Fasi e criticità dell'accertamento genetico
14 Agosto 2015
L'incursione della scienza nel processo penale ha determinato nell'ultimo decennio un sensibile rafforzamento dell'attività investigativa eseguita su piattaforme scientifiche, giungendo finanche a cambiare il “modo” di condurre le indagini. L'indagine genetica è utilizzata in ambito giudiziario per analizzare sia campioni biologici (ossia la quantità di sostanza prelevata da un soggetto vivente) che reperti biologici (cioè quel materiale acquisito sulla scena del crimine). La natura scientifica dell'accertamento suscita tra gli addetti ai lavori e tra la gente una elevata fiducia nel risultato e quindi nella soluzione del caso giudiziario, ma parallelamente può indurre a sopravvalutare la valenza probatoria dei risultati conseguiti. A cambiare non solo il modo di fare le indagini, ma anche il ruolo giocato dall'imputato nell'accertamento dei fatti: egli non è più solo “organo di prova” (contribuendo attivamente all'accertamento e rilasciando dichiarazioni) ma ne è oggetto; il suo corpo diviene campo di indagine, soggetto passivo di subire un atto di coercizione sulla sua persona in quanto servitus iustitiae. È innegabile il prezioso contributo alla “ricerca della verità” che queste nuove tecniche investigative apportano, ma al contempo - e inevitabilmente - tale esigenza istruttoria frustra grandemente l'inviolabilità garantita alla persona dall'art. 13 Cost., nonché la riservatezza dell'individuo, da intendersi non solo come tutela da indebite aggressioni alla sua sfera personale, ma altresì come garanzia in ordine alla circolazione e all'uso pubblico di dati, notizie e informazioni raccolte.
Il bilanciamento degli interessi in gioco è possibile solo articolando il percorso dell'investigazione genetica attraverso una normativa puntuale, che regoli tutte le fasi dell'attività di accertamento, assicurando il rispetto delle procedure dal prelievo del campione biologico fino alla sua distruzione. Tuttavia sono numerosi gli interrogativi che si pongono in ordine alle condizioni che devono esistere per assicurare un risultato valido scientificamente, utilizzabile processualmente e che garantisca la tutela dei diritti fondamentali delle persone coinvolte. Gli accertamenti genetici: il procedimento di acquisizione e repertamento
Gli accertamenti genetici “applicati” alle indagini giudiziarie permettono di “svelare” le prove rimaste silenti sulla scena del crimine. Sono ormai uno strumento irrinunciabile nelle mani degli inquirenti, a mezzo dei quali è possibile analizzare diversi tipi di tracce (essiccate, liquide o assorbite su tessuto) rappresentate dai più comuni liquidi biologici (sangue, sperma, fluido vaginale, saliva) oppure da formazioni pilifere, che possono essere rinvenute sugli oggetti più diversi (tracce di saliva presenti su mozziconi di sigaretta, bicchieri, tazzine, francobolli o gomme da masticare, spazzolini da denti, rasoi, tracce di pelle sotto le unghie, frammenti di unghie, ecc.). Il procedimento concernente l'acquisizione e il repertamento di tale materiale consta di plurime fasi, ciascuna delle quali va regolamentata, sul piano processuale, in maniera espressa e dettagliata, onde preservarne l'affidabilità, in particolare con riferimento alle tecniche acquisitive e di repertamento utilizzate ante processum. La raccolta e il repertamento del materiale organico sulla scena del crimine
Il primo approccio al locus commissi delicti è forse il momento più delicato, capace di determinare la qualità delle indagini. La raccolta del materiale organico nel luogo dove si è consumato il reato ovvero sul corpo della vittima deve essere eseguita esclusivamente dal CSE (Crime Scene Examiner) e deve seguire un rigido protocollo; solo in questo modo è possibile salvaguardare il reperto da fattori di contagio o deterioramento, che potrebbero, in sede processuale, determinarne l'inutilizzabilità.
Non solo il repertamento, ma anche la conservazione del materiale biologico rinvenuto sulla scena del crimine costituisce un passaggio molto delicato nell'ambito delle indagini. Con il termine “catena di custodia” vengono indicati tutti quei passaggi attraverso i quali i confezionamenti transitano dalla scena del crimine al laboratorio, per poi giungere al dibattimento. L'obiettivo è proteggere l'insieme di informazioni che quel reperto possiede, sia da un punto di vista scientifico che processuale. Tutte le fasi della custodia vanno opportunamente documentate.
Estrazione e comparazione dei profili genetici
Dalla scena del crimine al laboratorio. La fase successiva al repertamento, infatti, riguarda l'analisi dei campioni raccolti: si estrae il DNA, applicando le relative procedure, che variano in base al tipo di fonte biologica di provenienza; poi l'estratto considerato “grezzo” viene depurato applicando a quanto ottenuto il protocollo di amplificazione PCR; in ultima battuta si procede al confronto fra gli assetti genetici, calcolando la match probabilità, ovverosia la probabilità di rinvenire a caso nella popolazione un soggetto che presenti le medesime caratteristiche genetiche evidenziate per la traccia (per un profilo genetico a 15-17 marcatori la match probability è stimata in circa 1 soggetto su 10 milioni di miliardi). In alternativa è possibile rappresentare la compatibilità tra profili genetici tramite LR (likelihood ratio), un rapporto di probabilità che ci dirà quanto è più probabile un'ipotesi rispetto all'altra.
Il test del DNA, da diversi anni a questa parte, ha dato prova di essere completamente affidabile ed utilizzabile anche nelle delicate indagini in ambito forense purché vengano rispettati i relativi standards di qualità attraverso le linee-guida e le direttive che a vari livelli vengono emanate dalle comunità scientifiche internazionali e nazionali. Si può affermare, senza timore di smentita, che i polimorfismi del DNA rappresentano attualmente quanto di meglio sia mai stato utilizzato, a fini identificativi, dopo la scoperta delle impronte digitali (di qui, il termine DNA fingerprinting o DNA profiling).
In tale articolato ventaglio di attività, chiara risulta essere la necessità di elevata competenza specialistica degli operatori chiamati a svolgere le attività che ciascuna fase richiede, nonché il puntuale rispetto delle raccomandazioni e delle procedure dettate dalla Società Internazionale di Genetica Forense, onde garantire la genuinità dei dati raccolti. Infatti, è proprio l'attendibilità delle prassi seguite nelle metodiche di laboratorio, il punctum dolens della materia in oggetto: la ricerca e la raccolta dei dati genetici dell'individuo deve essere prima “attendibile” scientificamente, e solo dopo può dirsi processualmente utilizzabile. Parimenti, emerge ictu oculi l'esigenza di un equilibrio normativo tra la necessità di un accertamento attendibile e quella di fornire le opportune garanzie per il soggetto passivo di investigazione scientifica. Ne discende come corollario logico, l'esigenza di una chiara e puntuale disciplina che vede in primo piano norme sull'utilizzabilità dei risultati del test genetico. Le investigazioni genetiche sulla persona
Sono molteplici gli accertamenti genetici eseguibili nel corso del procedimento penale: possono essere condotti in fasi diverse e su iniziativa di differenti soggetti processuali; anche l'oggetto è variabile, potendosi analizzare sia reperti biologici prelevati dalla scena del crimine che campioni biologici estratti direttamente dalla persona, anche in assenza del suo consenso. L'accertamento si atteggerà in concreto come ripetibile o irripetibile a seconda del tipo di attività da porre in essere e della situazione concreta, ricadendo ora nella sfera operativa dell'art. 359 c.p.p., ora in quella dell'art. 360 c.p.p. Di tutti i “modi” dell'indagine genetica, quello che desta maggiore sospetto è il prelievo coattivo c.d. corporale. Esso assume diverse vesti normative. In riferimento alle indagini realizzate dalla p.g., si considerino:
Sempre nel corso delle indagini preliminari, ma guardando all'attività investigativa del P.M., è possibile eseguire:
Da ultimo, benché estraneo alla fase delle indagini, esigenze di completezza impongono di menzionare le specifiche attività di ricognizione delle persone (art. 213 c.p.p.) e la perizia da eseguirsi su corpo umano (art. 220 c.p.p.) A lungo orfani di una disciplina normativa specifica, gli accertamenti genetici sulla persona hanno fatto irruzione nel processo penale, cogliendo di sorpresa il legislatore, e destando non poche perplessità fra gli addetti ai lavori. La lacuna normativa è stata inizialmente – e solo provvisoriamente - colmata dall'intervento della Corte Costituzionale (sent. n. 238 del 1996) che, pronunciandosi in tema di prelievi ematici coattivi, ha ritenuto necessario “tipizzare” ogni forma di restrizione della libertà personale, in ossequio al principio cristallizzato nell'art. 13 Cost.
La Corte, inoltre, sottolineando l'utilità processuale di simili accertamenti, aveva chiaramente invitato il legislatore ad occuparsi di una materia tanto delicata, crocevia di sottili equilibri fra esigenze investigative e tutela dei diritti fondamentali. Un suggerimento, però, che è stato pressoché ignorato per quasi un ventennio. Un timido tentativo in tal senso, invero, si è avuto con d.l. 27 luglio 2005, n. 144, convertito con modifiche in l. 31 luglio 2005, n. 155, che ha introdotto la possibilità per la polizia giudiziaria di procedere al prelievo coattivo di materiale biologico, utilizzabile solo ai fini dell'identificazione personale dell'indagato (art. 349, comma 2-bis, c.p.p.), oppure anche di persona non indagata, ma nell'ambito dei rilievi urgenti di cui all'art. 354, comma 3, c.p.p. L'intervento, apprezzabile, ma pur sempre parziale e circoscritto, non ha soddisfatto la necessità di una disciplina organica della materia, la cui area è stata nel tempo delimitata dall'opera ermeneutica della giurisprudenza di legittimità.
Dopo una lunga attesa è intervenuta la prima legge organica sulla acquisizione e il trattamento della bioinformazione genetica a fini forensi (l. 30 giugno 2009, n. 85), di adesione dello Stato Italiano al Trattato di Prum, volto all'approfondimento della cooperazione transfrontaliera, in particolare allo scopo di contrastare il terrorismo, la criminalità transfrontaliera e la migrazione illegale. L'intervento legislativo ha introdotto nell'ordinamento processuale penale le modalità di intervento per l'asportazione coattiva del frammento biologico da cui estrarre il profilo genetico per la gestione della prova scientifica del DNA e ha contestualmente istituito la banca dati nazionale del DNA presso il Ministero dell'interno e il laboratorio centrale per la banca dati presso il Ministero della giustizia. La novella si pone un duplice obiettivo: regolamentare il profilo genetico, utile prova scientifica nel processo, costantemente in crescita dal punto di vista dell'importanza nelle metodologie investigative; disciplinare i limiti e le garanzie del diritto di una persona, sottoposta ad un procedimento penale, alla riservatezza di un dato personale, nonché all'inviolabilità della sua libertà personale. La banca dati provvede all'attività di raccolta e di raffronto ai fini identificativi del profilo del DNA dei soggetti sottoposti a misure restrittive della libertà personale, dei reperti biologici acquisiti nel corso di procedimenti penali, di persone scomparse o loro consanguinei, di cadaveri e resti di cadavere non identificati. A 6 anni dalla legge istitutiva, il database è finalmente pronto al decollo: il Consiglio dei ministri il 3 luglio 2015 ha dato il via libera allo schema di regolamento attuativo dell'articolo 5 della legge n. 85 del 2009, che disciplina le modalità di funzionamento e di organizzazione della banca dati del DNA. Le aspettative sono altissime, così come le prospettive di utilizzo: dalla riapertura di casi irrisolti alla migliore conduzione di indagini in corso, fino a una maggiore efficacia delle indagini su particolari categorie di reati come quelli a sfondo sessuale dove le tracce biologiche sono determinanti. La disciplina procedurale, ex artt. 224-bis e 359-bis c.p.p., nel rispetto dei limiti costituzionali, prevede che spetti al giudice di disporre l'esecuzione coattiva del prelievo e che, quando l'attività venga espletata nella fase delle indagini preliminari, il magistrato del pubblico ministero debba richiedere l'autorizzazione al giudice per le indagini preliminari e, in casi di urgenza alla disposizione del pubblico ministero deve seguire entro 48 ore la convalida da parte del G.I.P. La novella ha, inoltre, recepito la normativa internazionale sul protocollo di estrazione e comparazione dei profili del DNA, con l'evidente obiettivo di creare sistema comune europeo, finalizzato ad assicurare una attività di comparazione tra campioni provenienti da diversi Stati. Deludenti gli innesti normativi sotto il profilo della regolamentazione dell'attività di polizia giudiziaria e di sicurezza: la disciplina per la ricerca, per l'esame dei reperti biologici staccati dal corpo e per la loro custodia rimane nebulosa. L'obiettivo da realizzare è bilanciare l'esigenza di accertamento della fattispecie criminosa e la necessaria tutela del singolo e della sua libertà personale. Sotto questo angolo visuale, si spiega, ad esempio, la disciplina degli accertamenti idonei ad incidere sulla libertà personale disposti dal pubblico ministero nel corso delle indagini preliminari (art. 359-bis c.p.p.): la coazione del soggetto passivo di prelievo biologico deve essere autorizzata dal gip con ordinanza (salvi i casi di urgenza in cui è ammissibile una ratifica ex post), nel rispetto di limiti funzionali (che si proceda per delitto non colposo per il quale è previsto l'ergastolo o la pena detentiva superiore nel massimo a tre anni e che la perizia sia assolutamente necessaria per l'accertamento dei fatti, ex art. 224-bis, comma 1, c.p.p.) e strutturali (non possono comunque essere disposte operazioni che contrastino con espliciti divieti di legge, che possano mettere in pericolo la vita, l'integrità fisica o la salute della persona o del nascituro ovvero che possano provocare sofferenze di non lieve entità, ex art. 224-bis, comma 4, c.p.p.). L'imposizione di queste rigide preclusioni al prelievo coattivo vale ad identificarlo come extrema ratio, garantendone la tenuta costituzionale. Il codice di rito prevede espressamente che la polizia giudiziaria possa compiere rilievi dattiloscopici, fotografici e antropometrici nonché altri accertamenti tecnici sull'indagato per fini identificativi (art. 349, comma 2, c.p.p.); in via del tutto residuale, quando non soccorrono altre modalità per accertare l'identità dell'indagato o su di essa vi siano dei dubbi, la p.g. è “autorizzata” a prelevare coattivamente capelli o saliva «nel rispetto della dignità personale del soggetto, previa autorizzazione scritta, oppure resa oralmente e confermata per iscritto, del pubblico ministero» (art. 349, comma 2-bis, c.p.p.). Per eseguire le operazioni l'indagato viene condotto negli uffici della polizia giudiziaria e ivi trattenuto per il tempo strettamente necessario a svolgere le operazione e, comunque, non oltre le 12 o le 24 ore (nelle ipotesi di identificazione particolarmente complessa e previo avviso orale al p.m.). Il soggetto ha facoltà di avvisare un familiare. Le operazione vengono verbalizzate ex art. 357, comma 2, lett. e), c.p.p. La norma in commento configura, dunque, un accertamento rientrante fra le attività di p.g. dirette, autonome e non garantite: non è previsto nessun avviso al difensore, è richiesta solo una blanda autorizzazione del pubblico ministero. L'assenza di qualsivoglia guarentigia difensiva potrebbe spiegarsi alla luce della finalità meramente identificativa dell'accertamento: i risultati ottenuti sono teleologicamente orientati ad attribuire un nome ad un volto, non potendo essere utilizzati ultra sedem. Parimenti, a giustificazione della norma, si invoca il carattere oggettivamente e soggettivamente vincolato del prelievo, nonché la sua scarsa invasività: le operazioni, eseguibili sul solo indagato, possono estrinsecarsi nel prelievo di saliva (con un tampone assorbente, l'applicazione sullo stesso di una soluzione chimica, e la valutazione di viraggio del colore per indicare un risultato positivo o negativo) o di capelli (l'esame viene effettuato sulle cellule che circondano il bulbo pilifero, per tale motivo è indispensabile che i capelli siano strappati direttamente dal cuoio capelluto e non caduti spontaneamente). La spiegazione non convince e i prelievi appaiono costituzionalmente sospetti. Innanzitutto non si può ignorare il rischio che i dati genetici acquisiti a seguito del prelievo forzoso, dopo essere stati utilizzati per verificare l'identità dell'indagato, possano essere immessi nel circuito delle indagini, e, conseguentemente, utilizzati anche per altri fini. Non solo. Pur dovendosi riconoscere il basso livello di invasività del prelievo (soprattutto rispetto al prelievo ematico e delle urine), non bisogna dimenticare che non è lo strumento di analisi ex se ad essere lesivo, ma il bene che viola (nel caso di specie, l'intimità, la dignità e la libertà personale). A fronte di ciò, il limite della «dignità umana», benché costituzionalmente riconosciuto e convenzionalmente imposto, ha contorni troppo sfumati, non potendo fungere da efficace contraltare ad una disciplina così scarna di garanzie. Vero è che si assiste ad un costante ed esponenziale aumento dei reati legati al rifiuto di farsi identificare o al rilascio di false generalità (anche in conseguenza dei massicci fenomeni di immigrazione clandestina), ma situazione emergenziali non possono giustificare un deficit difensivo.
La polizia giudiziaria può, inoltre, ai sensi dell'art. 354, comma 3, c.p.p. eseguire il prelievo di materiale biologico sull'indagato ovvero terze persone, nei casi d'urgenza, quali il pericolo di modificazione o dispersione di tracce ovvero elementi di prova asportabili dal corpo dell'interessato ovvero nei casi in cui il magistrato non possa intervenire tempestivamente ovvero non abbia ancora assunto la direzione delle indagini. Un'esegesi sistematica, rispettosa dei principi costituzionali, impone di ritenere prelevabili i soli campioni di saliva o capelli, dovendosi escludere qualunque altro materiale asportabile dal corpo umano quindi, sangue e tessuti biologici, per mezzo di modalità cruente o comunque invasive cioè superando il limite fisico dell'individuo. Anche in questa ipotesi, la legittimità della coazione si giustifica sulla base della scarsa incisività delle operazioni: la raccolta di saliva, ad esempio, non è qualificabile come attività invasiva, poiché l'asportazione del materiale biologico non crea continuità tra l'organismo e ciò che è esterno, ma comunque presuppone una minima attivazione fisica del soggetto, che deve collaborare aprendo o socchiudendo la bocca; legittime le incertezze, dato che non appare lecitamente coercibile il facere ma solamente il pati. Il diritto di difesa sembra garantito dall'art. 356 c.p.p., che prevede la facoltà per il difensore dell'indagato di assistere. È una guarentigia troppo scarna: innanzitutto è rivolta al solo procuratore della persona sottoposta alle indagini; in secondo luogo non è previsto alcun avviso preventivo. Le autorità di p.g. sono tenute a redigere un verbale (art. 357, comma 2, lett e), c.p.p.) da depositare non oltre il terzo giorno presso la segreteria del p.m. (art. 366, comma 1, c.p.p.). Quanto poi alle forme ed alle modalità del prelievo l'art. 354, comma 3, c.p.p., opera sistematicamente un rinvio alle disposizioni sull'identificazioni dell'indagato.
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