Riparto dell'onere della prova e ricadute del principio della vicinanza della prova
07 Luglio 2022
Massima
Il principio di vicinanza della prova non deroga alla regola di cui all'art. 2697 c.c. (che impone all'attore di provare i fatti costitutivi del proprio diritto e al convenuto la prova dei fatti estintivi, impeditivi o modificativi del diritto vantato dalla controparte) ma opera allorquando le disposizioni attributive delle situazioni attive non offrono indicazioni univoche per distinguere le suddette due categorie di fatti, fungendo da criterio ermeneutico alla cui stregua i primi vanno identificati in quelli più prossimi all'attore e dunque nella sua disponibilità, mentre gli altri in quelli meno prossimi e quindi più facilmente suffragabili dal convenuto, di modo che la vicinanza riguarda la possibilità di conoscere in via diretta o indiretta il fatto, e non già la possibilità concreta di acquisire la relativa prova.
Il caso
Una società conveniva in giudizio l'Assessorato al lavoro della regione siciliana chiedendo il pagamento della somma corrispondente agli sgravi contributivi per l'assunzione di lavoratori nell'ambito di contratti di formazione lavoro. La domanda era rigettata in entrambi i gradi di merito sul rilievo che lo sgravio contributivo era connesso solo per la assunzioni non connesse ad una operazione di investimento. Proposto ricorso in Cassazione, anche il giudice di legittimità rigettava la domanda sul rilievo che il ricorrente avrebbe potuto avere lo sgravio contributivo solo se avesse provato che le assunzioni non erano legate ad investimenti, essendo irrilevante che si trattava di provare un fatto negativo. La questione
La questione in esame è la seguente: il principio di vicinanza della prova deroga alla regola di cui all'art. 2697 c.c.? Le soluzioni giuridiche
La regola prevista dall'art. 2697 c.c. è espressione del c.d. principio di prossimità o vicinanza, in origine utilizzato dalla giurisprudenza per distinguere i fatti costitutivi della pretesa (identificati con quelli che sono nella disponibilità dell'attore, che il medesimo ha l'onere di provare) dai fatti estintivi o modificativi o impeditivi (identificati con quelli che l'attore non è in grado di provare e che, pertanto, debbono essere provati dalla controparte). Il c.d. principio di vicinanza della prova prevede che l'onere della prova debba essere ripartito tenendo conto in concreto della possibilità per l'uno o per l'altro dei contendenti di provare circostanze che ricadono nelle rispettive sfere d'azione, per cui è ragionevole gravare dell'onere probatorio la parte a cui è più vicino il fatto da provare. Secondo la Cassazione, l'onere della prova ex art. 2697 c.c. non subisce deroghe: «l'onere probatorio gravante, a norma dell‘art. 2697 c.c., su chi intende far valere in giudizio un diritto, ovvero su chi eccepisce la modifica o l'estinzione del diritto da altri vantato, non subisce deroga neanche quando abbia ad oggetto "fatti negativi", in quanto la negatività dei fatti oggetto della prova non esclude né inverte il relativo onere, gravando esso pur sempre sulla parte che fa valere il diritto di cui il fatto, pur se negativo, ha carattere costitutivo; tuttavia, in tal caso la relativa prova può esser data mediante dimostrazione di uno specifico fatto positivo contrario, od anche mediante presunzioni dalle quali possa desumersi il fatto negativo» (Cass. civ., n. 9201/2015). Nei rapporti bancari, la Suprema Corte ha ribadito che «il principio di prossimità o vicinanza della prova, in quanto eccezionale deroga al canonico regime della sua ripartizione, secondo il principio ancor oggi vigente che impone (incumbit) un onus probandi ei qui dicit non ei qui negat, deve trovare una pregnante legittimazione che non può semplicisticamente esaurirsi nella diversità di forza economica dei contendenti ma esige l'impossibilità della sua acquisizione simmetrica, che nella specie è negata proprio dall'obbligo richiamato dall'art. 117 TUB, secondo cui, in materia bancaria, «i contratti sono redatti per iscritto e un esemplare è consegnato ai clienti» (Cass. civ., n. 6511/2016; Cass. civ., n. 17923/2016). Quanto alla dottrina, con riguardo al rapporto tra l'art. 2697 c.c. e il principio della vicinanza dell'onere della prova, si sono confrontati distinti approcci: per taluni, il principio potrebbe essere tanto interno all'art. 2697 c.c., interpretandolo come una possibilità per coloro che vogliono far valere un giudizio di provare i fatti ma, qualora non riuscissero, graverebbe tale onere alla controparte; quanto esterno, come nel caso della responsabilità medica, ove «costituisce un temperamento della partizione tra fatti costitutivi e fatti estintivi, modificativi od impeditivi del diritto: il fatto, quindi, mantiene la sua qualificazione, ma il criterio esterno alla norma fa sì che della dimostrazione dello stesso la parte sia esonerata»; talaltri affermano che tale principio sia integrativo dell'art. 2697 c.c. dal momento che si prevede che, nel caso in cui per l'attore sia difficile provare il fatto, l'onere incomba su colui la cui posizione è più prossima, più vicina, alla fonte di prova; alcuni affermano, invece, che il principio di vicinanza della prova sia una deroga all'art. 2697 c.c. Nondimeno, va segnalato che, in alcune sue pronunce, la Cassazione ha affermato che lo stesso criterio di vicinanza della prova viene talora scollegato dal disposto dell'art. 2697 c.c. e utilizzato come un temperamento della partizione tra fatti costitutivi e fatti estintivi, modificativi od impeditivi del diritto, idoneo a spostare l'onere della prova su una parte diversa da quella che ne sarebbe gravata in base a detta partizione (Cass. n. 20484/2008: «l'onere della prova deve essere ripartito, oltreché secondo la descrizione legislativa della fattispecie sostanziale controversa, con l'indicazione dei fatti costitutivi e di quelli estintivi o impeditivi del diritto, anche secondo il principio della riferibilità o vicinanza, o disponibilità del mezzo»). Per una sorta di eterogenesi dei fini, il criterio della vicinanza, pur originato dalle regole probatorie previste per legge, acquisterebbe così una vita autonoma, essendo addirittura capace, all'occorrenza, di modificare gli assetti stabiliti dall'art. 2697 c.c. La Corte di Cassazione ha anche affermato che l'onere probatorio non subisce deroga neppure quando abbia ad oggetto “fatti negativi”; e ciò ammettendo, in un'ottica di semplificazione del compito probatorio, che in tal caso la relativa prova possa essere data mediante dimostrazione di uno specifico fatto positivo contrario, o anche mediante presunzioni dalle quali possa desumersi il fatto negativo. Più di recente e in materia di contenzioso bancario, la stessa Corte Suprema ha statuito che il principio di prossimità o vicinanza della prova costituirebbe invece un'eccezionale deroga al canonico regime della sua ripartizione, e in quanto tale «deve trovare una pregnante legittimazione che non può semplicemente esaurirsi nella diversità di forza economica dei contendenti ma esige l'impossibilità della sua acquisizione simmetrica»(Cass. civ., n. 6511/2016; Cass. civ., n. 17923/2016). Alla luce delle precedenti diverse ricostruzioni, sembra confermata almeno la tradizionale regola “negativa non sunt probanda”, secondo la quale, in linea tendenziale, non andrebbero provati i fatti negativi. In alternativa, tuttavia, per suffragare la propria pretesa sarà opportuno valutare la possibilità di dar prova di fatti positivi contrari, come ha suggerito la giurisprudenza. Si ritiene che tenere a mente questa regola sia la soluzione migliore per l'applicazione equa e ponderata del regime relativo all'onere della prova. Secondo tale principio l'onere della prova va ragionevolmente a gravare sulla parte che ha “più vicina” la prova, tenendo conto, in concreto, della possibilità dei singoli soggetti in giudizio di provare i fatti ricadenti nelle rispettive sfere di azione. Osservazioni
L'art. 2697 c.c. individua quattro tipologie di fatti che possono costituire oggetto di prova: fatti costitutivi, impeditivi, modificativi ed estintivi. La suddivisione in commi dell'articolo viene in aiuto nel delineare una distinzione ulteriore interna alla quadripartizione summenzionata, che costituisce il fulcro della disciplina sull'onere della prova: --a) il comma 1, infatti, evidenzia che è onere di chi vuole far valere un diritto in giudizio provare i fatti costitutivi della propria pretesa; --b) il comma 2, invece, nella sostanza dispone che è onere di colui che resiste alla pretesa altrui dar prova dei fatti impeditivi, modificativi ed estintivi della pretesa della controparte. Risulta chiaro che, in generale, la prova dei fatti costitutivi è propria di chi “pretende”, mentre la prova dei fatti impeditivi, estintivi e modificativi è propria di chi “contesta”. Tenendo presente quanto detto sopra, non bisogna cadere nella tentazione di definire semplicisticamente “attore” chi vuole far valere un diritto in giudizio, e “convenuto” chi resiste alla pretesa altrui. Sebbene infatti, convenzionalmente, i termini “attore” e “convenuto” indichino rispettivamente colui che agisce in giudizio e colui nei confronti del quale è rivolta la principale domanda attorea, la vicenda processuale concreta è spesso una vicenda complessa, nella quale coesistono domande principali, domande riconvenzionali e rispettive eccezioni. Può dunque accadere che, per esempio, “chi vuole far valere un diritto in giudizio” non sia l'attore, bensì il convenuto, il quale, cogliendo l'occasione del giudizio, rivolga al giudice una domanda riconvenzionale (art. 36 c.p.c.). Tale precisazione ci permette di chiarire perché non avrebbe senso cercare di stabilire una volta per tutte a chi spetta l'onere probatorio tra l'attore e il convenuto. Esso infatti graverà ora sull'uno e ora sull'altro, e relativamente ai fatti costitutivi, impeditivi, modificativi ed estintivi, a seconda dei loro intenti (domandare o eccepire?). In base ad un consolidato e condiviso orientamento di legittimità, il principio secondo cui la ripartizione dell'onere della prova deve tenere conto, oltre che della partizione della fattispecie sostanziale tra fatti costitutivi e fatti estintivi od impeditivi del diritto, anche del principio - riconducibile all'art. 24 Cost., e al divieto di interpretare la legge in modo da rendere impossibile o troppo difficile l'esercizio dell'azione in giudizio - della riferibilità o vicinanza o disponibilità dei mezzi di prova (Cass. civ., n. 486/2016). Il principio della vicinanza della prova è stato elaborato dalla giurisprudenza per dare concreta attuazione dell'art. 24 Cost. e al divieto di interpretare la legge in modo da rendere impossibile o troppo difficile l'esercizio dell'agire in giudizio (Cass. civ., sez. un. n. 13533/2001 in motivazione; Cass. civ., n. 6008/2012 e Cass. civ., n. 486/2016 che si sono espresse in tema di contratto di agenzia) ed esso soccorre solo nel caso in cui la parte abbia una difficoltà oggettiva nel dare la prova del fatto, non invece nell'ipotesi in cui la difficoltà dipenda da una condotta negligente della parte. Il principio della vicinanza della prova prevede che l'onere della prova gravi sulla «parte nella cui sfera si è prodotto l'inadempimento ovvero che, per la sua posizione, si trova più vicina alla fonte di prova», «tenendo conto, in concreto, della possibilità per l'uno o l'altro soggetto di provare i fatti che ricadano nelle rispettive sfere di azione». Ciò significa che, al fine di provare un fatto, l'onere della prova potrà incombere sul soggetto che è più prossimo, vicino, alla fonte di prova. La ratio del principio di vicinanza della prova si rinviene nella necessità di garantire a tutti, in egual misura, la possibilità di agire in giudizio per tutelare i propri diritti soggettivi e i propri interessi legittimi i quali non sarebbero tutelati qualora l'attore, sul quale generalmente grava l'onus probandi, fosse costretto ad una probatio diabolica. Riferimenti
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