Maltrattamento e violenza psicologica: disfunzionalità delle relazioni in ambito famigliare
12 Gennaio 2018
Abstract
La violenza domestica è un fenomeno sommerso, trasversale e continuativo, complesso in quanto emerge nelle relazioni interpersonali e affettive più significative per l'individuo, nell'ambito che nell'immaginario collettivo dovrebbe essere di tutela dello stesso (famiglia) e spesso integra in sé varie forme di violenza (sul tema si veda anche BRAMANTE LAMARRA, La violenza di genere: dal maltrattamento al femminicidio). Tra queste gli esperti individuano:
Nell'ambito dei maltrattamenti in famiglia la violenza psicologica è sicuramente la più subdola e la più difficile da far emergere, pur essendo paradossalmente la forma di violenza più “distruttiva” in quanto agente sulla capacità di autodeterminarsi dell'individuo rendendolo incapace di reagire e di autotutelarsi, nonché la più difficile da affrontare e superare. Solo da pochi anni è stata oggetto di valutazione in ambito giuridico, essendo la più difficile da comprovare tra le varie altre forme di violenza. Essa si riferisce a qualsiasi atteggiamento, verbale e non verbale, volto a ledere la libertà e l'identità personale. Tali comportamenti si insinuano gradualmente nella relazione e, spesso è difficile vedere e valutarne la negatività. La violenza psicologica quindi è caratterizzata «da ricatti, insulti verbali, colpevolizzazione pubblica e privata, ridicolizzazione e svalutazione continua, denigrazione e umiliazione anche in pubblico, rifìuto, isolamento, deprivazione e limitazione dell'espressione personale. Nei casi più gravi il violento scatena un vero e proprio processo di distruzione morale che può condurre la donna alla malattia mentale, alla dipendenza da sostanze alcoliche o stupefacenti, alla depressione e/o suicidio» (Hirigoyen 2001). Inoltre come riporta FORNARI «Il comportamento violento non è solo circoscritto alle manifestazioni estreme dell'uccidere o dell'uccidersi, ma con una frequenza infinitamente superiore si manifesta e si disperde in una miriade di espressioni che non toccano il corpo come tale, bensì il cuore e la mente. Violenza è anche il tramonto della tenerezza e del dialogo, il silenzio scontroso, la rassegnazione, l'indifferenza, la rinuncia, l'abbandono, il dire e il fare intrisi di non rispetto, di rassegnata sfiducia o di sprezzante disistima» (Fornari U., 2013). La violenza psicologica
Nelle situazioni di maltrattamento e di violenza domestica la violenza psicologica si ritrova frequentemente in correlazione con altre forme di violenza, più o meno esplicite. Di fatto la violenza psicologica accompagna la vittima in tutto il suo percorso, essendo indissolubilmente legata alle modalità di assoggettamento, in primis psicologico e poi fisico ed economico, che il maltrattante utilizza. Si ritrovano frequentemente in queste situazioni minacce, insulti, urla da parte di uno dei due partner (più frequentemente in termini statistici da parte dell'uomo), che hanno l'obiettivo di trasmettere insicurezza nella vittima per sottometterla creando un continuo e perdurante "clima" di tensione e di allerta/preoccupazione. Tale clima di tensione è “funzionale” al maltrattante per ridurre man mano la capacità di reagire dell'altra, completamente focalizzata solo ad evitarne gli scoppi di ira o di violenza. Le ingiurie reiteratamente espresse, raramente sono verbalizzate in presenza di testimoni, mentre generalmente si preferisce utilizzarle in casa perché in questo modo l'aggressore può conservare una buona immagine di sé in pubblico. Spesso infatti le violenze psicologiche e fisiche che si espletano in ambito domestico, generalmente rimangono situazioni nascoste anche a parenti e amici. Non infrequentemente infatti è la stessa vittima che "nega" (a volte anche davanti ad evidenti lesioni di tipo fisico) le vessazioni e i maltrattamenti subiti. La relazione vittima-maltrattante è sicuramente una relazione disfunzionale, patologica nella sua essenza, in cui dinamiche affettive-emotive si intersecano creando un “inastro” spesso difficilmente contrastabile anche dagli operatori esperti del settore. Per la vittima «controllare la rabbia, prevenire un inasprimento delle violenze, percepirsi investita da una missione salvifica dell'aggressore per ritenerlo afflitto da problemi e bisognoso di aiuto fanno parte solo delle prime fasi del ciclo della violenza. L'idea di riuscire a cambiare il compagno violento, minimizzare i primi episodi intrappolano la donna in una rete sempre più fitta» (Marchese G., Nardi E., Veltri M., 2014). E ancora «la volontà di salvaguardare la propria unione ed il bisogno di controllare ciò che accade; il rifiuto di identificare sè stesse come vittime e i partner come aggressori; la considerazione comune che certi livelli di violenza siano accettabili in una coppia; la difficoltà a stabilire la soglia di illegittimità nell'uso del potere e della forza, aggravato dalla dipendenza e dalla poca stima di sé» (Bruno T., 2003) ne aggravano il quadro. L'obiettivo per la vittima diventa quindi quello di sopravvivere giorno per giorno, dimenticare le violenze subìte ritenendole solo un episodio a sé, anestetizzando il proprio dolore. Tali situazioni reiterate nel tempo, configurandosi in un vero e proprio ciclo continuo e autoperpetuo produce evidentemente gravi conseguenze sulla personalità della vittima. Bassa autostima, sensazioni di impotenza, depressione, senso di colpa, inadeguatezza, ansia, apatia ed incapacità di reagire sono tra queste: tali elementi peraltro sono ulteriormente incisivi in quanto rendono impossibile alla vittima uscire dal vortice della violenza, non avendone più le capacità (e a volte la volontà). E la violenza psicologica è basilare ai fini di ridurne la resilienza. Ma come si esprime il maltrattante? In genere il maltrattante davanti agli altri esprime con ironia o sarcasmo quelli che, nell'intimità e al sicuro da occhi indiscreti diventano invece veri e propri insulti: per esempio: "Sei sempre la solita...non hai il senso dell'umorismo, non serve a niente parlare con te, non sei in grado di capire, fatti curare!" può diventare all'interno delle mura domestiche "Sei matta, sei stupida, non posso parlare con te, non capisci niente" (A.C. Baldry, E. Ferraro, 2008). Ma in considerazione di quanto sopra quale limite deve essere oltrepassato per evidenziare una vera e propria violenza all'interno della coppia? Come può essere distinta una pressione psicologica rilevante e patologica da una semplice frase aggressiva detta in un momento di rabbia anche se ripetuta in più situazioni? Le tipologie di violenza considerabili "invisibili" innanzitutto si presentano per gradi e purtroppo casistica evidenzia che tale ingravescenza non si riduce nel tempo ma permane o si aggrava sino ad arrivare frequentemente alla violenza fisica. Gli elementi che si ritrovano nei casi di violenza psicologica e/o fisica sono molteplici. Importantissimo è il controllo che si esplica nel prendere il sopravvento sull'altro nel quotidiano, dominando e comandando su tutto o quasi. Dallo stabilire a che ora e cosa si deve mangiare, all'impedire all'altro di intraprendere un lavoro o coltivare un hobby o passione, dal decidere la località delle vacanze o le amicizie da frequentare. Altra modalità è l'isolamento: l'aggressore infatti fa in modo che la vittima si allontani a poco a poco dalla sua famiglia, dai suoi amici sino a diventare lui solo il fulcro della vita del/la partner, con una segregazione (o addirittura un autosegregazione per paura delle pressioni e delle reazioni violente del compagno) che porta ad una limitazione o azzeramento dalla vita sociale in autonomia; spesso si ritrova una vera e propria limitazione delle possibilità materiali per comunicare con l'esterno con il controllo dell'utilizzo di soldi, automobile, telefono. A volte la manipolazione in tal senso arriva persino a mettere la vittima "contro" i suoi famigliari creando rotture di rapporti o allontanamenti che rendono infine la vittima sola e senza alcun riferimento/supporto alternativo cui rivolgersi in caso di necessità. Un'altra modalità utilizzata è l'indifferenza: si ignorano i bisogni e i desideri dell'altro, si alimenta la frustrazione per tenere la vittima in uno stato di insicurezza, evitando di parlarle, di ascoltarla, di uscire insieme, di accompagnarla dai suoi famigliari, tenendole magari “il muso” per tanto tempo senza mai dare una motivazione: creando quindi tensione, timore al fine di assoggettarla. O ancora non tenendo conto del suo stato fisico o psichico (pretendere che faccia le pulizie quando ha la febbre alta o di fare sesso dopo una forte lite per esempio). Tutte modalità che direttamente o indirettamente ledono le sicurezze e l'autostima della persona sino a renderlo inerme e incapace persino di ipotizzare delle alternative a tale situazione. Frequentemente è presente anche una gelosia patologica nel maltrattante, di possesso totalizzante sino ad arrivare a minacce, interrogatori, controllo su cellulare ed e-mail al fine di sedare (o alimentare) l'ansia del geloso patologico legata alla paura che la compagna possa essere altro da sé. Ed ancora la denigrazione: la vittima non viene considerata degna di rispetto e viene sottoposta a umiliazioni, mortificazioni, critiche sui suoi amici, sul suo passato o sulle sue incapacità amplificandone all'eccesso le mancanze, su qualsiasi cosa ella faccia nel quotidiano, spesso in modo indiscriminato e improvviso. Si riscontrano anche a volte atti intimidatori e minacce anche violenza indiretta che ha l'obiettivo di far capire quanto si è forti e cosa si è in grado di fare. Si tratta di gesti indiretti ma significativi ed evocativi di quanto di peggio potrebbe succedere nel caso non vi sia un assoggettamento, come picchiare il cagnolino di casa, sbattere le porte, guidare a tutta velocità mettendo in pericolo l'incolumità dei passeggeri oppure minacciare di togliere gli alimenti, portare via i figli o persino di suicidarsi per colpevolizzare la vittima e renderla incapace di ribellarsi "sentendosi cattiva" o colpevole della situazione. Tali comportamenti, reiterati nel tempo, manipolano di fatto la vittima e si riscontra in lei uno stato di sottomissione e di condizionamento in quanto smarrisce la sua capacità di vedere distintamente quello che sta accadendo. Generalmente, infatti, essa non si accorge affatto di subire una violenza e non riesce ad attribuire il giusto significato fino a quando questa non diventa anche violenza fisica. Spesso purtroppo, tale “cecità” ha fondamenta anche nella visione miope sociale e addirittura in ambito giuridico (ove la violenza psicologica pare non assurgere allo stesso livello di evidenze di quella fisica). Ciò comporta comunque di entrare in un circolo vizioso dal quale è difficile svincolarsi. Alcune delle vittime che hanno la forza di andarsene e di denunciare il proprio compagno, si ritrovano a tornare indietro sui propri passi, subendo una sorta di plagio, di forte suggestione. L'aggressore punta alla fragilità emotiva della vittima, alle sue emozioni, alla sua evidente vulnerabilità. Spesso si ritrova nelle vittime una sorta di rassegnazione o addirittura un "annebbiamento" della capacità critica delle stesse finendo per credere che sia normale essere punite, per convincersi che la violenza faccia parte delle cose "poco piacevoli" ma inevitabili nella vita, non sono sicure di percepire oggettivamente la realtà e, anzi, non parlano dell'abuso, temendo di essere schernite o perfino considerate colpevoli loro stesse. Tali situazioni paradossalmente si esplicano anche nei confronti di persone (generalmente donne), colte, intelligenti, indipendenti economicamente e professionalmente soddisfatte che tollerano nonostante ciò la violenza domestica modellandosi in modo "perverso" a quelle che erano le aspettative della società riguardo l'essere donne amorevoli, docili, quindi fragili e dipendenti. Paura dell'abbandono, bisogno di appartenenza, sfiducia in sé e vergogna ostacolano queste donne, dissuadendole dal denunciare gli abusi e svelare i propri vissuti, sentendosi paradossalmente, fallite per non aver saputo accontentare il marito o non essendo state in grado di gestire il rapporto, la famiglia e se stesse. In tal senso quindi va inquadrata la dinamica relazionale disfunzionale. Per quanto sopra quindi i maltrattamenti invisibili subiti da uno dei due partner diventano un muro invisibile che si frappone nella coppia e rende vittime di un amore insano. Quali quindi le differenze tra semplici litigi e le vessazioni psicologiche? Nella semplice lite, esiste sempre una relazione di parità, una simmetria fra i due partner. Nei momenti d'ira, tutti possiamo pronunciare parole offensive, sprezzanti, o fare gesti fuori luogo, ma di solito queste intemperanze sono seguite da rimorsi e da scuse. Nella violenza psicologica, invece. non si tratta di una trasgressione momentanea ma perdurante ed ingravescente in un rapporto in cui l'altro è un oggetto di cui disporre. Rispondendo quindi alla domanda in che cosa si differenzia un clima di tensione e litigi da una situazione di vera e propria violenza psicologica ai danni di uno dei due partner, si può quindi evidenziare e chiarire che si parla di violenza psicologica quando una persona adotta una serie di atteggiamenti e discorsi che mirano a denigrare e rifiutare il modo di essere di un'altra persona. Quelle parole e quei gesti hanno lo scopo di rendere insicuro l'altro e di fargli del male. Interessante è la definizione che ne danno in ambito scientifico/giuridico: «Gli uomini agenti con tale modalità non sono in grado di vivere relazioni paritetiche, di reciprocità. Il bisogno è quello di dominare la donna, attraverso la sistematica demolizione di ogni sua sicurezza, annientandone la personalità. Inizia tutto con battute, derisioni sprezzanti, ossia con una modalità aggressiva subdola, che disorienta la donna, la quale tende a giustificare il compagno/marito. Solo quando tale atteggiamento diventa abituale, la donna è in grado di coglierne l'aggressività latente. La violenza psicologica si sviluppa, in seguito, con forme di derisione e ridicolizzazione, espresse anche in pubblico. L 'uomo priva la donna di qualsiasi possibilità di espressione approfittandosi dei suoi punti deboli e mettendo in dubbio le sue capacità di giudizio e decisione. Ogni scambio comunicativo all'interno della coppia sfocia in un conflitto, da cui la donna ne esce sconfitta e destabilizzata. Non vi è reale interesse, da parte dell'uomo, ad ascoltare la propria compagna. L 'intento è quello di creare un malinteso, a partire dalle parole della donna, da sfruttare a proprio vantaggio. Difronte a tale situazione molte donne soccombono. [...] Le vittime nutrono la speranza che l 'altro cambi, che capisca la sofferenza che infligge loro e che se ne penta. La resistenza e la capacità di opporsi e reagire delle donne vengono meno. La violenza psicologica subita nel contesto familiare è una ragnatela tessuta gradualmente nel corso del tempo. Il sentimento prevalente sottostante l'incapacità di reagire delle donne è la paura. La paura immobilizza ed impedisce di immaginare scenari diversi. Questo spiega come possano mantenersi, per lungo tempo, relazioni di questo tipo. […] Non c'è desiderio di condivisione con l'altro bensì di controllo totale sull'altro. [...] Quello che permette di distinguere la violenza coniugale da un semplice litigio di coppia non sono le botte o le parole offensive, bensì l'asimmetria nella relazione. In un conflitto di coppia, l'identità di ognuno è preservata, l'altro viene rispettato in quanto persona, mentre questo non avviene quando lo scopo è dominare e annichilire l'altro. Questi comportamenti sono destinati a sottomettere l'altro, a controllarlo e a mantenere il potere. […] Nella violenza coniugale la violenza verbale e quella psicologica sono inscindibili. Ci sono parole (minacce, urla, insulti) che servono a installare tensione e insicurezza, e il modo di dirle (tono, accento) è un metodo destinato a sottomettere psicologicamente l'altro. […] La ripetitività ed il carattere umiliante di tali situazioni possono provocare un vero e proprio logorio mentale e addirittura condurre la persona al suicidio. La violenza psicologica viene negata sia dall'aggressore sia dai testimoni. che rimangono all'oscuro di tutto e ciò fa sì che la vittima dubiti di ciò che prova. Nulla comprova la realtà di ciò che subisce. L 'individuo dominante usa la violenza per restare nella sua posizione di onnipotenza. Per lui, l'aggressione è soltanto lo strumento che gli consente di ottenere o di conservare ciò che desidera. ossia il potere. Le minacce e le azioni destinate a terrorizzare l'altro sono l'ultima tappa prima dell'aggressione fisica». Le dinamiche che connotano una relazione di questo tipo sono ben illustrate da E. Walker nella sua teoria sul ciclo della violenza articolato in tre fasi. Nella prima fase, di tensione crescente, la violenza è psicologica. Bersagliata da critiche ingiustificate e squalifiche la donna comincia a perdere fiducia in sé, si sente in colpa e cerca di placare il partner, rinforzandone purtroppo i comportamenti violenti. Nella seconda fase la violenza diventa fisica. Impaurita, la donna sa che più asseconda il partner meno rischia conseguenze. Senso di colpa, impotenza, paura e stato di vigilanza aumentano. Nella terza fase, quella di un presunto ravvedimento, l'aggressore in seguito a una crisi e a un allontanamento della vittima, promette un cambiamento e la vittima è purtroppo disponibile nel dargli un'opportunità speranzosa di cambiarlo e di controllare la situazione. Il ciclo torna a ripetersi daccapo, perfino in modo peggiore, grazie anche alla mistificazione della violenza da parte dell'uomo, confusiva per la donna che non si rende conto di entrare in un vero e proprio sistema relazionale disfunzionale e perverso. Tra vittima e carnefice si può instaurare una sorta di co-dipendenza. La donna continuamente incolpata cercherebbe una riabilitazione dalla sua posizione di “imputata” che nessuno come il partner le può dare proprio quando si pente e, soprattutto se minacciato di essere lasciato, quando le implora di restare, mostrandosi a sua volta dipendente da lei. Una gratificazione per la vittima che genererebbe dipendenza dal compagno per uscire dalla frustrazione. Negando la propria debolezza la donna maltrattata resta illudendosi di poter controllare il rapporto. In questo modo però non fa altro che confermare al partner, a sua volta riabilitato dalla sua concessione, il ruolo di potere nei propri confronti. E il ciclo ricomincia e si rafforza. I vissuti della donna che permane in una situazione in cui subisce violenza sono quelli di un progressivo svuotamento interiore. una perdita di fiducia nelle sue capacità, la sensazione di non valere niente e che si meriti quello che le accade. La percezione di sé stessa come impotente, inadeguata, colpevole fa in modo che si indebolisca sempre più e resti invischiata nella relazione perversa, scivolando così in una spirale infinita. Generalmente si riscontrano alcuni fattori che possono considerarsi di rischio e altri di protezione. L'isolamento sociale, la carenza di supporti, l'autostima carente, il crescente senso di debolezza, eventuali fragilità personali e altre importanti variabili come la mancanza di un lavoro e di autonomia economica, il problema abitativo, la presenza di figli, concorrono ad ostacolare la donna nell'abbandonare la relazione. Autonomia economica, buona autostima, rete sociale e parentale di appoggio, possono essere invece fattori protettivi e facilitanti, anche se comunque non sempre sufficienti. Il gaslighting
Fare violenza non è necessariamente sinonimo di grida, schiaffi, botte. Esistono altri modi di far male ad una persona, ponendola in una condizione di inferiorità e isolamento da cui le sarà difficile difendersi e uscire. La violenza psicologica, definita tipicamente come un insieme di comportamenti che hanno come obiettivo quello di ledere la dignità della persona e d'indebolirla è tra queste e si esplica nel:
Tra le violenze psicologiche, difficili da capire, dimostrare, curare, risulta essere una tra le più subdole, il cosidetto gaslighting, il più difficile da comprendere nelle sue modalità. È una forma ambigua e ingannevole di violenza psicologica che, utilizzando vere e proprie manipolazioni mentali ed emotive, rende la vittima un oggetto, completamente dipendente dall'altro, insicuro delle sue stesse percezioni, inconsapevole di esserne vittima. È inquadrabile in una forma di violenza psicologica ed emozionale che si manifesta generalmente nei rapporti di coppia ma può svilupparsi in un ambito famigliare più allargato, in ambito lavorativo o amicale senza distinzioni di classe sociale e livello culturale. Il gaslighting è in particolare un insieme di comportamenti subdoli agiti dal manipolatore (gaslighter) nei confronti di una persona, per confonderla, farle perdere la fiducia in sé stessa, farla sentire sbagliata, renderla dipendente, fino a farla dubitare della sua sanità mentale (Lattanzi, 2007). Si basa su relazioni affettive patologiche caratterizzate da una forte dipendenza affettiva. La manipolazione emotiva è frutto di un “bilanciamento” di caratteristiche disfunzionali complementari tra i due individui in relazione, di cui uno, il manipolatore necessita di acquisire e mantenere una percezione di sé positiva ed avere sempre ragione su tutto mentre l'altro (la vittima) è caratterizzato da un bisogno essenziale di approvazione, riconoscimento (apparente) in termini quasi fusionali, dando quindi la possibilità a manipolatore di poterlo ridefinire nei termini da lui voluti. Il gaslighter affianca all'interpretazione dell'innamorato o persona dotata delle migliori intenzioni una sistematica distorsione della realtà così da innescare nella vittima dubbi su sé stessa e sulle proprie percezioni di eventi e situazioni sino a convincersi di essere malata, pazza. Tali modalità possono essere occasionali o inserite in contesti di violenza psicologica e/o fisica più ampia. Nei casi in cui l'attività manipolatoria sia diventata una presenza continuativa e prevalente la vittima potrà presentare una vera e propria sintomatologia quale presenza di incubi o sogni inquietanti ricorrenti, scarsa fiducia nel proprio senso di realtà, nell'attribuzione di significato ad eventi e situazioni della sua vita, confusione, disturbi della memoria, ansia e disturbi psicosomatici, disforia, depressione. Se nella vittima le caratteristiche di personalità più predisponenti sono una spiccata ipersensibilità, il timore della solitudine e dell'abbandono, bisogno di essere accettata dall'altro, gli elementi che supportano l'azione manipolativa sono la paura e il senso di colpa. La paura svolge generalmente una funzione autoregolativa e di protezione dal pericolo ma, in questo caso, l'inganno sta nel non valutare correttamente quale sia il vero pericolo (il manipolatore) da quello supposto (realtà esterna, abbandono). Il senso di colpa inoltre è basilare nella sottomissione in quanto definisce costantemente un senso di inadeguatezza e di ansia che il soggetto-vittima può colmare solo mediante l'approvazione del manipolatore. La dinamica relazionale alla base della manipolazione quindi è espressione di “ricatto morale”. Nascosto da un'apparente modalità “altruistica” il bisogno fondamentale del manipolatore è quello di umiliare la vittima. Secondo Massimo Lattanzi «È una subdola azione di manipolazione mentale con la quale il gaslighter, mette in dubbio le reali percezioni dell'altra persona facendola sentire "sbagliata"». È difficile riconoscere questo tipo di violenza: è insidiosa, sottile, non se ne percepisce l'inizio, a volte è scusata dalla stessa vittima; non si tratta di ira, che almeno è subito identificabile e magari oggetto d'immediata risposta, anche legale. È una sottile lama che s 'insinua, molte volte, tra la tranquillità delle mura domestiche. È una violenza gratuita e persistente, presente quotidianamente che ha la capacità di "annullare " la persona che ne è bersaglio. Si tratta di un vero e proprio lavaggio del cervello, che pone la vittima nella condizione di pensiero di "meritarsi” quella punizione. Il persecutore instaura con il suo obiettivo una relazione narcisistico-perversa, "deumanizza" la vittima, la manipola, ottenendone il controllo totale, impedendone separatezza ed autonomia. La vittima generalmente attraversa tre fasi: a) la prima fase è caratterizzata da una distorsione della comunicazione. La vittima non riesce a comprendere il manipolatore che utilizzerà modalità diverse e contradditorie (silenzi ostili, alternati ad espressività positiva) che porta disorientamento e confusione; b) la seconda fase è caratterizzata da un tentativo di difesa da parte della vittima che può tentare di chiarire la sua percezione della realtà al manipolatore che ovviamente disconoscerà tale tentativo; c) la terza fase è l'emergere della depressione. La vittima si arrende e si convince che ciò che il manipolatore le presenta corrisponde a verità e le sue percezioni sono ingannevoli e frutto di malattia. Tale situazione risulta ancora di più difficile definizione quando emerge in una relazione in precedenza felice ed equilibrata. In alcuni casi infatti fattori scatenanti (stress e eventi di perdita o frustrazione) possono mettere in crisi il manipolatore, che utilizza tale mezzo per riacquistare fiducia e sicurezza a scapito del partner. La comunità scientifica identifica tre tipologie di manipolatore: a) il manipolatore affascinante che agisce in maniera strategica lusingando la vittima, alternando silenzi ostili a momenti di grande espressione d'amore, disorientandola; b) il manipolatore “bravo ragazzo” che sembra avere a cuore solo il bene della vittima ma in realtà la utilizza per i propri bisogni i propri bisogni; c) l'intimidatore, il più diretto che utilizza il rimprovero continuo, il sarcasmo e l'aggressività diretta per intimorire la vittima e minare la sua autostima e il suo senso di realtà. Lo scopo del comportamento di gaslighting, comune alle tre categorie di manipolatori, è ridurre la vittima a un totale livello di dipendenza fisica e psicologica, annullare la sua capacità di scelta e di autodeterminazione. Fa credere alla vittima di stare vivendo in una realtà che non corrisponde alla realtà oggettiva, la fa sentire sbagliata, mina alla base ogni sua certezza e sicurezza, in sostanza agisce su di lei un vero e proprio lavaggio del cervello. Il manipolato, avendo necessità di approvazione da parte del partner, può reagire in due modi: abbandonando la propria percezione della realtà oppure cercare di portare il gaslighter verso il proprio punto di vista; lo scopo di entrambe le situazioni è paradossalmente, comunque l'approvazione del manipolatore, unico modo per far sentire il manipolato capace e valido annullando così le divergenze tra i due. Proprio per quanto detto finora è difficile che chi è vittima del gaslighter si renda conto della situazione perversa in cui vive e chieda aiuto cosa ancor più vera se si pensa che essa generalmente diventa così dipendente da isolarsi anche a livello sociale per la paura di essere inadeguata o giudicata pazza. La richiesta di aiuto o la capacità di far "aprire gli occhi" alla vittima arriva generalmente da chi le sta intorno, altri familiari, amici o colleghi. Solo allora può iniziare il percorso di ricostruzione della propria identità, della fiducia e del senso di sé. È imprecindibile per quanto descritto, considerare il gaslighting una vera e propria forma di abuso psicologico in quanto il tipo di comportamento messo in atto è una sistematico attività finalizzata a mistificare la realtà della vittima, attività consapevole in quanto le mistificazioni e le menzogne sono ben riconosciute dal manipolatore; negando fatti, eventi e cose dette si arriva al punto da mettere in serio pericolo il benessere emotivo e psicologico della vittima. Le Linee guida per l'accertamento e la valutazione psicologico-giuridica del danno biologico-psichico e del danno da pregiudizio esistenziale dell'Ordine degli Psicologi del Lazio del 2009 indicano, infatti, il gaslighting fra le condotte in grado di determinare un danno psichico-esistenziale a colui che lo subisce. La violenza psicologica sopra descritta è un fenomeno estremamente subdolo per sua natura. La sua presenza è spesso poco valutata e considerata dagli operatori e in ambito giudiziario, soprattutto in situazioni ove la violenza fisica o gli atti persecutori manifesti ne offuscano l'importanza con la loro “prepotente” presenza. Ma risulta ancora più difficile valutarne l'incisività in contesti e situazioni ove la violenza più smaccatamente fisica non è emersa, svalutandone e sminuendone l'importanza anche in termini prognostici (generalmente emerge in una prima fase del ciclo della violenza preparando il terreno alle violenze più esplicitamente fisiche). La violenza psicologica risulta quindi difficile da “vedere”, persino dalle stesse vittime e da chi sta loro intorno, ma le conseguenze emotive, affettive, relazionali possono essere “dirompenti”. Oltre a contribuire al perpetrarsi delle varie altre forme di violenza, permettendo con l'assoggettarsi della vittima e l'affievolirsi della sue capacità, il proseguimento delle stesse, molte sono le conseguenze sulla personalità, sulle competenze sociali, affettive-relazionali dell'individuo ed in termini di vera e propria psicopatologia a medio e lungo termine. Gli aspetti traumatici e fortementi lesivi gli elementi fondanti la propria persona, oltre alle tempistiche spesso protratte per anni, portano a conseguenze psicopatologiche importanti in diverse aree. Nell'area cognitiva emergono spesso indicatori e sintomatologia inerente pensieri ricorrenti, invasivi, ossessivi, incubi, deficit dell'attenzione e concentrazione, stati dissociativi, amnesie. Nell'area comportamentale difficoltà relazionali, comportamenti disadattivi come abuso di alcol, di fumo, di psicofarmaci, disturbi alimentari, comportamenti autolesivi. Oltre ovviamente alle già citate bassa autostima, depressione, senso di inadeguatezza e ansia pervasiva, apatia, incapacità di reagire incapacità di autodeterminarsi. Nell'articolo si è deciso di affrontare l'argomento inserendolo specificatamente nel contesto di violenza nella coppia e dei maltrattamenti in famiglia con una particolare attenzione al ruolo di vittima della donna. Va considerato correttamente che la violenza psicologica nei maltrattamenti in famiglia ha però un ampio campo di azione e i soggetti vittime e carnefici possono variare nei propri ruoli. Nel mobbing famigliare spesso infatti è la donna a prevalere con atti intimidatori nei confronti del partner, con attacchi continui ed intenzionali per estrometterlo da decisioni, sminuendone il ruolo, facendo pressioni per fargli lasciare la casa coniugale, atteggiamenti di disistima, di critica, provocazioni sistematiche, azioni atte a sminuire il ruolo genitoriale, “stalking giudiziario”. O ancora nei confronti dei minori riferendosi a situazioni di violenza assistita o trascuratezza e incuria anche psicologica, essa provoca negli stessi la perdita di capacità di regolazione affettiva, incapacità di rispondere in modo adeguato ai pericoli oltre ad evidenziare sintomatologie cliniche di grande rilevanza correlati a vissuti traumatici conseguenti all'assistere a episodi di violenza fisica, verbale, psicologica. In questi casi tali comportamenti possono essere integrati da uno o l'altro dei genitori o da entrambi. Risulta quindi evidente ed indiscutibile che la violenza psicologica ha una modalità pervasiva ed estremamente pericolosa nell'insinuarsi nelle dinamiche relazionali della coppia/famiglia, basilare ai fini di supportare tutte le altre forme di violenza in quanto, “usando violenza” al cuore e alla mente si può rendere inerme la vittima, fiaccandone le risorse, le capacità di reazione e la volontà di credere in se stessa e in un cambiamento della situazione, condizione imprescindibile per creare il ciclo della violenza. Inoltre le ferite dell'anima incidono in modo pesante nella psiche con conseguenze di rilevanza psicopatologica a volte cronica. Per questi motivi la violenza psicologica dovrebbe essere valutata in modo più attento e rigoroso dagli operatori del settore psicologico e giuridico, sia per finalità preventive, sia per quelle di intervento e supporto alle vittime sia infine di valutazione in termini giudiziari (responsabilità civile e penale degli autori) e risarcitori. 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