi rideterminata in quella corrispondente alla pena principale inflitta all'imputato)».

La suddetta decisione ha puntualizzato che il punto di vista della Corte costituzionale, pur considerando la massima autorevolezza dell'organo, non è vincolante, e che invece debba rilevarsi come – anche alla luce della citata pronuncia delle Sezioni unite n. 6240/2015 e della giurisprudenza di legittimità ad essa successiva – le pene accessorie comminate per i reati fallimentari e determinate solo nel massimo (secondo la formula “fino a ...”) sono ricondotte dal diritto vivente alla disciplina prevista dall'art. 37 c.p., sicché non è dato rinvenire un riscontro alla considerazione di tali comminatorie edittali in termini di lex specialis rispetto alla disciplina generale. La nuova formulazione dell'ultimo comma dell'art. 216 l.fall., come derivata dalla parziale declaratoria di illegittimità costituzionale statuita dalla sentenza n. 222 del 2018, è del tutto analoga alla comminatoria della pena accessoria della bancarotta semplice (art.217 l. fall.) e del ricorso abusivo al credito (art. 218l. fall.), reati per i quali una consolidata interpretazione della Cassazione ha ritenuto che le pene accessorie devono essere commisurate alla durata della pena principale a norma dell'art. 37 c.p.

Un secondo indirizzo rinvenibile nella sentenza Cass. pen., Sez. V, 29 gennaio 2019 (dep. 6 febbraio 2019), n. 5882, Baù + altro (conf. Cass. pen., Sez. V, 14 dicembre 2018, n.6115 Cass. pen., Sez. V, 20 dicembre 2018, n.4780), ha invece sostenuto, in linea con le argomentazione della Corte costituzionale, che: «In tema di bancarotta fraudolenta, la durata delle pene accessorie previste dall'art. 216, ult. comma, l. fall., nella formulazione derivata dalla sentenza della Corte costituzionale n.222 del 2018, non necessariamente deve essere parametrata alla stessa durata della pena principale ai sensi dell'art. 37 c.p., in quanto i principi di proporzionalità e di individualizzazione del trattamento sanzionatorio, posti alla base della decisione di illegittimità costituzionale, non consentono di applicare alcun tipo di automatismo sanzionatorio. (In applicazione del principio la Corte, riconoscendo d'ufficio l'illegalità delle pene accessorie irrogate prima della declaratoria di illegittimità costituzionale dell'art. 216, ult. comma, l. fall., ha annullato con rinvio la sentenza impugnata limitatamente al punto delle pene accessorie, al fine di consentire al giudice di merito di stabile la durata delle stesse, trattandosi di giudizio, che implicando valutazioni discrezionali, è sottratto al giudice di legittimità)». È stato osservato che se gli automatismi contrastano con i principi costituzionali di proporzionalità della pena e di individualizzazione del trattamento sanzionatorio, diventa "sospetta" sotto il profilo della compatibilità con la Costituzione anche la regola dettata dall'art. 37 c.p., ove intesa come unica soluzione possibile; la disciplina prevista dall'art.37 c.p. nel caso di pene accessorie non espressamente fissate dalla legge, non lascerebbe infatti al giudice quel margine di discrezionalità ritenuto necessario nella prospettiva di assegnare alle pene accessorie una funzione almeno in parte distinta rispetto a quella delle pene detentive, e marcatamente orientata alla prevenzione speciale per quel tipo di reati, in cui piuttosto che la pena detentiva appare più efficace impedire al reo di continuare a svolgere attività di impresa.

Il dubbio sull'applicabilità o meno dell'automatismo previsto dall'art. 37 c.p., ha comportato delle conseguenze anche in sede di legittimità, nel senso che di fronte ad una pena accessoria illegale, perché irrogata ai sensi della originaria formulazione dell'art. 216, ult. comma, l. fall., la Cassazione si è trovata nell'incertezza se annullare con o senza rinvio al giudice di merito le sentenze di condanna portate alla sua cognizione al fine di rideterminare le pene accessorie.

2.

Di fronte a tutte queste incertezze è apparso subito come fosse inevitabile la rimessione della questione alle Sezioni unite, considerato anche che il contrasto non aveva una portata limitata alla sola disciplina dell'art. 216, ult. comma, l. fall., ma andava a interessare l'intera tematica della durata delle pene accessorie, già oggetto del precedente intervento del massimo Collegio con la più vote citata sentenza Cass. pen., Sez. unite n.6240/2015.

Ed infatti con l'ordinanza Cass. pen., Sez. V, 12 dicembre 2018, n. 56458, Suraci e altri, è stata subito rimessa alle Sezioni unite la questione, con indicazione del seguente quesito: se le pene accessorie previste per il reato di bancarotta fraudolenta a norma dell'art. 216, ult. comma, l. fall., come riformulato a opera della sentenza n.222 del 2018 della Corte cost., con sentenza dichiarativa di illegittimità costituzionale, mediante l'introduzione della previsione della sola durata massima fino a dieci anni, debbano considerarsi pene con durata non espressamente “predeterminata” e quindi ricadere nella regola generale di computo di cui all'art. 37 c.p. (che prevede la commisurazione della pena accessoria non predeterminata alla pena principale inflitta).

La predetta ordinanza ha quindi evidenziato che la motivazione della sentenza della Corte costituzionale n.122/2018 conduce certamente a ritenere che l'opzione preferita dalla Consulta è quella che permetta di calibrare autonomamente la pena accessoria, indipendentemente dalla commisurazione della pena principale, pur sempre in applicazione dei criteri orientativi espressi dall'art. 133 c.p., con un distinto giudizio collegato al diverso grado di afflittività e alla diversa finalità della sanzione, con la conseguente non applicabilità dell'automatismo contenuto nell'art. 37 c.p. Il Collegio remittente ha mostrato però consapevolezza che tali conclusioni sarebbero potute però conseguire a due diversi percorsi argomentativi: l'uno, basato su di una completa rivisitazione delle interpretazioni ispiratrici della sentenza Cass. pen., Sez. unite, n.6240/2015, l'altro, più selettivamente, rivolto a sottrarre dalla disciplina dell'art.37 c.p. solo le specifiche pene accessorie scaturenti dalla formulazione dell'art.216, ult.comma, l. fall., così come ridisegnato dal Giudice delle leggi.

L'udienza fissata per il prossimo 28 febbraio dovrà quindi affrontare la questione in un'ottica complessiva che tenga conto da un lato delle indicazioni fornite dalla Consulta e dall'altro della precedente decisione, piuttosto recente, delle stesse Sezioni unite.

3.

Il Primo Presidente della Cassazione penale ha fissato per il 28 febbraio 2019 l'udienza davanti alle Sezioni unite per isolvere la questione controvera in giurisprudenza

«Se le pene accessorie previste per il reato di bancarotta fraudolenta ex art. 216 legge fall., come riformulato all'esito della sentenza n. 222 del 5 dicembre 2018 della Corte Costituzionale, siano riconducibili alle pene di durata non espressamente determinata di cui all'

art. 37 c.p.

, con conseguente commisurazione della stessa a quella della pena principale irrogata, ovvero siano, a fronte del limite edittale risultante dalla nuova formulazione, di durata predeterminata, con conseguente facoltà del giudice di esercizio dei poteri di determinazione in concreto della durata stessa ex art. 133 c.p.»

4.

Sulle pene accessorie della bancarotta le Sezioni unite seguono le indicazioni della Corte costituzionale, modificando così il proprio precedente orientamento.

Le Sezioni unite erano state investite della questione se le pene accessorie previste per il reato di bancarotta fraudolenta a norma dell'art. 216, ult. comma, l. fall., come riformulato ad opera della sentenza n. 222 del 2018 della Corte cost., con sentenza dichiarativa di illegittimità costituzionale, mediante l'introduzione della previsione della sola durata massima “fino a dieci anni”, debbano considerarsi pene con durata non espressamente “predeterminata” e quindi ricadere nella regola generale di computo di cui all'art. 37 c.p. (che prevede la commisurazione della pena accessoria non predeterminata alla pena principale inflitta), ovvero se esse debbano essere determinate dal giudice, nell'ambito dei limiti editali risultanti dalla nuova formulazione, in base ai criteri di cui all'art. 133 c.p.

La decisione assunta dal massimo Collegio in data 28 febbraio 2019 è stata comunicata con la seguente informazione provvisoria:

«Le pene accessorie previste dall'art. 216 l. fall., nel testo riformulato dalla sentenza n. 222 del 2018 della Corte costituzionale, così come le altre pene accessorie per le quali la legge indica un termine di durata non fissa, devono essere determinate in concreto dal giudice in base ai criteri di cui all'art. 133 c.p.». È stata quindi negata l'applicabilità alle pene accessorie della bancarotta fraudolenta dell'automatismo indicato dalla regola generale di cui all'art. 37 c.p. di cui sopra.

In attesa del deposito della motivazione si può già evidenziare che le Sezioni unite hanno ritenuto di seguire la tesi sostenuta dalla Consulta nell'ambito della motivazione della sentenza di illegittimità costituzionale, ossia di individualizzare di volta in volta la durata delle pene accessorie in base ai criteri indicati dall'art. 133 c.p., modificando così quanto però era stato deciso dalla sentenza Sez. unite, n. 6240/2015 del 27 novembre 2014 (dep. 12 febbraio 2015), imp. B., in tema di individuazione delle pene accessorie che non hanno una durata espressamente determinata dalla legge.

A seguito della decisione assunta dalle Sezioni unite dovranno essere rideterminate con incidente di esecuzione tutte le pene accessorie irrogate in forza della norma poi dichiarata illegittima, in quanto, come è noto, la sentenza di incostituzionalità rende le pene illegali ex tunc e travolge il giudicato sul punto.

Nei giudizi pendenti invece davanti alla Cassazione la Corte dovrà procedere anche d'ufficio all'annullamento, sul punto pene accessorie delle sentenze di condanna, con rinvio al giudice di merito, in quanto la rideterminazione delle pene accessorie, in assenza dell'automatismo previsto dall'art. 37 c.p., è compito riservato al giudice di merito che valuterà caso per caso.

4.

Le Sezioni Unite riscrivono la disciplina della durata delle pene accessorie in termini generali partendo da quelle della bancarotta fraudolenta.

Le Sezioni unite della Cassazione, seguendo le indicazioni contenute nella motivazione della sentenza della Corte costituzionale n. 222/2018 che ha dichiarato parzialmente illegittimo l'art. 216, ult. comma, l. fall., hanno affermato che le pene accessorie (tra cui quelle previste per il delitto di bancarotta fraudolenta) per le quali la legge indica un termine di durata non fissa, devono essere determinate in concreto dal giudice in base ai criteri di cui all'art. 133 c.p., superando così il proprio precedente orientamento sostenuto dalla sentenza Cass. pen., Sez.un. n.6240/2015.

A seguito della sentenza della Corte costituzionale n.222/2018 che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 216, ult. comma, l. fall., nella parte in cui prevedeva la durata fissa delle pene accessorie nella misura di anni dieci, si è aperto all'interno della Corte di Cassazione un contrasto sulla disciplina da applicare, ossia se fare richiamo alla regola generale prevista dall'art. 37 c.p. oppure se dare seguito alle indicazioni della Consulta che, in motivazione, ha optato per un sistema di sanzioni accessorie con durata variabile a seconda della gravità delle condotte illecite.

Ed allora un primo orientamento, espresso dalla sentenza Cass. pen., Sez. V, 7 dicembre 2018, n.1968, Montoleone (conf. Cass. pen., Sez. V, 7 dicembre 2018, n.1963, Piermartini) ha affermato che: «In tema di bancarotta fraudolenta, le pene accessorie previste dall'art. 216, ult. comm., legge fall., nella formulazione derivata dalla sentenza della Corte costituzionale n. 222 del 2018, devono essere commisurate alla durata della pena principale, in quanto, essendo determinate solo nel massimo, sono soggette alla disciplina di cui all'art. 37 c.p. (in applicazione del principio la Corte, riconoscendo d'ufficio l'illegalità delle pene accessorie irrogate prima della declaratoria di illegittimità costituzionale dell'art. 216, ultimo comma, legge fall., ha annullato senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente alla durata delle pene accessorie, che è stata quindi rideterminata in quella corrispondente alla pena principale inflitta all'imputato)».

La suddetta decisione ha puntualizzato che il punto di vista della Corte costituzionale, pur considerando la massima autorevolezza dell'organo, non è vincolante, e che invece debba rilevarsi come - anche alla luce della citata pronuncia delle Sezioni unite n. 6240/2015 e della giurisprudenza di legittimità ad essa successiva - le pene accessorie comminate per i reati fallimentari e determinate solo nel massimo (secondo la formula «fino a ...») sono ricondotte dal diritto vivente alla disciplina prevista dall'art. 37 c.p., sicché non è dato rinvenire un riscontro alla considerazione di tali comminatorie edittali in termini di lex specialis rispetto alla disciplina generale. La nuova formulazione dell'ultimo comma dell'art. 216, come derivata dalla parziale declaratoria di illegittimità costituzionale statuita dalla sentenza n. 222 del 2018, è del tutto analoga alla comminatoria della pena accessoria della bancarotta semplice (art.217, l. fall.) e del ricorso abusivo al credito (art.218 l. fall.), reati per i quali una consolidata interpretazione della Cassazione ha ritenuto che le pene accessorie devono essere commisurate alla durata della pena principale a norma dell'art. 37 c.p.

Un secondo indirizzo rinvenibile nella sentenza Cass. pen., Sez.V, n.5882 del 29 gennaio 2019, Baù + altro(conf. Cass. pen., Sez. V, 14 dicembre 2018, n.6115; Cass. pen., Sez. V, 20 dicembre 2018, n.4780), ha invece sostenuto, in linea con le argomentazione della Corte costituzionale, che: «In tema di bancarotta fraudolenta, la durata delle pene accessorie previste dall'art. 216, ult. comma, legge fall., nella formulazione derivata dalla sentenza della Corte costituzionale n.222 del 2018, non necessariamente deve essere parametrata alla stessa durata della pena principale ai sensi dell'art. 37 c.p., in quanto i principi di proporzionalità e di individualizzazione del trattamento sanzionatorio, posti alla base della decisione di illegittimità costituzionale, non consentono di applicare alcun tipo di automatismo sanzionatorio. (In applicazione del principio la Corte, riconoscendo d'ufficio l'illegalità delle pene accessorie irrogate prima della declaratoria di illegittimità costituzionale dell'art. 216, ult. comma, legge fall., ha annullato con rinvio la sentenza impugnata limitatamente al punto delle pene accessorie, al fine di consentire al giudice di merito di stabile la durata delle stesse, trattandosi di giudizio, che implicando valutazioni discrezionali, è sottratto al giudice di legittimità)».

Con l'ordinanza Sezione V, 12 dicembre 2018, n. 56458, Suraci e altri, è stata rimessa alle Sezioni Unite la questione, con formulazione del seguente quesito: se le pene accessorie previste per il reato di bancarotta fraudolenta a norma dell'art. 216, ult. comma, l. fall., come riformulato ad opera della sentenza n.222 del 2018 della Corte Cost., con sentenza dichiarativa di illegittimità costituzionale, mediante l'introduzione della previsione della sola durata massima “fino a dieci anni”, debbano considerarsi pene con durata non espressamente “predeterminata” e quindi ricadere nella regola generale di computo di cui all'art. 37 c.p. (che prevede la commisurazione della pena accessoria non predeterminata alla pena principale inflitta).

La predetta ordinanza aveva quindi evidenziato che la motivazione della sentenza della Corte costituzionale n.222/2018 conduce certamente a ritenere che l'opzione preferita dalla Consulta è quella che permetta di calibrare autonomamente la pena accessoria, indipendentemente dalla commisurazione della pena principale, pur sempre in applicazione dei criteri orientativi espressi dall'art. 133 c.p., con un distinto giudizio collegato al diverso grado di afflittività e alla diversa finalità della sanzione, con la conseguente non applicabilità dell'automatismo contenuto nell'art. 37 c.p. Il Collegio remittente aveva mostrato però consapevolezza che tali conclusioni sarebbero potute però conseguire a due diversi percorsi argomentativi: l'uno, basato su di una completa rivisitazione delle interpretazioni ispiratrici della sentenza Cass. pen., Sez. Unite, n.6240/2015, l'altro, più selettivamente, rivolto a sottrarre dalla disciplina dell'art.37 c.p. solo le specifiche pene accessorie scaturenti dalla formulazione dell'art.216, ult.comma, legge fall., così come ridisegnato dal Giudice delle leggi.

Come accennato sopra il tema della durata delle pene accessorie era stato di recente affrontato in termini generali dalle Sezioni Unite che, con la già citata sentenza n. 6240/2015, avevano all'epoca affermato il principio secondo cui sono riconducibili al novero delle pene accessorie la cui durata non è espressamente determinata dalla legge penale quelle per le quali sia previsto un minimo e un massimo edittale ovvero uno soltanto dei suddetti limiti, con la conseguenza che la loro durata deve essere dal giudice uniformata, ai sensi dell'art. 37 c.p., a quella della pena principale inflitta. In base al predetto principio alle pene accessorie dell'art. 216, ult. comma, legge fall., si sarebbe dovuto perciò applicare l'art. 37 c.p., poichè le stesse non possono essere ricomprese tra le pene accessorie espressamente determinate dalla legge, essendo ora (a seguito della sentenza Corte cost. 222/2018) fissato solo il limite massimo di dieci anni.

Tale importante arresto giurisprudenziale è stato però di fatto ignorato dalla Corte costituzionale che, nel dichiarare l'illegittimità dell'art. 216, ult. com., l. fall., ha invece seguito un diverso percorso interpretativo volto ad escludere l'automatismo pena principale/pena accessoria contenuto dall'art.37 c.p.

Le Sezioni Unite con una decisione un po' a sorpresa hanno ritenuto di dover superare il proprio precedente arresto, espresso nella sentenza n. 6240 del 2015, e di formulare il seguente principio di diritto:

Le pene accessorie per le quali la legge indica un termine di durata non fissa, devono essere determinate in concreto dal giudice in base ai criteri di cui all'art. 133 c.p.

Accanto a osservazioni tecnico-giuridiche in ordine alla corretta esegesi dell'art. 37 c.p., va detto che la svolta interpretativa si è basata fondamentalmente sul recepimento delle argomentazioni utilizzate dalla Corte costituzionale nella sentenza n.222/2018, che, vale la pena ricordare, è vincolante con riferimento al dispositivo, ossia la dichiarazione della illegittimità costituzionale dell'originario testo dell'ultimo comma dell'art. 216 l.fall., mentre non lo è per quanto riguarda la motivazione, ove la Consulta ha espresso un chiaro disfavore nei confronti di ogni automatismo sanzionatorio in ossequio ai valori costituzionali di colpevolezza e proporzionalità della pena.

La Suprema Corte in conformità a quanto argomentato dal giudice costituzionale in motivazione ha quindi affermato che: «I predetti principi non consentono di interpretare l'art. 37 c.p. come prescrittivo di un automatismo che, seppur mediato dall'aggancio alla misura della pena principale, questa sì stabilita in via discrezionale dal giudice, rappresenta pur sempre un sistema rigido di determinazione del trattamento punitivo, che non trova giustificazione soprattutto se si considera la funzione cui assolvono le pene accessorie, l'estrema varietà delle condotte che, in violazione dei precetti penali, realizzano le condizioni per la loro inflizione ed il severo carico di afflittività che le contraddistingue». Le Sezioni Unite a conforto di tale opzione interpretativa hanno rilevato che secondo l'opinione più accreditata in dottrina «[…] le pene principali svolgono funzioni retributive, preventive di carattere generale e speciale, nonché rieducative mediante la sottoposizione al trattamento orientato al graduale reinserimento sociale del condannato; le pene accessorie, specie quelle interdittive ed in abilitative, collegate al compimento di condotte postulanti lo svolgimento di determinati incarichi o attività, sono più marcatamente orientate a fini di prevenzione speciale, oltre che di rieducazione personale, che realizzano mediante il forzato allontanamento del reo dal medesimo contesto operativo, professionale, economico e sociale, nel quale sono maturati i fatti criminosi e dallo stimolo alla violazione dei precetti penali per impedirgli di reiterare reati in futuro e per sortirne l'emenda. Ebbene, la piena realizzazione soprattutto dello specifico finalismo preventivo, cui sono preordinate le pene complementari, richiede una loro modulazione personalizzata in correlazione con il disvalore del fatto di reato e con la personalità del responsabile, che non necessariamente deve riprodurre la durata della pena principale». Risultato questo conseguibile soltanto ammettendone la determinazione caso per caso ad opera del giudice nell'ambito della cornice edittale disegnata dalla singola disposizione di legge, sulla scorta di una valutazione discrezionale che si avvalga della ricostruzione probatoria dell'episodio criminoso e dei parametri dell'art. 133 c.p. e di cui è obbligo dare conto con congrua motivazione. Al contrario, osserva la Cassazione, la perequazione automatica di cui all'art. 37 c.p. non consente risposte individualizzate e graduate in dipendenza delle peculiarità del caso, delle esigenze specifiche ad esso sottese, nonché delle caratteristiche di afflittività delle singole sanzioni accessorie, incidenti in senso fortemente limitativo sul diritto al lavoro e sul diritto di iniziativa economica, oltre che su altri aspetti della vita individuale e sociale, e finisce per estendervi i sospetti di incostituzionalità, insiti in tutti gli automatismi punitivi.

Del resto, evidenzia il massimo Collegio, negli ultimi anni sono stati numerosi gli interventi demolitori della Corte costituzionale in materia penitenziari, tutti finalizzati ad eliminare ogni rigido automatismo e consentire al giudice una valutazione individualizzata caso per caso (si vedano tra le ultime: Corte cost. n.76/2017 e n.174/2018).

Sarà quindi compito del giudice valutare di volta in volta in base ai criteri di cui all'art. 133 c.p. quale sia la durata congrua delle pene accessorie, che potranno essere quindi svincolate dalla durata della pena principale e applicate anche in misura maggiore rispetto ad essa.

Nel caso di specie, poiché la valutazione discrezionale ex art. 133 c.p. implica una valutazione di merito non compatibile con il giudizio di legittimità, la sentenza delle Sezioni unite ha annullato la sentenza impugnata limitatamente alle pene accessorie e rinviato ad altra sezione della Corte d'Appello al fine di individuare, in piena libertà di giudizio, la misura congrua ed adeguata di sanzioni accessorie fallimentari.

È evidente che la sentenza delle Sezioni Unite, seppur esprima la massima autorevolezza giurisprudenziale, non ha però l'efficacia “demolitoria” del giudicato propria delle sentenze di illegittimità costituzionale emesse dalla Consulta, trattandosi invero di un mero mutamento giurisprudenziale. Di conseguenza le condanne irrevocabili per delitti di bancarotta fraudolenta a pene accessorie irrogate entro il limite dei dieci anni secondo la regola rigida dell'art. 37 c.p. (ossia in misura equivalente alla pena principale), rimarranno intangibili e non potranno essere perciò oggetto di incidente di esecuzione.

La sentenza in commento oltre a ribaltare il proprio precedente orientamento espresso da Cass. pen., Sez.Unite, n.6240/2015 relativamente all'interpretazione dell'art. 37 c.p., ha anche disatteso un consolidato filone giurisprudenziale che riteneva la valutazione di necessaria congruità e personalizzazione del trattamento sanzionatorio da svolgersi in materia unitaria, tenendo conto insieme della pena principale e delle pene accessorie. Infatti di fronte a numerose eccezioni di incostituzionalità della pena accessoria prevista in misura fissa dall'originario art. 216 l.fall., la Suprema Corte in più occasioni ha ritenuto manifestamente infondata la relativa questione di legittimità costituzionale sia perché già risolta negativamente dalla Corte costituzionale con la sentenza n.134 del 2012, non qualificabile come «sentenza monito», sia perché la rigidità del sistema sanzionatorio previsto per il reato di bancarotta fraudolenta sarebbe solo parziale e limitata alle sole pene accessorie, mentre al giudice era comunque attribuito un ampio ventaglio per la graduazione della risposta sanzionatoria con la pena principale. Quanto alla tendenziale contrarietà delle pene fisse “al volto costituzionale dell'illecito penale”, la Cassazione ha più volte ritenuto che il principio però doveva intendersi riferito alle pene fisse nel loro complesso e «[…] non ai trattamenti sanzionatori che coniughino articolazioni rigide e articolazioni elastiche, in maniera tale da lasciare adeguati spazi alla discrezionalità del giudice, ai fine dell'adeguamento della risposta punitiva alle singole fattispecie concrete». Di conseguenza i parametri costituzionali che esigono l'individualizzazione del trattamento sanzionatorio non potevano considerarsi lesi nell'ipotesi di comminatoria, per un determinato illecito, di una pena principale dotata di una forbice edittale, congiunta ad una pena accessoria fissa; infatti, in una simile evenienza, il giudice conserverebbe, agendo anche solo sulla pena principale, la possibilità di adeguare la risposta punitiva alle specificità del singolo caso. (cfr. in questi termini Cass. pen., Sez. V, 6 luglio 2018, n.33880, Marchesi e altro; Cass. pen., Sez.V, 3 maggio 2018, n.36087, Cannone; Cass. pen., Sez.V, 30 marzo 2018, n.33150, Pacchioni ed altri; Cass. pen., Sez.V, 1° febbraio 2018, n.12360, Quaranta; Cass. pen., Sez.V, 26 ottobre 2017, n.56323, Intrieri).

Queste radicate considerazioni sono state completamente superate dalla decisione in esame che è partita da una analisi di sistema: le pene principali e accessorie hanno natura e finalità diverse, e di conseguenza devono essere irrogate operando valutazioni autonome dell'una e dell'altra, in modo da raggiungere, anche con un adeguato bilanciamento tra le stesse, la sanzione congrua, proporzionata e individualizzata con la massima elasticità di giudizio. L'art. 37 c.p., che fino a questa decisione era considerato “l'architrave” della disciplina delle pene accessorie, è diventato di colpo una norma residuale, applicabile solo ai pochi casi in cui il legislatore non ha dato alcuna indicazione circa la durata di una pena accessoria, ad esempio nell'ipotesi di reati sessuali ai sensi dell'art. 609-noniesc.p.

L'opzione interpretativa effettuata dalle Sezioni unite ha poi in tutta evidenza una valenza generale con riguardo a tutte le pene accessorie previste nell'ordinamento, e non solo quindi all'ambito di quelle indicate dall'art. 216 l.fall. per il reato di bancarotta fraudolenta. Ovunque il legislatore ha previsto minimi e massimi di pena accessoria, oppure solo uno solo di questi limiti, spetterà al giudice di individuare caso per caso la giusta misura della pena, senza quindi più fare uso del criterio offerto dall'art. 37 c.p.

La sentenza sancisce perciò un ampliamento dei poteri discrezionali del giudice, il quale avrà però un onere motivazionale aggiuntivo, quello relativo all'individuazione, secondo i criteri di cui all'art. 133 c.p., della pena accessoria congrua, ben sapendo che in molti casi la pena accessoria può essere di fatto più afflittiva di quella principale dato che i benefici penitenziari incidono e limitano soprattutto la pena detentiva.

Guida all'approfondimento

S. FINOCCHIARIO, Le Sezioni Unite sulla determinazione delle pene accessorie a seguito dell'intervento della Corte Costituzionale in materia di bancarotta fraudolenta, in Dir. pen. cont. 15 luglio 2019;

E. FONTANA, Come si determina la durata delle pene accessorie alla condanna per bancarotta dopo la Corte Costituzionale?, in D&G – 4 aprile 2019