L'audizione protetta della vittima vulnerabile nei casi di violenza sessuale

Marco Pingitore
04 Maggio 2016

Escutere in sede testimoniale una vittima vulnerabile è uno dei temi più dibattuti dalla psicologia giuridica e senz'altro anche uno dei più complessi a causa di una serie di variabili che si modificano e si adattano ad ogni specifico caso. Innanzitutto occorre esaminare e comprendere bene il concetto di vulnerabilità che nel tempo si è arricchito di connotati e significati nuovi.
Abstract

Escutere in sede testimoniale una vittima vulnerabile è uno dei temi più dibattuti dalla psicologia giuridica e senz'altro anche uno dei più complessi a causa di una serie di variabili che si modificano e si adattano ad ogni specifico caso. Innanzitutto occorre esaminare e comprendere bene il concetto di vulnerabilità che nel tempo si è arricchito di connotati e significati nuovi.

La vittima vulnerabile. Definizione

Sul piano giuridico la nozione di vittima vulnerabile risulta definita dalla decisione quadro del 15 marzo 2011 inerente la posizione della vittima nel processo penale. Da questa si evincono due ordini di elementi definitori. Il primo riguarda le caratteristiche del soggetto, ovvero minorenne o infermo di mente. Il secondo concerne il tipo di violenza subita, che deve preludere ad una possibilità di traumatizzazione e ad una vittimizzazione secondaria per lo stress derivante dalla rievocazione dell'evento reato in sede processuale.

Dunque, in ambito giuridico si può definire vulnerabile una vittima/testimone sia per una sua condizione soggettiva, legata a minore età o a patologia mentale, che ne potrebbe compromettere la capacità testimoniale, sia per una condizione oggettiva, legata alla natura del reato subito (violenza sessuale, maltrattamento, violenza domestica, mutilazioni genitali, tratta e riduzione in schiavitù, vittimizzazione mafiosa, terroristica o da crimini efferati) che porrebbe indurre una sofferenza emotiva qualora rievocato durante il processo.

A tal riguardo è utile ricordare che già la sentenza della Corte costituzionale n. 63/2005 aveva fatto riferimento alla vulnerabilità della vittima quale condizione atta ad esigere una tutela rafforzata in sede di audizione testimoniale al fine evitare la vittimizzazione secondaria.

Alla luce di ciò diviene però importante una riflessione di carattere psicoforense in ordine alle implicazioni del concetto di vulnerabilità nel procedimento penale. Di fatto le condizioni di vulnerabilità potrebbero venire utilizzate come formidabile strumento per minare aprioristicamente la credibilità testimoniale della vittima agli occhi del giudice e dunque favorire ineludibilmente la posizione dell'indagato o imputato nei procedimenti in cui l'accusa può fondarsi esclusivamente o prevalentemente sulla prova dichiarativa. A tal punto diviene fondamentale comprendere che la minore età o una condizione di patologia psichica non rappresentano tout court delle condizioni di vulnerabilità testimoniale, né lo è la particolare penosità dell'evento subito su cui riportare il proprio ricordo. Il discrimine nel rendere capace o incapace la vittima/testimone vulnerabile è spesso dato da due fondamentali variabili: da un lato l'abilità dell'intervistatore che raccoglie la testimonianza e dall'altro le condizioni in cui quest'ultima avviene. Chi escute deve infatti possedere formazione e competenza specifiche nell'adattare l'intervista testimoniale alle caratteristiche cognitive e psicoaffettive dell'intervistato, la cui compatibilità con la funzione testimoniale deve eventualmente essere stata valutata in una precedente ed indipendente sede peritale. Il contesto dell'escussione deve invece avere, in tutte le fasi in cui si articola, un allestimento tale da evitare o minimizzare l'esposizione del teste a dinamiche stressanti che possano conformare una condizione di vittimizzazione secondaria.

L'esperienza psicoforense maturata negli ultimi in materia di buone prassi per l'audizione protetta di testimoni minorenni fornisce senz'altro un valido punto di partenza per la definizione e condivisione delle procedure di escussione delle vittime vulnerabili.

A tal proposito, si parla troppo e, spesso, a sproposito di tutela del minore, un diritto inalienabile previsto dal legislatore e dalle varie convenzioni internazionali ma in tanti casi giudiziari non applicato a causa della sua connotazione astratta.

Il Protocollo della Convenzione dei diritti del fanciullo New York, 6 settembre 2000 (l. 11 marzo 2002 n. 46) si basa sui seguenti principi di tutela (art. 8):

  1. coesistenza, ad ogni stato della procedura penale, delle necessarie misure di protezione dei diritti e degli interessi dei minori vittime con le misure dirette all'accertamento dei reati;
  2. riconoscimento dei particolari bisogni dei minori vittime dei reati e prevalenza, nel modo di trattarli, del loro interesse;
  3. diritto dell'accusato ad un processo equo o imparziale;
  4. adozione di misure per una formazione appropriata degli operatori.
La tutela del minore nel processo penale. Le “buone prassi”

A partire da queste premesse, che cosa vuol dire tutelare un minore nei casi di abusi sessuali sui minori?

Sicuramente evitare la c.d. vittimizzazione secondaria, cioè ridurre al minimo lo stress psicofisico del bambino, rendere meno traumatico l'impatto con una giustizia ancora troppo concentrata sui bisogni degli adulti, meno su quelli dei minori coinvolti nel procedimento.

Crediamo fortemente che la migliore tutela del minore, in generale della vittima vulnerabile, corrisponda al rispetto delle buone prassi psicoforensi. È questa sic et simpliciter la strada da seguire se si vuole ottenere il miglior risultato processuale in un campo in cui spesso e volentieri regna una sorta di "anarchia metodologica", in cui tutti fanno tutto e tutti sono esperti di tutto.

Essere esperti in questo campo non significa necessariamente possedere un'esperienza ventennale, ad esempio, nella materia di psicologia dello sviluppo, poiché si potrebbe essere competenti nel valutare e diagnosticare un disturbo psicopatologico di un bambino e allo stesso tempo non saperne nulla di come raccogliere la sua testimonianza in un incidente probatorio.

Come sostiene MAZZONI talvolta un'esperienza trentennale può semplicemente rappresentare trent'anni in cui si compiono sempre gli stessi errori.

Le best practices, quindi, sono appannaggio di professionisti specificamente formati in questo ambito e non clinici tout court che si improvvisano esperti di una materia così complessa e delicata.

L'esperto chiamato ad escutere un testimone vulnerabile nei casi di presunti abusi sessuali dovrebbe avere la qualifica di psicologo o neuropsichiatra infantile con una specifica formazione in questo ambito. Nessun'altra figura professionale potrebbe occuparsene per via di una mancanza di un imprescindibile background di “sapere” scientifico.

Premesso ciò, si individua come metodologia accreditata dalla comunità scientifica quella espressa nei due documenti nazionali, la Carta di Noto (III versione del 2010) e le Linee Guida Nazionali – L'ascolto del minore testimone (2011), che racchiudono sinteticamente tutti i principi e gli studi scientifici di questo settore in tema di vittima vulnerabile.

È altresì vero che, spesso, soprattutto la Carta di Noto, è al centro di dibattiti sul suo effettivo valore vincolante. La Cassazione, tramite numerose sentenze, si trova a dover chiarire che il documento sicuramente non rappresenta un vincolo normativo ma è anche considerato un formidabile strumento di verifica (Cass. pen., Sez. III, 4 dicembre 2012 – 16 aprile 2013, n. 17339).

A tal proposito, è pacifico ritenere che un mozzicone di sigaretta prelevato sulla scena del crimine senza adottare le accortezze del caso (uso di guanti, pinze ecc.) potrebbe irrimediabilmente inquinare quell'indizio ritenuto utile ai fini investigativi, eppure non esiste una norma nel nostro codice di procedura penale che quel mozzicone di sigaretta debba essere prelevato con materiale sterile e conservato in appositi contenitori.

Idem per le dichiarazioni di una presunta vittima di abusi sessuali. Se esse vengono rese attraverso modalità suggestive e scorrette, quella prova dichiarativa potrebbe inesorabilmente essere contaminata e, quindi, risultare non utilizzabile ai fini probatori o condurre all'errore giudiziario.

Se la si legge in quest'ottica, procedere seguendo le prassi indicate dalla comunità scientifica appare l'unica strada perseguibile da tutti gli operatori giudiziari per il raggiungimento della verità processuale e il rispetto del testimone vulnerabile, troppe volte sentito e risentito in audizione poiché, a causa di procedure errate, non dice la "verità". Poi, di quale verità si tratti, potrebbe essere argomento di un altro articolo.

Secondo RECCHIONE L'esame del minore è un ‘elemento di prova' e l'obiettivo di limitare gli effetti del trauma da impatto con la giurisdizione non deve far perdere di vista la funzionalità dell'atto all'accertamento dei fatti per cui si procede.L'audizione dovrebbe pertanto essere condotta avendo cura di raccogliere non solo le indicazioni sul ‘fatto', ma anche gli elementi di contorno utili all'immediato controllo della verosimiglianza del racconto, e funzionali, nelle fasi più avanzate del processo, alla complessa verifica di attendibilità.All'intervistatore non è dunque richiesta solo la capacità di ‘entrare in contatto' con il minore, ma anche un ‘senso della prova' che garantisca la raccolta di dati processualmente fruibili.

Prima di tutto il setting: in quale luogo svolgere l'audizione?

Siamo convinti che il migliore luogo dove poter svolgere l'audizione protetta sia il c.d. spazio neutro che però, tocca precisare, non può e non dovrebbe corrispondere ad una stanza a piano terra di un qualsiasi tribunale: in tal caso sarebbe uno spazio ma non neutro.

Neutro nel senso che non "appartiene" a nessuna delle parti in causa, un posto altro adatto per questo genere di procedimenti in cui il soggetto non debba impattare con la freddezza di un posto come una caserma o un tribunale.

Lo spazio neutro dovrebbe, inoltre, essere fornito di impianto di videoregistrazione, preferito all'ormai vetusto vetrospecchio. Due stanze, quindi, collegate tra loro tramite tale impianto: in una stanza si escute il minore, in un'altra si accomodano tutte le altre figure con la possibilità di assistere mediante un monitor e l'impianto audio.

(Segue). Come deve essere arredato lo spazio neutro?

Spesso riscontriamo luoghi adibiti all'audizione del minore arredati "a misura di bambino" con molti giocattoli nella stanza, disegni affissi ai muri, carta con matite e pennarelli.

L'idea sottostante a questa tipologia di arredamento è fornire massima disponibilità al soggetto, specie se molto piccolo, nella fase di familiarizzazione, per metterlo maggiormente a suo agio e ridurre eventuali stati di ansia dovuti all'imminente escussione.

Riteniamo che questa scelta potrebbe comportare il rischio che l'esperto si soffermi troppo sulla fase di gioco, facendo poi fatica a riportare il piccolo testimone ad un livello di realtà.

Una stanza con arredo essenziale, un paio di divani, un tavolo e qualche sedia, senza la presenza di giochi e disegni, potrebbe già risultare sufficiente per l'obiettivo dell'incontro, riducendo anche il rischio che il minore possa autonomamente, durante l'escussione, prendere i giochi dagli scaffali e distrarsi.
Alla luce di questi aspetti, si potrebbe ipotizzare l'eventuale fase del gioco iniziale e ambientazione in un'altra stanza, diversa da quella utilizzata per l'escussione, così da mantenere differenziati gli spazi: in una stanza il minore attende l'audizione, con a sua disposizione giocattoli, carta e matite ecc.; nell'altra si effettua l'intervista.

Occorre comunque tenere conto dell'età del teste: una stanza così arredata è adatta ad un bambino sino ai sette-otto anni, molto meno ad un preadolescente.

Tali indicazioni appaiono utili anche nel caso in cui il teste non sia un minorenne, ma ad esempio un adulto con deficit mentale.

Il ruolo dell'esperto: chi deve fare cosa?

Esiste un ampio dibattito sulla effettiva funzione dell'esperto nominato dalla P.G. per conto della procura della Repubblica o dal giudice in caso di incidente probatorio/dibattimento.

Siamo del parere che la migliore prassi consista nel far sì che il solo esperto sia l'unica figura deputata alla raccolta della testimonianza, quindi l'unico presente nella stanza con il minore.

A scanso di equivoci, chiariamo immediatamente che la presenza di un familiare (così come previsto dall'art. 498, comma 4, c.p.p.) con funzioni di assistenza affettiva e psicologica, tranne in rarissime eccezioni, sia una prassi da evitare, specie se quel familiare è colui che ha sporto denuncia. Prendiamo il caso di una denuncia di violenza sessuale all'interno di una separazione conflittuale tra i genitori, in cui chi l'ha sporta ha tutto l'interesse affinché il testimone confermi l'ipotesi di reato.

Può anche capitare che un bambino chieda con insistenza la presenza di un familiare o un adulto di riferimento. In questi casi è buona prassi "neutralizzare" quella presenza collocandola in una zona della stanza visibile alla videocamera, ma non al minore.

Altra criticità, sia nella fase delle indagini preliminari sia, soprattutto, in quella dibattimentale, è rappresentata dalla funzione del magistrato. Dovrebbe delegare totalmente l'escussione all'esperto o decidere di raccogliere direttamente la testimonianza del soggetto? In quest'ultimo caso, quale sarebbe la funzione dell'esperto?

Riteniamo che, seppur dotato di particolari competenze, il magistrato non dovrebbe escutere direttamente il soggetto, così come non dovrebbe essere presente, neppure indirettamente, nella stanza. A meno che il teste sia già in età adolescenziale.

Tale compito dovrebbe essere affidato esclusivamente all'esperto che nulla dovrebbe sapere del caso.

È questa la peculiarità di una metodologia affidabile a tutela dell'indagato/imputato e del testimone.

Conoscere preventivamente i fatti oggetto di denuncia potrebbe provocare il rischio di raccogliere la testimonianza con un pregiudizio: se l'ipotesi di abuso c'è, si cercheranno tutti gli elementi a conferma di tale ipotesi.

È la c.d. tendenza al verificazionismo, bias comportamentale tipico di questo genere di casi, in cui il sospetto si tramuta in certezza.

Un esempio pratico. Essere già a conoscenza che la violenza sessuale si sarebbe consumata all'interno di una classe scolastica porterebbe l'esperto prima dell'escussione a rappresentarsi la scena di quella violenza sessuale all'interno di quella aula di una scuola e non una scena di violenza all'interno di un'aula. Una differenza notevole, ai fini probatori, per chi ritiene che debba essere il testimone a raccontare, non l'esperto a suggerire le risposte e gli argomenti, anche involontariamente.

Da questo presupposto metodologico, nasce l'esigenza di non far presenziare nessun altro nella stanza al di fuori del testimone e dell'esperto, anche perché la co-conduzione esperto-magistrato potrebbe rivelarsi fallimentare. Spesso capita che il giudice, in fase di incidente probatorio, voglia direttamente escutere il soggetto servendosi dell'ausilio dell'esperto deputato ad una non meglio precisata funzione di assistenza affettiva e psicologica. Che cosa dovrebbe fare effettivamente in questi casi l'esperto? Quale sarebbe la sua funzione? Chi rivolgerebbe le domande? Se entrambi, secondo quale ordine e sequenza logica?

Il soggetto deputato alla raccolta della testimonianza dovrebbe essere a conoscenza solo di alcuni dati prima di entrare nella stanza con il testimone:

  • età del soggetto ed eventuale presenza di problematiche cognitive;
  • luogo in cui si sarebbero consumati i presunti abusi sessuali (senza conoscerne i dettagli);
  • da chi sarebbero stati perpetrati (conoscente, familiare, amico ecc.)

La conoscenza di poche informazioni essenziali dovrebbe garantire maggiore imparzialità e ridurre al minimo il rischio di un'eventuale tendenza al verificazionismo da parte dell'esperto, evitando così la costruzione di una propria ipotesi in merito alla sussistenza dell'accusa che potrebbe anche inconsapevolmente pregiudicare l'intera audizione (BALABIO).

A tal proposito, così GULOTTA e CUTICA: La tendenza al verificazionismo implica che i professionisti che si occupano di abusi, se giudicano altamente probabile che dietro ogni denuncia si nasconda un abuso reale, allora tendono a sostenere che l'abuso si è verificato costruendo una sorta di barriere protettiva di fronte a controfatti.

Si possono usare auricolari e citofoni?

Sconsigliamo l'utilizzo di auricolari, citofoni e mezzi tecnologici in grado di collegare l'esperto con l'autorità giudiziaria. Questi ausili tecnici possono risultare fortemente condizionanti e rappresentare fonte di distrazione per tutte le figure presenti.

Così le linee guida C.S.M.-Unicef, L'ascolto dei minorenni in ambito giudiziario (art. 4.2, p. 72): (…) Non è stato ritenuto adeguato il ricorso all'impianto citofonico e alle cuffie. “Guidare” l'intervistatore attraverso un contatto fonico continuo e diretto con le parti (che si trovano nella stanza separata) può, infatti, causare lo scollamento di chi intervista dal contesto relazionale dell'audizione.

Inoltre, in caso di incidente probatorio, molto spesso capita che il testimone riesca ad ascoltare involontariamente le conversazioni tra il Presidente e l'esperto per via del volume troppo alto degli auricolari con naturali conseguenze sul possibile inquinamento della raccolta delle informazioni.

Quando far arrivare il testimone nello spazio neutro?

L'improvvisazione dovrebbe lasciare spazio alla organizzazione di tempi e spazi. Infatti, secondo BULL, le interviste non dovrebbero essere condotte senza un'adeguata pianificazione, i bisogni di un bambino, di ogni intervista e dell'intervistatore possono essere diversi da un'intervista ad un'altra.

L'arrivo differenziato del testimone rispetto agli altri partecipanti consente di evitare la possibilità che egli possa incontrarsi con il presunto abusante e con gli altri soggetti.
Egli si accomoda nella stanza di accoglienza che dovrebbe essere gestita da un collaboratore dell'esperto che impedisca interferenze sul testimone e sia in grado di soddisfare eventuali sue esigenze e bisogni (bere, riposare, andare in bagno ecc.).

È importante che nessuna delle altre figure entri in contatto casuale con il testimone che continua a rimanere nell'altra stanza.

Raccomandazioni utili anche nel caso in cui la vittima sia, ad esempio, un soggetto adulto.

Come si raccoglie la testimonianza?

L'esperto deputato all'audizione del testimone dovrebbe utilizzare esclusivamente il canale verbale, evitando così l'impiego di bambole anatomiche, bambolotti, disegni, strumenti vari di ausilio all'escussione.

Una delle migliori modalità sperimentate in concreto è apparsa quella di effettuare un "esame" preliminare che prescinde da indicazioni preventive delle parti, affidando, a chi conduce l'audizione, la prima esplorazione dei temi rilevanti.

L'utilizzo di uno dei protocolli di intervista, condivisi dalla comunità scientifica, appare la migliore scelta se si vuole ridurre al minimo il rischio di porre domande suggestive e veicolare l'intera intervista.

I protocolli di intervista (Step-Wise Interview, NICHD, Intervista Cognitiva ecc., alcuni adatti anche per soggetti adulti) hanno una comune caratteristica: una modalità c.d. ad imbuto. Si parte da domande preliminari di familiarizzazione fino ad arrivare ai fatti specifici, favorendo sempre domande aperte a quelle chiuse e direttive che dovrebbero essere eventualmente utilizzate solo dopo che il testimone abbia raccontato liberamente i fatti al fine di chiarire meglio alcuni dettagli.

"Sai perché sei qui oggi?" potrebbe essere la domanda da porre al testimone dopo le presentazioni e dopo avergli illustrato e spiegato il setting (presenza della telecamera e del microfono, presenza di altri soggetti nell'altra stanza ecc.) in base alla sua età.

Vanno assolutamente evitati riferimenti al ruolo del giudice (ad es., come persona che "aiuta i bambini" o "punisce quelli che hanno fatto male ai bambini") nella misura in cui possono risultare induttivi fornendo una connotazione a priori delle azioni di cui si sollecita la narrazione.

È bene evitare frasi suggestive del tipo "so che sei qui perché hai subito una violenza", "mi hanno detto che sei qui per...", "come sai ci troviamo qui oggi perché devi raccontare dei fatti ..." ecc.

Successivamente alla risposta del testimone sul motivo della sua presenza in audizione, non si affronta subito l'argomento violenza ma l'esperto passa alla prima fase di familiarizzazione in cui è possibile trattare solo argomenti neutri (Come sei venuto qui oggi? Chi ti ha accompagnato? Che scuola frequenti? Che fai nel tempo libero? Mi racconti che hai fatto ieri? Con chi vivi in casa? ecc.).

In seguito a questa prima fase di conoscenza, inizia la vera e propria raccolta delle informazioni sui presunti fatti con il primo racconto libero e le successive eventuali domande di approfondimento: "Prima mi hai detto che conosci il motivo per cui sei qui oggi, me lo vuoi raccontare?".

È opportuno che, prima del racconto libero, l'esperto chiarisca, con parole adatte alla sua età e al suo livello di comprensione) al testimone vulnerabile che è chiamato a:

  • dire la verità (nel senso di esplicitare al soggetto che è importante riferire solo cose realmente accadute);
  • raccontare solo quello che si ricorda;

e che sarà libero di:

  • dire che non si ricorda;
  • correggere l'intervistatore e domandargli chiarimenti;

Una volta terminato il racconto, se l'esperto ritiene che tutti i presunti fatti siano stati riferiti anche tramite l'ausilio di domande dirette e più specifiche, il testimone rimane nella stanza (preferibilmente, in base all'età, l'esperto viene sostituito da una figura neutra che fa compagnia al minore) per qualche minuto mentre l'esperto si reca nella stanza del giudice al fine di ricevere eventuali richieste di approfondimenti. Attraverso tale attività si attua, di fatto, il contraddittorio.

In merito alla conduzione dell'intervista, così si esprimono le Linee Guida Nazionali sull'ascolto del minore testimone (art. 4.9, adatte in generale anche al soggetto vulnerabile adulto): Creare un buon rapporto con il minore è premessa per un'efficace comunicazione. L'empatia rappresenta una qualità dell'atteggiamento dell'intervistatore atta a favorire la comunicazione, ma non può divenire strumento diagnostico preponderante in un contesto giudiziario.
Con questa precisazione si intende sottolineare che non è congruo invocare in questa sede l'applicazione di un "ascolto empatico", qualificandolo come via "maestra" per pervenire ad una corretta assunzione della prova dichiarativa. L'ascolto dovrà, invece, essere il più possibile neutrale, cercando di massimizzare le informazioni e minimizzando lo stress.
Secondo YUILLE, COOPER E HERVÉ:

bisogna operare una netta distinzione tra colloqui terapeutici e interviste investigative. A colui che svolge un'intervista investigativa viene richiesto di essere obiettivo, di mantenere una posizione neutrale rispetto alle accuse sottoposte ad inchiesta. Al contrario, il terapeuta si occupa non della realtà storica delle accuse quanto della loro realtà soggettiva. Il terapeuta deve sentirsi libero di essere direttivo ed evocativo, l'intervistatore no.

Criticità dell'indagine

Affidiamo le considerazioni conclusive alla Corte di cassazione che osserva gli studi sulla memoria infantile hanno comprovato come i bambini, della età delle attuali parti lese (di anni 4, n.d.r.), presentino modalità relazionali orientate in senso imitativo ed adesivo, siano influenzabili da stimoli potenzialmente suggestivi e – non avendo adeguate risorse critiche e di giudizio ed un distinto sentimento del sé – tendano a non differenziare le proprie opinioni da quelle dello interlocutore. Pertanto, è necessario che colui che li interroga non ponga inopportune domande inducenti o suggestive e non trasmetta informazioni che vengono recepite dai bambini ed utilizzate nel rispondere; ogni occasione narrativa, se posta in essere con un non corretto metodo verificazionista di una tesi preconcetta, potrebbe condizionare negativamente il ricordo del fatto da parte del minore. Per controllare che il bambino non abbia inteso compiacere l'interlocutore ed adeguarsi alle sua aspettative, è utile potere ricostruire la genesi della notizia di reato, cioè, focalizzare quale sia stata la prima dichiarazione del minore (che, se spontanea, è la più genuina perché immune da interventi intrusivi), quali le reazioni emotive degli adulti coinvolti, quali le loro domande; se la narrazione del bambino si è amplificata nel tempo, è necessario verificare se l'incremento del racconto sia dovuto alla abilità degli intervistatori oppure a loro indebite interferenze (Cass. pen., Sez. III, 13 maggio 2010, n. 24248).

Tali raccomandazioni risultano quanto mai pertinenti in un ambito come questo, dove il rischio di falsi positivi è sempre presente specie in presenza di bambini piccoli e, come tali, fortemente suggestionabili sia in un ambito più generico, dove la presunta vittima corrisponde ad un soggetto adulto e, a causa dell'ipotesi di reato, potenzialmente vulnerabile.

Guida all'approfondimento

BALABIO, Il falso ricordo, in Gulotta G., Camerini G.B. (a cura di), Linee guida nazionali. L'ascolto del minore testimone, p. 236, Giuffré, 2014;

BULL, Una corretta modalità di intervista con minori testimoni nel processo penali, in Mazzoni G., Rotriquenz E. (a cura di), La testimonianza nei casi di abuso sessuale sui minori, Giuffrè, 2012;

GULOTTA – CUTICA, Guida alla perizia in tema di abuso sessuale e alla sua critica, p. 80, Giuffré, 2008;

YUILLE – COOPER – HERVÉ, La nuova generazione delle linee guida Stepwise per l'intervista dei minori, in Casonato M., Pfafflin F. (a cura di), Pedoparafilie: prospettive psicologiche, forensi, psichiatriche, Milano, 2014, p. 126;

MAZZONI, Psicologia della testimonianza, p. 122, Roma, 2011;

RECCHIONE, Le dichiarazioni del minore dopo la ratifica della convenziona di Lanzarote, in Dir. pen. cont.

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